I ciànt la mé vôs
Dire dello sguardo è sempre una questione epistemologica, poiché è domandarsi dell’esistenza delle cose, di quanto è apparentemente altro dal soggetto sporto a conoscere mediante l’occhio o la lente, e dunque del conoscere. Come il rosone nella facciata di una chiesa che diviene mezzo di un inveramento luminoso dall’esterno verso l’interno. Poi, però, ci sono i canti, suono che si fa parola ridetta in musica. E allora che cos’è l’orecchio e il sentire?
In una mattina dell’estate del 1941 io stavo sul poggiolo esterno di legno della casa di mia madre. Il sole dolce e forte del Friuli batteva su tutto quel caro materiale rustico… su quel poggiolo o stavo disegnando (…), oppure scrivendo versi. Quando risuonò la parola rosada. Era Livio, un ragazzo dei vicini oltre la strada, i Socolari, a parlare. Un ragazzo alto, d’ossa grosse… proprio un contadino di quelle parti… ma gentile e timido come lo sono certi figli di famiglie ricche, pieno di delicatezza. (…) La parola rosada non era che una punta espressiva della sua vivacità orale. Certamente quella parola, in tutti i secoli del suo uso nel Friuli che si stende al di qua del Tagliamento, non era mai stata scritta. Era stata sempre e solamente un suono. Qualunque cosa quella mattina io stessi facendo, dipingendo o scrivendo, certo mi interruppi subito. (…) E scrissi dei versi, in quella parlata friulana della destra del Tagliamento, che fino a quel momento era stata solo un insieme di suoni: cominciai per prima cosa col rendere grafica la parola rosada.
Se il percorso poetico in lingua e in terra friulana di Pier Paolo Pasolini lascia qualcosa, al di là di questioni storiografiche e di critica della letteratura, è una presa di coscienza diversa del soggetto nella lingua e nel luogo, del soggetto in cui nasce, da suono, una parola. Un immettersi in un’identità di voce della comunità per fermarla in parola scritta, in un’esperienza del singolo che le attribuisce un nome e un cognome. Quella parlata friulana della destra del Tagliamento menzionata nella citazione precedente fino ad allora era oralità, ovvero gesto di fede e trasmissione indubitabile interno a una comunità, al punto che nessuno si era posto mai la domanda di doverla scrivere, poiché essa era già viva in una totale identità tra il singolo parlante e la comunità di appartenenza. Rosada era parola – voce di una comunità e di un luogo e nel contempo parola – voce del singolo (ad esempio, il ragazzo Livio) che in quel momento la pronunciava. In Pier Paolo Pasolini, nella sua scrittura friulana e prima di un discorso forzatamente ideologico e linguistico del suo periodo dialettale romano, sembra esserci coscienza di questa frattura interna al soggetto tra voce dell’individuo e voce della comunità. La parola diventa grafica.
«Chi vuole comprendere il poeta/ deve recarsi nella terra del poeta» scrive Goethe. Tutte queste domande intorno a un orecchio che sente e al rapporto tra voce e parola scritta in quel dî rosada restano aperte in un passaggio di consegne pasoliniano. Chiedono di essere rifatte con una soggettività ancora diversa e con un rapporto dell’individuo con il luogo e la comunità ulteriormente mutato. Come non porle a chi scrive poesia in terra friulana, a chi tra loro vorrà ascoltare?
Carlo Selan
Lingua antica, rurale – Michele Obit
Nominare con i nomi-Rosada – Flavio Santi