Scrive da qualche parte W. H. Auden che la formazione di un poeta segue regole proprie e direzioni indipendenti dalla manualistica della storia letteraria. Nella sua costituzione non si capisce bene cosa venga prima e cosa dopo: un madrigale seicentesco può ben essere contemporaneo a un saggio sulla teoria delle stringhe; né si scorge alcun rispetto gerarchico, anzi, un certo qual ordine, è vero, si ravvisa, seppure in maniera caotica: un oscuro scribacchino di campagna può ben essere altrettanto, se non più, degno della considerazione del poeta, rispetto all’effigie acclamata dalla critica intera. È impresa difficile ripercorrere o anche solo rintracciare i fiumi carsici che compongono il profilo di un poeta, che partecipano e alimentano il corso vigoroso della sua poetica; opera da speleologo dello spirito o da indagatore di anime è rievocare le voci che hanno lasciato traccia nella scatola nera della personalità del suddetto autore, spesso inconsapevole egli stesso dell’effetto prodotto da un sussurro udito una volta chissà quando chissà dove, o di una breve frase, un paragrafo, due righe appena, un emistichio, il ritmo di una stanza di un poema di 600 lasse, che chissà come hanno solcato il disco rigido della memoria inconscia, di chissà quale circuito neuronale che, d’improvviso, un giorno, fa decidere al suddetto autore: scriverò così, scriverò di questa cosa qui e la scriverò in questo modo e non in un altro.
“In una mattina dell’estate del 1941 io stavo sul poggiolo esterno di legno della casa di mia madre (…), quando risuonò la parola rosada”: Pasolini descrive in questo modo, in poche righe, l’irruzione dell’evento numinoso che fece sì che un intero mondo (contadino, materno, astorico) si rivelasse alla sua coscienza, e prima ancora che alla sua coscienza al suo intuito, tale per cui sentisse l’esigenza impellente di rendere quel suono che stava aprendo prospettive nuove, lingua, scrittura: “qualunque cosa quella mattina io stessi facendo, dipingendo o scrivendo, certo mi interruppi subito. (…) E scrissi dei versi, in quella parlata friulana della destra del Tagliamento, che fino a quel momento era stata solo un insieme di suoni: cominciai per prima cosa col rendere grafica la parola rosada.” Nella riscrittura egocentrica dell’episodio (ma di esagerazioni, riscritture e rimozioni è fatto l’individuo, tanto più se questo individuo alimenta il proprio fare creativo con brani del proprio “sé”), che subisce l’inevitabile deformazione estetica dell’autore che post festum ricompone il ricordo affinché coincida con l’immagine di sé, è descritto in maniera precisa l’aspetto sorgivo di un inconscio che, data l’occasione-spinta, prorompe e, se l’autore ha sufficiente talento come indubbiamente in questo caso, l’impossibilità di opporsi al richiamo di una via appena appena tracciata, debole ma potenzialmente fertile.
La scintilla che fa detonare gli ingredienti esplosivi è, come abbiamo detto, imprevedibile ma con ciò non siamo autorizzati a ritenere il processo totalmente spontaneo. Quest’ultimo, anzi, è controllatissimo, e a più livelli. Innazitutto i componenti della miscela devono essere già presenti, come frutto di cultura, di letture, di esperienze individuali metabolizzate e assorbite. Inoltre, la capacità di individuare dai frammenti di realtà che la detonazione produce un disegno coerente è opera del talento, che, a sua volta, è predisposizione impiegata nel proprio percorso di (auto-)formazione. Allo stesso stimolo le reazioni possono essere molto diverse a seconda del contesto.
Precipitato di spazio e tempo, la lingua, qualsiasi lingua, prevede uno sviluppo diacronico e sincronico differenziato in dipendenza dal luogo del suo utilizzo. Nella parola “rosada” confluiva lo sviluppo di un’intera civiltà: dalle prime popolazioni che abitarono i luoghi della destra Tagliamento, transitarono le legioni romane, le rovinose discese barbariche, lo sviluppo della civiltà contadina feudale, lo squasso provocato dalle orde ottomane e i conseguenti ripopolamenti e le migrazioni di altre genti, il dominio veneziano e via via i periodici mutamenti provocati da carestie, malattie e guerre. L’arco storico (e preistorico) si condensava nella parola “rosada”, tale per cui, come dice Pasolini, era necessario (necessario per il suo genio autorale, si intende) scrivere quella parola, farla diventare codice letterario (sebbene Pasolini non sia nel giusto quando asserisce di essere il primo a dare forma scritta al dialetto, certamente, è uno dei primi moderni, con la consapevolezza storica – di mezzo un’intera epoca di storicismo europeo – moderna che compiutamente utilizza un codice per l’intera gamma di implicazioni sociali, storiche e linguistiche che ciò comporta). Da pochi decenni, protetto dai boschi della Schwarzwald, Heidegger aveva appena esplorato la coincidenza di luogo, linguaggio e identità. Ciò che si manifesta nella lingua è la comunità stessa di un dato luogo, di uno spazio terreno testimone dell’esserci. E l’individuo costituisce, in questo sistema organizzato, il custode della tradizione che a sua volta parla attraverso la lingua. Ma ciò che risulta assente in questo panorama è il modo in cui l’individuo possa introdursi lungo il sentiero della tradizione pur essendone sempre estraneo. L’individuo è sempre alieno, sempre diverso dal linguaggio che parla. Quale estraneità maggiore del Pasolini poeta in friulano, non parlante il friulano (nella sua diaspora filologica ramificata nei vari dialetti che ne compongono la tradizione anche letteraria), che abbraccia il friulano come lingua aliena, totalmente estranea (nel gioco esibito di un richiamo a tradizioni lontane nello spazio e nel tempo come la lirica provenzale, l’ermetismo lorchiano) e per questo tanto meglio espressione della propria alterità? Tanto più se – come ben consapevolmente fa Pasolini – si traduce una lingua orale in forma scritta, rendendola in tal modo, lingua letteraria, non più veicolo di comunicazione pratica quotidiana, ma instaurando un’operazione di reificazione. Ma non è questa la letteratura? Non si tratta forse di filtrare l’esperienza (esistenziale, sociale, morale, ecc) in un codice equidistante dall’emissario e dal ricevente, in modo da ampliarne i risvolti del significante, a costo di un aumento – controllato – del rumore che possa preservare il segnale e affinché possa aumentare la durata del messaggio?
Pasolini è autore postumo fin dall’inizio: postumo a un’epoca, a un mondo che stava scomparendo (e la sua lucidità e percezione delle apocalissi in corso sono strabilianti, come l’assenza in questa presa d’atto di qualsiasi forma narcisistica di nostalgia se non sublimata nella scomparsa di un’etica idealizzata), postumo a un immaginario letterario (le immagini cristologiche delle prime poesie, il nini muart, il Narciso-Cristo che assurge a martire di un’intera percezione di sé e del mondo, in un mondo che di lì a poco avrebbe fatto a meno di qualsiasi portato religioso) che soltanto pochi decenni più tardi sarebbe stato incomprensibile, se non come operazione manieristica (e infatti in tal senso opererà Pasolini, in un’incessante manieristica riscrittura della propra opera) e, in definitiva (in particolar modo per il tardo Pasolini), postumo anche a sé stesso. Fa specie parlare in epoca attuale di storicismo (o anche solo di storia), quando intorno l’orizzontalità degli eventi muta aspetto in un “presentismo” astorico, in assenza, per così dire, di qualsiasi progresso che non sia mero sviluppo.
Ma allora cosa rimane di questa luminosa esperienza pasoliniana di immersione nella lingua materna in via di estinzione? Forse, ciò che più risalta, tanto più per chi, autore, si trovi ad abitare gli stessi luoghi edenici del Pasolini friulano, e ad ascoltare gli stessi suoni, è l’esempio di una lucida consapevolezza della propria estreneità: ci ritroviamo davanti al mistero del paesaggio (e della storia che ne è vigorosamente intrecciata) con lo stesso sentimento di dispersione, di interrogazione della sua voce (del caotico magma di voci che lo abitano) per far sì che i frammenti discordi si accordino in una stessa voce, in una stessa piccola musica che sia testimone di questo sconcerto, di questa transitorietà.
Daniele Orso