È indubbio, secondo il mio punto di vista, che la produzione poetica in Friuli abbia raggiunto, con Pasolini, una delle sue vette più alte. Negli anni ‘40 del secolo scorso egli scelse di servirsi di un friulano (nella sua variante casarsese) quasi esclusivamente parlato per innestarlo in una tradizione poetica europea. Oggi luoghi e collettività sono profondamente mutati, con tutto ciò che questo comporta. Viene spontaneo perciò interrogarsi su quali siano state le conseguenze, con direzioni e declinazioni differenti, nella poesia successiva. Sono molti gli autori che si potrebbe menzionare: da Amedeo Giacomini a Pierluigi Cappello, da Gianmario Villalta a Mario Benedetti, da Ida Vallerugo a Ivan Crico. Per motivazioni di spazio tuttavia non mi dilungherò ulteriormente, lasciando ad una sede più consona tale trattazione, con la consapevolezza che questo discorso possa essere approfondito e argomentato in maniera interessante.
Le domande da cui partire sono varie. Come si esprime nella contemporaneità il rapporto del singolo soggetto scrivente con la comunità, il luogo e la lingua parlata? Come questi ultimi confluiscono e diventano parola poetica negli autori che oggi si approcciano, in Regione, alla scrittura? È ancora valido ai giorni nostri parlare di scrittura in rapporto ad una territorialità (e alla sua comunità), in un’area relativamente ristretta dal punto di vista geografico come quella del Friuli?
Nel tentativo di rispondere direttamente o indirettamente a tali quesiti, vorrei riportare alcune considerazioni partendo dalla mia scrittura, con la speranza di riuscire anche a gettare le basi per una riflessione su temi che considero fondamentali nel dibattito attuale.
Poeticamente parlando la mia scelta linguistica, come quella di molte autrici e autori friulani appartenenti alla mia generazione, è ricaduta sull’italiano. Nonostante si possa pensare che ciò sia dovuto ad un uso sempre più marginale sia dal punto di vista poetico che quotidiano delle parlate locali, tale decisione trova le sue ragioni all’interno di un contesto familiare non del tutto usuale. Essendo io nato da una madre di origini venezuelane e da un padre, nello specifico, friulano, l’italiano è sempre stato vissuto da me come la lingua dell’incontro, del dialogo, non soltanto in un senso strettamente comunicativo, ma, se si considera il linguaggio come uno strumento di interpretazione ed elaborazione di ciò che è altro da noi, anche dal punto di vista dell’approccio alla realtà. Un italiano quindi che ha di certo saputo contaminarsi: con parole rubate al friulano e al territorio, con neologismi impiantati dallo spagnolo; ma anche e soprattutto con prospettive extra-linguistiche e culturali differenti. Ciò mi porta a dire che, a differenza di una lingua comune e collettiva, esercitata nel quotidiano delle esperienze extra-familiari, il mio italiano privato ha sempre avuto una naturale tendenza allo scardinamento, nonché una capacità di sottrarsi parzialmente ad una standardizzazione della parola. Nonostante la mia non sia di certo una situazione di estrema rarità, assistere negli anni dell’infanzia e della formazione linguistica al rapporto che mia madre stava costruendo con l’italiano (l’impiego scorretto di alcuni termini, la rielaborazione più disparata dei significati e l’invenzione di altri del tutto nuovi, l’uso spesso svincolato e soggettivo sia della pronuncia sia della punteggiatura), mi ha rivelato un utilizzo del linguaggio che, non posso negare, ha lasciato in me una traccia di potenziale libertà nell’approcciarmi ad esso.
Il friulano, che per territorialità sento forse più vicino linguisticamente rispetto allo spagnolo, è invece sempre stato vissuto da me come una lingua mancata, osservata da fuori, mai davvero praticata con familiari o coetanei. Non facendone quindi alcun uso quotidiano, solamente un ascolto attento e affinato negli anni mi ha permesso di conoscerne (o, si potrebbe dire quasi, di rubarne) le espressioni e di ammirarne una certa capacità sintetica e musicalità intrinseca.
Tutto ciò, in un modo o nell’altro, penso possa aver agito nel predispormi ad un incontro fruttuoso con la parola poetica. Non voglio però dilungarmi su questioni prettamente personali, che definirei forse più di approccio che di uso concreto della lingua.
L’italiano quindi ha significato ed è per me, nel senso già ribadito, dialogo. Può dunque essere utile ora soffermarsi sulla raccolta poetica a cui sto lavorando (dal titolo Queste poche parole) per riportare alcuni esempi concreti di come, quanto precedentemente espresso, si espliciti nella mia scrittura.
Tra i vari temi trattati all’interno della raccolta è presente il tentativo di porre in dialogo più generazioni, con l’obiettivo di rappresentarle all’interno della contemporaneità. In questo la componente dialettale è presente in modo sporadico, volutamente frammentario. Due sono i casi in particolare: nel primo troviamo un interlocutore che si rivolge all’Io poetico («Satu, Ricut, mi soi propit stufade / des besties»1); nel secondo viene citata una vecchia filastrocca insegnatami nell’infanzia («Gri gri / salte fûr dal to taniĉ / ve’ to pari ve’ to mari che si dàn / cun la forcje dal ledàn.»2).
In entrambi gli esempi riportati il friulano non proviene dal soggetto scrivente, ma ad esso è rivolto. E soprattutto, che sia attraverso l’uso del discorso diretto o tramite la citazione di una cantilena per bambini, esso rimane confinato all’interno della colloquialità. Troviamo in questi casi infatti esplicitato il proposito, in forme ovviamente differenti, di dare uno spazio all’interno della parola poetica a quella lingua mancata, o rubata, descritta in precedenza. Ma il discorso verte altresì su una questione generazionale, forse legandosi anche alla mia esperienza personale: non c’è dubbio che la figura dei miei nonni, essendo stati i pochi che ho ascoltato all’interno della mia famiglia esprimersi con una certa continuità in friulano, abbia contribuito a rappresentare (piuttosto semplicisticamente, lo ammetto) nel mio immaginario la loro generazione tramite quella parlata.
Vorrei ora concentrarmi su un’ulteriore questione riguardante la mia scrittura, a mio parere meritevole di attenzione. Nell’intero corpo dei testi vi è un ritorno continuo, anche se non in maniera sistematica e precisa, ad alcune parole, ad alcuni temi: mani, luce, finestra, attesa, sguardo, dire, silenzio. Lo stesso titolo della raccolta, Queste poche parole, che riprende anche parte di un verso di una poesia contenuta all’interno della stessa, riflette infatti l’intenzione di esprimere, in modo volutamente implicito, un concetto molto semplice: le parole rimangono sempre, nonostante varino i contesti extralinguistici nei quali le utilizziamo. In questi testi si parla infatti di cambiamento, di cose che lasciano spazio ad altre cose, ma allo stesso tempo è presente la costante del linguaggio, che ci permette comunemente di rielaborare quanto esperito all’interno delle nostre vite e soprattutto di coglierne il mutamento.
Ci si chiederà, a questo punto, quali relazioni possano concretamente sussistere tra la mia scrittura e l’esperienza poetica friulana di Pasolini.
Innanzitutto, provando ad abbozzare alcune brevi riflessioni, mi trovo costretto ad ammettere una sostanziale distanza da tale produzione poetica (anche se non totale), dovuta in prima battuta proprio ad una questione, come già trattato, biografico-linguistica. All’interno dei miei testi, infatti, il soggetto poetico viene posto arbitrariamente in una posizione di effettiva lontananza (o di ricezione passiva) nei confronti della parlata friulana. Tutto ciò non è assolutamente dovuto ad una valutazione negativa del dialetto e delle sue possibilità espressive, ma ad una chiara volontà di allontanare e distinguere l’Io da una porzione non trascurabile del contesto linguistico che lo circonda, soprattutto a livello generazionale, con l’obiettivo di evidenziare una frattura proprio sul piano dell’estrinsecazione e rielaborazione della realtà esperita, per mostrarne in seguito alcune occasioni di ricongiungimento.
Pasolini pone inoltre le basi della propria poesia in una condizione di strettissimo rapporto con il Friuli e la sua gente. Egli non può concepire la sua vocazione poetica come altro dall’appartenenza alla sua terra: si affaccia in questo mondo nuovo, sconosciuto eppure fortemente desiderato, cercando di appartenervi e allo stesso tempo temendo di sentirsene escluso. E in questo processo il dialetto gioca un ruolo fondamentale: nella costante volontà di appropriazione del reale e dei fatti umani attraverso la poesia, Pasolini vede nel friulano parlato a Casarsa l’opportunità di una lingua pura che, avendo vissuto fino ad allora all’interno di una dimensione solamente orale, non è stata corrotta da una coscienza poetica che l’abbia portata ad un punto di estrema consumazione. Evitando perciò quel “Je ne sais plus parler” di rimbaudiana memoria3 ed esprimendo la vita che lo circonda attraverso una lingua più vicina ad essa, è possibile per l’autore ritrovare le fonti stesse dell’essere e dello stare al mondo. Anche in questo caso non posso negare una discrepanza rispetto alla mia poetica, alla base della quale non vi è infatti la ricerca esplicita di una lingua assoluta, quasi originaria, che sia elevata da una condizione quotidiana di oralità; né si presenta tantomeno l’urgenza di sottrarla all’effetto corruttivo operato dalla tradizione letteraria. Consapevole dei limiti e delle possibilità che ciò comporta, tenendo però in considerazione l’influenza che il contesto familiare ha esercitato in alcuni miei meccanismi interpretativi ed espressivi, preferisco servirmi di un italiano che aderisca a una realtà linguistica più prossima possibile allo stato attuale in cui si presenta e viene impiegata. È proprio muovendomi e lavorando all’interno di quest’ultima che vedo la possibilità di rappresentare il reale e tradurre l’urgenza degli stimoli che giungono dalla vita, a volte uniformandomici attraverso l’utilizzo di un lessico semplice, vicino ad un registro quotidiano o ricorrendo in alcuni casi anche al discorso diretto; altre volte cercando di torcerla tramite un uso forzato della punteggiatura, non sempre grammaticalmente corretto, con l’obiettivo di spezzare al suo interno il verso e il discorso.
Emerge tuttavia un’ultima questione interessante se si considera in particolare il friulano utilizzato da Pasolini, soprattutto nella prima pubblicazione di Poesie a Casarsa (1942): esso può essere definito più correttamente un idioletto, ovvero una lingua privata dello stesso autore che, lo scrive egli stesso, si presenta come un’invenzione «del parlato casarsese insieme a una koinè friulana e una specie di linguaggio assoluto, inesistente in natura»4. Un friulano che si innesta certamente su tale variante, ma che presenta una non trascurabile presenza di vocaboli che sono stati modificati, per esigenze metrico-fonetiche, a tal punto da non avere corrispondenza nel parlato.
Dunque, sulla base di quanto scritto finora, il principale contributo che la lettura della produzione dialettale di Pasolini ha portato all’interno della mia scrittura credo sia effettivamente riscontrabile nella tendenza comune a considerare il proprio dettato poetico sulla base di una lingua privata, individuale (nel mio caso, appunto, più derivante forse dall’ambito familiare), sebbene la sua operazione e la mia, descritta nelle righe precedenti, non siano di certo confrontabili per quanto riguarda gli intenti iniziali o gli esiti conseguiti.
Mi rendo conto di aver omesso alcune questioni e di averne trattato altre in modo piuttosto parziale, ma ciò è dovuto prevalentemente a motivi di spazio. Sperando di aver comunque abbozzato una risposta adeguata sia al quesito postomi in principio sia a quelli emersi durante questa riflessione, mi piacerebbe infine terminare questo contributo riportando qui di seguito il testo che chiude la mia raccolta in versi e che raccoglie e sintetizza molti dei temi trattati, importanti nella mia esperienza poetica: il linguaggio come mezzo principale di approccio e rielaborazione di ciò che è altro da noi; il rapporto fondamentale dell’Io, della propria identità con la realtà esperita (tradizione, territorio, comunità, cambiamento).
Enrico Giacomini
Giorni venuti così, e poi anni,
a imitare un futuro. Questo siamo
diventati. Dentro una lingua mancata,
nelle azioni precise, imparate in silenzio.
Siamo stati gli occhi sulle mani che smettono
e mostrano il vuoto. Le voci, le luci gialle
dei bar. Sempre è il gelo dei cortili, infilato
sotto i vestiti. L’andare dentro il restare.
Ma essere qui non è ansia di aderire, o nominare.
Se l’albero anche quest’anno fiorirà, verremo
da luoghi mai davvero appartenuti. E noi,
queste poche parole. A volte è soltanto
potersi dire attraverso.
1 Sai, Enrichetto, mi sono proprio stufata / degli animali.
2 Grillo grillo / salta fuori dalla tana / guarda tuo padre guarda tua madre come si menano / con la forca da letame.
3 Cfr. Pasolini P. P., Volontà poetica ed evoluzione della lingua in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano, Mondadori, 1999 – pp. 160-161
4 Pasolini P. P., Nota a La meglio gioventù in Id., Tutte le poesie, a cura di W. Siti, Milano, Mondadori, 2003 – p. 159