Lo scorso 16 ottobre al Salone del Libro di Torino Elisa Donzelli ha presentato la sua raccolta d’esordio, “Album”. Durante l’incontro tra l’autrice e Giancarlo Pontiggia è nato un bel confronto, che affrontava importanti questioni sul rapporto tra la “generazione post 68” e la storia degli ultimi trent’anni, sul punto di vista femminile e sulla relazione che una generazione coltiva con i propri “maestri”. Abbiamo chiesto a Donzelli e Pontiggia di approfondire quei solchi in questo dialogo.
G. P. Nel giugno del 2019, quando la gestazione di album era appena ai suoi inizi, mi avevi mandato un piccolo lotto di poesie, tra cui quella che avrebbe costituito l’esordio. Mi aveva subito colpito la perentorietà delle scelte espressive, e la consapevolezza con cui già andavi tracciando i confini tematici del libro. Annotavo, rispondendoti: «La materia che affronti è in fondo la più difficile, perché riguarda il nostro mondo privato, quello di cui ci siamo nutriti nel corso degli anni: e allora l’insidia è l’intenerimento di fronte alle pagine del nostro libro, il libro della memoria che continua a farsi e a disfarsi, e nel quale sta forse il segreto del nostro stesso essere. Ma tu scrivi: “Ho sognato stanotte / che ti stavo sognando”: l’incipit è davvero bello, perché non sei solo nel sogno, ma nel sogno di un sogno, e cioè nella poesia. Sei subito dove non si può essere, dove tutto si ricompone e si spezza, e diventa altro: le figure e le immagini trasmigrano da te a lei, da lei a tuo figlio, da tuo figlio di nuovo a te. Forse la poesia che hai in mente è proprio questo: seguire non tanto la verità di ciò che è accaduto, ma di ciò che poteva accadere». Ma era proprio così, come ti scrivevo? Quali erano, insomma, a quell’altezza, i tuoi propositi, le tue certezze, le tue eventuali esitazioni su quanto eri andata intraprendendo, e di cui ancora non conoscevi la conclusione?
E. D. Caro Giancarlo, alcune delle mail che ci siamo scambiati le ho conservate. Quel sogno è arrivato credo una notte di febbraio o di marzo del 2019. Dal sonno mi sono risvegliata ed ho appuntato la poesia che è risuonata su un pezzo di carta qualunque, e che ancora conservo. Era più lunga di come oggi appare. Continuava così, e tu lo sai:
sei solo l’evento Anna
di un incontro che ci è stato offerto
maldestro, sbagliato […]
Continuava anche oltre ma non tutto nell’officina del poeta merita di essere salvato. In qualche mese metà di ciò che sarebbe diventato album lo avevo gettato su carta. Poi ci sarei tornata più volte sopra, ed altre poesie sarebbero arrivate soprattutto sui treni, mentre pendolavo sul frecciabianca tra Roma e Pisa, per tenere i corsi alla Scuola Normale. L’ispirazione è una forza magnetica (direi quasi ipnotica, ossessiva) che nella frazione di qualche secondo non domino, ma a questa spinta seguono silenzio e stasi, cura e ricerca. Anche per settimane o mesi. Quell’anno, te lo ricordi?, preparavo un corso su Attilio Bertolucci e tu saresti dovuto venire a parlare con i miei allievi. Poi è scoppiata la pandemia.
In principio ti scrissi questo:
Caro Giancarlo,
Non ti scrivo adesso in qualità di editrice o studiosa, e so di darti anche un piccolo tormento con questo mio invio. Lo so perché sono tormentata ogni giorno da poeti, ed ora per paradosso li perdono tutti.
Per anni sono rimasta convinta che avrei studiato la poesia degli altri e provato a pubblicarla se meritava farlo. […]
qualche tempo fa è successo che ho scritto una poesia nel sonno. E poi a fiume nel risveglio ne sono venute altre sulle quali ho in seguito lavorato. Ora sono nei guai con questa sporca faccenda.
[…] Ho meditato a lungo sul da farsi e ho pensato a te come lettore in territorio franco. L’ho pensato perché tu possa dirmi se ha senso io vada avanti non solo perché questa cosa adesso non si ferma ma per capire se questi testi hanno un peso e hanno un suono a prescindere dal pretesto privato.
[…] c’è molto Sereni, molto Caproni, ovviamente nel mio orecchio, ma il Bertolucci di Viaggio d’inverno così apparentemente solo poeta familiare, ha giocato un ruolo decisivo su queste poesie nelle quali ho fatto i conti con i miei ultimi vent’anni in un paese che sappiamo essere quello che è.
[…]
Ho un disegno in mente che c’entra con l’idea di un album dove ci sono ritratti di uomini e di donne, ma i nomi evocati sono solo al femminile. Però è prematuro parlarne.
Se avrai voglia di darmi un parere vero farai la sola cosa importante, anche se poi – come è probabile che avvenga – rimarrà tutto nel cassetto.
Ti ringrazio con sincerità,Elisa
Ho ricostruito la data, 14 giugno 2019. Quattro giorni dopo, mi hai risposto così:
Cara Elisa,
ho aspettato un po’ a scriverti, come faccio sempre con chi mi invia i suoi versi, perché la poesia è una materia misteriosa, che devi lasciare stratificare a poco a poco, e non puoi sfogliare con la beata leggerezza di un romanzo. E dunque ti ho letto, in questi giorni, partendo ora dall’inizio ora dal fondo, semplicemente aspettando che la tua poesia mi venisse incontro, e mi parlasse prima che parlassi io.
[…]
La spatriata, infine, è tutta pervasa da un senso di spaesamento e di incertezza, di destino che pare incompiuto, e in realtà sta tutto – ancora una volta – in quel perdersi e cercarsi, e non sapere chi ha fatto bene a restare o a andare: sentimenti che si intrecciano con i fatti della storia, e che sembrano risolversi in quel violento contrasto cromatico di rosso e di nero. Qui il tuo album, per ora almeno, si chiude. Mi chiedevi se fosse il caso di continuarlo: ti dico di sì, senza esitazioni, anche se so – per la mia esperienza dei poeti (dei poeti, più che della poesia) – che non sarà facile far sentire la complessità del tuo sguardo: molti si fermeranno alla dimensione del privato, dell’elegiaco, del “familiare” senza rendersi conto che in gioco, qui, è qualcosa di più grande, che è il senso stesso del nostro vivere dentro una realtà così disturbata, così inautentica e frantumata, e in cui ogni evento, ogni parola si carica di qualcos’altro, si spossessa fino ad annientarsi. Stai parlando, in fondo, del destino nell’epoca della post-modernità: e in questo la tua è davvero una poesia civile, per usare un aggettivo che tu stessa hai voluto suggerire: un album, d’altronde, non è mai privato, se non altro perché mette in gioco qualcosa di cui conosciamo così poco, e che affonda in una storia più lunga di noi. Una poesia di singolare finezza: parlo della lingua, delle scelte stilistiche, che non si sentono, tanto sono smorzate, ma alla fine si sentono di più, proprio per questo. Ti saluto con affetto.G.
È questa la lettera che segna l’ingresso nella letterarietà di album. Di lì a poco avrei messo a fuoco l’architettura organica del libro. Quattro sezioni, come un Bildungsroman, un romanzo di formazione in versi: gli esercizi di disegno come allenamento dello sguardo, un’anticamera nella quale ho messo a segno il rapporto che sin dall’infanzia intesso tra segno come tratto – nel ramo materno della mia famiglia c’è qualche pittore, anche mio figlio ama disegnare –, suono (che più spesso è passo, cammino o oscillo col corpo mentre scrivo nella mente i versi. Raboni ha citato l’action painting per Bertolucci e credo sia un po’ questo il mio principale strumento: la sintassi che detta legge alla metrica; anche se di scelta metrica dirò più avanti) e senso (che è frizione tra frammenti della memoria e tempo al presente); la seconda parte, album, che è il nucleo centrale del libro, il romanzo, ed è a sua volta divisa in quattro parti numerate: l’infanzia, l’adolescenza, la vita universitaria, l’ingresso nella vita adulta con il matrimonio e la nascita di un figlio; e poi aprendo la notizia, l’ultima sezione che smaschera il pretesto autobiografico e denuncia, ma anche accoglie, l’irruzione del pubblico nel privato.
Per chi ha un cognome come il mio, più di uno perché mio nonno materno era Carlo Donat-Cattin e mio padre è un noto editore, quella della frizione (dovrei dire del suo fraintendimento) tra pubblico e privato è una questione cui ci si deve abituare subito. Però è vero anche il contrario, perché nelle vite di tutti noi oggi a prescindere dalla storia del singolo, con i social network, con il web – in primis con lo scoppio della Guerra del Golfo al cui ricordo bambino ho dedicato una poesia – il pubblico irrompe nel privato. Nel 2022 tutti siamo esposti al rumore e allo sfuggire rapido delle nostre esperienze identitarie. Io ho avuto come destino la possibilità di crescere in una famiglia colta, attraversata nel bene e nel male dalla politica e dalla storia. Anche per questo da bambina mi rifugiavo moltissimo nel gioco, che a volte era anche verbale oltreché fatto di oggetti e di cose (i giocattoli ‘comuni’ a chi è stato bambino negli anni Ottanta). La poesia è cresciuta nel rito dell’infanzia ma non aveva forma vera, il tempo e gli eventi, lo studio, hanno avuto il potere di completare o ribaltare le cose, di rompere il silenzio indicando con la lingua e con la forma una strada diversa dalla biografia.
In quella prima mail che ti spedivo dicevo “poesia civile”, ma un po’ sbagliavo. Per ragioni epocali e generazionali – sono nata nel 1979, un anno a cavallo tra contestazione politica e riflusso delle ideologie – la mia poesia è stata civile solo à rebours. Guardandomi alle spalle, da bambina e da ragazza ammetto di non avere potuto, o voluto, confrontarmi a pieno con gli eventi della storia e della cronaca accaduti nel tempo della mia vita e nei discorsi degli adulti (e non parlo della storia studiata sui libri, degli antichi romani o degli etruschi, seppure proprio gli etruschi come i greci occupano in album un loro posto, come popolo dell’eros). Ma si vive nel proprio tempo e del proprio tempo si è inseguitori, questa almeno è la lezione che ho appreso dai classici. Quindi questo nascondiglio non dura in eterno, anche contro la nostra volontà. Perché nel tempo, chi prima chi dopo, ci ammaliamo o vediamo intorno a noi potere e morte contro ogni senso; perché nei giorni accadono cose che non prevediamo né controlliamo. Non solo quelle tragiche. Anche quelle belle, come la nascita, l’amicizia, l’amore che ci colgono alla sprovvista. Oggi che siamo iper-esposti attraverso la distanza virtuale e forzata degli schermi, che diventa un mezzo di iper-comunicazione, temiamo molto di più di vivere dentro alle relazioni. Piuttosto le esponiamo al massimo, spostando l’asse fuori dal reale. E la letteratura con le sue scelte e forme, la comunicazione via smartphone, lo stanno dimostrando.
G.P. Io continuo a pensare che la parola civile si adatti perfettamente alla tua poesia: intendendola naturalmente nel suo valore etimologico, e non esclusivamente politico. La tua poesia è civile perché sente che il privato è in qualche modo esposto al pubblico, e che tutte le volte che diciamo “io” non ci stiamo recingendo in uno spazio chiuso e inaccessibile, ma al contrario mettendoci in gioco entro un contesto più ampio, che è linguistico e sociale. Può darsi che tutto questo venga da molto lontano, dalle tue stesse esperienze familiari, e dai nomi che porti, ma mi pare ancora più rilevante il fatto che le presenze del tuo libro siano in gran parte femminili. Mi piacerebbe che approfondissi questo tema, che è certo frutto di riflessioni lontane, e dunque di scelte maturate fin dagli anni della tua prima formazione e delle tue prime letture. E che si incrociano con la storia di questo nostro inquieto paese. Ma anche che ci dicessi cosa intendi, en poète s’intende, prima ancora che da studiosa, per poesia: la poesia che fai, e quella che sogni.
E.D. Io proteggo l’intimità, che è anche un’altra cosa rispetto al privato. Soprattutto credo che la poesia sia apertura e non difesa. La mia generazione ha dovuto sciaguratamente abituarsi a difendere le poche certezze che vent’anni di berlusconismo hanno provocato nelle nostre vite di precari. Precari nella vita affettiva, intellettuale, professionale, persino nel corpo. La scelta di dire io non è casuale nella direzione di quanto ho affermato. Perché c’è modo e modo di dire io. Nella mia poesia l’io non è il centro del discorso. E questo perché, penso spesso a Elias Canetti, siamo un esercito di sopravvissuti ai morti ma soprattutto di sopravvissuti a noi stessi: ai tanti io che siamo stati attraverso la relazione con gli altri e che è stato difficile, doloroso lasciare andare.
Massimo Raffaeli ha parlato per album di un io che quasi non si sente. A rotazione i testi di album contengono i tu che hanno contribuito a costituire la mia identità. Persone care e sconosciute; persone note e celebri (Madonna, Hevrin Kalaf, Marta Russo). ‘Tu’ che sono soprattutto femminili. Questo è vero. Mi reputo una donna in poesia di voce ‘femminile’ (ma ci sono donne bravissime con voce fortemente ‘maschile’) per ragioni non certo e solo biologiche e anatomiche, ma per ragioni storiche e psichiche, oltreché legate alla memoria che ho accumulato anche sul mio corpo. Questa lezione la ho appresa da quello che in origine è stato l’incontro decisivo per la mia vita nell’accesso alla poesia. Quello con Biancamaria Frabotta, la persona con cui ho seguito tutti i primi anni di formazione universitaria, e che poi è diventata un’amica. Di lei, “l’Orsa maggiore degli anni dell’errore”, c’è una traccia forte in album, e da lei ho appreso che la via più difficile e affascinante non è quella del femminile tout court come esclusione del maschio, o del maschile. Ma dell’essere ‘donna in poesia’: evoluzione metamorfica e imprendibile di un io che nella relazione con gli uomini deve essere libero confronto nella “separatezza” e viceversa, in quella con le donne, contemporaneamente diversità e speculum, forte del pensiero di Luce Irigaray.
G.P. Credo di capire cosa vuoi dire, e anche perché la storia della poesia al femminile sia stata così contrastata nel corso dell’ultimo mezzo secolo, per limitarmi a un periodo che ho vissuto in prima persona. La parola innamorata – libro che io ho sempre considerato irrisolto, e sbagliato sotto molti aspetti, e dal quale mi sono pressoché immediatamente distanziato – non ospitò, come ben sai, voci femminili. Cosa che ci venne aspramente rimproverata, e che determinò anche momenti di contestazione accesa: ma era il 1978, un anno prima che tu nascessi, l’ultimo anno delle grandi dispute ideologico-politiche, che sarebbero presto state spazzate via dall’onda del riflusso edonistico degli anni Ottanta. Ricordo una presentazione dell’antologia all’Università di Bologna, in un’aula magna gremitissima, dove mi trovai a parlare insieme a Giuliani e a Porta, situazione già di per sé imbarazzante per uno che aveva contestato la poesia della neoavanguardia, e non aveva mancato di farlo anche nell’introduzione di quell’antologia. Già dopo pochi minuti ci rendemmo conto che la maggior parte del pubblico era femminile, ed era venuto con il solo obiettivo di contestare un libro che ritenevano di per sé provocatorio. Risposi con l’unico argomento che mi apparteneva, il più onesto per chi non ha mai cercato di falsificare la realtà delle cose, e cioè che non avevamo trovato voci poetiche femminili che ci convincessero. Ci avevamo anche provato, e quell’assenza ci pesava: forse le migliori voci poetiche femminili di quegli anni sentivano di dover stare dentro la cronaca, di dover prendere parte alla lotta: era in fondo lo stesso motivo per cui il Pasolini di Trasumanar e organizzar sembrava aver dimenticato la forza poetica dei suoi esordi. Ma se c’è un merito di quell’antologia, era di aver voluto porre al centro la poesia, e nient’altro che la poesia, sottraendola ai vincoli politici e sociologici del momento. Una scelta che continuo a condividere, a tanti anni di distanza: non perché la poesia non stia dentro la storia, ma perché la sua lingua non è quella della cronaca, che è un’altra cosa dai moti storici, ai quali non deve render conto in modo meccanico. Per comprendere una scelta così netta e rischiosa, bisognerebbe anche raccontare cos’era la Statale di Milano nella quale avevo studiato: un luogo dove la poesia era considerata mera sovrastruttura, e dove mi era perfino capitato di dover subire un processo “politico” per essere stato sorpreso con il Bellum civile di Lucano nelle edizioni delle Belles Lettres, il cui logo – com’è noto – era una lupa. Per i nostri sommi inquisitori, le Belles Lettres erano edizioni “reazionarie”: e per le mani avevo Lucano, il poeta della libertas, che sarebbe morto giovanissimo per essersi opposto al principato di Nerone! Quello era il clima. Un anno dopo l’uscita dell’antologia, lessi un libro di Rosita Copioli, Splendida lumina solis, che mi entusiasmò. Veniva anche lei dagli studi bolognesi, ma dalla scuola di Anceschi. Nell’antologia sarebbe stata perfetta. Non posso però non pormi, dopo tanti anni, una questione: la poesia di Rosita, tra le più importanti dell’ultimo mezzo secolo, non gode oggi della considerazione che meriterebbe. Così come la poesia di Maria Luisa Spaziani, di cui curai il commento del Meridiano. O anche di Fernanda Romagnoli, di cui vedo uscita da poco l’opera completa presso Interno Poesia: editore meritorio, ma la Romagnoli meritava forse di più. E intanto imperversano le edizioni poetiche di Alda Merini e Antonia Pozzi, che a me continuano ad apparire assai modeste. Ma si sa: una è morta suicida, l’altra godeva della fama di esser “matta”, come si dice a Milano. La Spaziani, forse, era troppo “signora”, amava troppo la vita, e aveva avuto una liaison (come dicevano le nostre mamme) con il più grande poeta del secolo: al massimo, insomma, poteva essere una volpe. So di essere, cara Elisa, politicamente scorretto, quando dico queste cose: lo sono sempre stato, e ne pago tuttora le conseguenze. Ma i poeti devono sempre dire il vero, anche quando non scrivono poesie. Per la cronaca, a Bologna, quella sera del ’78, dovemmo essere scortati in hotel dalla polizia: e debbo riconoscere che Porta, come sempre, fu esemplare nel difendere un’antologia che aveva voluto ostinatamente, e che gli era piaciuta proprio per l’intransigenza delle scelte. Ma ritorniamo al tuo, di libro, alla tua idea di poesia, oggi, e a quello che ti ha spinto a scrivere, tenendo presente tante sollecitazioni, private e pubbliche.
E.D. Quel che tu scrivi è una importantissima testimonianza di storia, di cultura e di poesia. Molte cose di quegli anni sfuggono ai più della mia generazione. Soprattutto sfugge – al di là dei libri – come era la vostra vita da giovani, in rapporto alla poesia e alla politica. Per voi sono dati scontati, che noi non abbiamo acquisito sentendoci forse sempre ‘nati minori’, ‘nati piccoli’ rispetto ad un’epoca rivoluzionaria come la vostra. Scrivi anche che “quell’assenza [delle donne vi] pesava: forse le migliori voci poetiche femminili di quegli anni sentivano di dover stare dentro la cronaca, di dover prendere parte alla lotta” e spieghi così l’assenza di voci femminili nelle antologie e collane degli anni Settanta, e precedenti. Non so e non posso dire se questo sia vero, perché non c’ero. E non ho nessun motivo di pensare il contrario.
Subito mi viene in mente di risponderti che per le donne della mia generazione non esiste nessuna ragione o spinta politica che induca a dare una spiegazione analoga. Poiché noi non abbiamo e non abbiamo praticamente avuto esperienze di aggregazione, ragioni di lotta comune, se non per gruppi o in piccole realtà di paese, se non per estrema necessità. E credo che quasi tutte le donne che hanno scritto poesie nel Novecento, nel silenzio e non solo nel silenzio (perché molte hanno agito come traduttrici o promotrici culturali, come poete) abbiano desiderato pubblicare o far parte di un’operazione culturale che le vedesse coinvolte in prima linea nella storia della letteratura. Ma il desiderio può spaventare, soprattutto le donne che si sentono meno legittimate a viverlo. E i dati parlano ancora chiaro: lo spazio per le donne in poesia, nelle antologie soprattutto nelle collane degli editori indipendenti o semi-indipendenti che tentano di fare poesia non commerciale, è ancora profondamente inferiore, se non irrisorio o assente. Di recente alcuni studi ne mostrano le prime bassissime percentuali. Meno del 3 per cento – a volte l’1 o il 2 – di partecipazione di donne in poesia nelle antologie italiane del Novecento sino alla fine degli anni Settanta (con l’eccezione di Poesia degli anni Settanta del 1979 in cui Antonio Porta si comporta molto diversamente da tutti accogliendo molte donne). Il quadro oggi non è molto cambiato.
Se dovessi dire che cosa è secondo me la poesia potrei forse solo rispondere che è desiderio e forza, di rompere la distanza imposta tra epoche e spazi. Con album ho sentito l’urto e la spinta ad aprire le cose: la voce di una donna in poesia nata nel 1979 può scendere nel mondo e proporre un punto di vista nuovo sulla storia che ha riguardato chi è nata dopo il 1968, dopo la contestazione politica e dopo il femminismo. In questo ritengo che la mia poesia abbia una ragione politica e che la mia storia mi abbia avvantaggiata nell’intercettare questo potenziale, che credo altri poeti nati dopo il Sessantotto potrebbero, se lo desiderano, avere.
La storia che, grazie alla forza del linguaggio poetico, diventa a posteriori coscienza politica, è una forma di educazione culturale e relazionale cui – a partire dagli anni Ottanta e in crescendo – ci siamo progressivamente disabituati con danni enormi per la nostra comunità. Ma penso che prima della storia ci siano due cose: natura e origine. E questo per esempio lo stanno dimenticando troppo spesso gli storici quando studiano la cronaca; quando studiano il terrorismo, per esempio, del cui ricordo bambino in latenza è testimone un mio recente inedito nevaio 1983 che si può leggere al fondo di questa intervista e che verrà ripreso in una prossima plaquette (è uscito di recente sul n. 329 de “l’immaginazione”).
La poesia, a differenza dello studio della cronaca (che non chiamerei neanche storia e che talvolta si rifugia nel tecnicismo o nella psico-denuncia), non può sfuggire a più cose. Non può prescindere dall’origine come atto e dalla natura come azione: subìta (la prima), voluta (la seconda) come forme del morire e del creare. Delle quali il femminile, accogliendo nel proprio grembo il corpo altrui, in estremo attraverso il parto, è voce. Il che non esclude affatto in poesia che possa esserlo in modo diverso, o compenetrante, anche la parola di un uomo. Forse con minore furor e più legittimità, come scriveva Ovidio nell’Ars amatoria. Ma più volte ho dichiarato di credere nella funzione e nel valore della voce degli uomini e delle donne in poesia in egual misura. Ci sono voci di uomini e di donne che, a prescindere dalle scelte e dall’orientamento sessuale, nella sostanza si distinguono perché portano dentro di sé questa potenza dell’origine tramite la capacità di immaginare di essere altro, di essere nell’altro/a senza la sola direzione del dominio.
C’è un nucleo in album, ma soprattutto nelle nuove poesie che sto scrivendo, che nel mettere sul piatto la relazione tra realtà e linguaggio è legato alla violenza. Violenza sul corpo, sulla mente e sulla lingua che nella storia subiamo oggi anche attraverso ciò che vediamo sugli schermi e che contemporaneamente viviamo nella micro-violenza dei nuclei familiari. In album il sonetto per Hevrin Khalaf – attivista per i diritti delle donne uccisa in Siria nell’ottobre del 2019 – ne è una manifestazione formale. Ho scelto di lavorare sul sonetto-monoblocco memore del lavoro che Giorgio Caproni aveva fatto in Cronistoria nel 1943, non lasciando più aria o spazio tra le strofe dei complessivi quattordici versi, nel suo caso per figurare in termini metrici quel che Mengaldo ha definito “la durezza degli anni di guerra”. Ho lavorato per giorni e di fino sul Sonetto per Hevrin partendo dai miei studi caproniani, e arrivando poi a sentire di voler fare qualcosa di diverso: chiudere le strofe, rispettare il numero tradizionale dei versi e creare un contro-sonetto per proteggere e preservare il corpo martoriato di quella bellezza, non solo per denunciare la guerra. Ho lavorato sulle misure (del singolo verso e del testo complessivo) per restituire voce ed eternità all’immagine dell’altro (in questo caso di Hevrin), non alla mia.
La voce dell’io in album è uno strumento, un tecnigrafo. Un’altra poesia della raccolta porta come titolo tecnigrafo perché l’io si comporta come uno strumento che inclina lo sguardo per poter vedere per strada di spalle una persona cara prematuramente morta e immaginarla ancora viva e intera – io ho realmente usato il tecnigrafo avendo studiato Architettura, prima di passare a Lettere. Ed è questa la bellezza più grande che dovrebbe spingerci a non chiuderci nelle torri d’avorio delle nostre singole scritture o dell’io, del tu, del Noi come voci sole che resistono e basta (resilienza è diventata la sola parola d’ordine). Poi penso da editrice che occorra restare sempre all’ascolto anche di ciò che meno ci assomiglia. Ho appreso molto studiando la poesia, insegnandola, facendo l’editore ma di più giocando da bambina e oggi scrivendola.
Una cosa sola non è cambiata rispetto a quando ero piccola. Il gioco in fondo la fa sempre da padrone: che si sia bambini o adulti, in poesia possiamo immaginare di essere altrove, o di essere qualsiasi altra creatura. Una donna, un uomo, un paesaggio, un animale. O “la più piccola forma di vita”, come scrivo nell’ultima poesia di album. Ci vuole desiderio per farlo, eleganza per far partire il gioco (nel senso latino di eligere, di saper scegliere e rinunciare a qualcosa nello stile).
Concentrazione per mettersi in gioco nel mondo.
G.P. Io credo che ci siano molti modi di fare poesia, come ci sono molti modi per fare il pane o il vino. Ma in tutto quello che ci hai detto in questo momento, mi colpisce soprattutto questa capacità di coniugare la tensione pedagogica della parola con quella che è stata da sempre la forza conoscitiva della grande poesia che amiamo: e dunque la capacità di far sentire, dentro il verso, che noi siamo insieme natura e storia, e che le origini dell’uomo hanno a che fare con le origini del cosmo. Un tema che tu affronti proprio nell’ultima poesia del libro (Lanzarote, seconda strofa. In memoria), e che come sai mi aveva molto colpito fin dalla prima volta che la lessi, quando ancora non sapevo dove l’avresti collocata: qui la riflessione sulla storia sembra sprofondare nelle lave e nelle rocce dell’isola, fino alla “più piccola forma di vita” su cui il libro va a concludersi. Ma tu ricordavi poco fa di essere nata nel 1979, proprio nel momento in cui sembrava chiudersi un’epoca forse irripetibile, e in un tuo recente intervento hai voluto insistere sul rapporto che la tua generazione ha intessuto con la storia e con la memoria di questo paese. Di qui anche un progetto che, so, ti sta molto a cuore.
E. D. Immagino ti riferisca al documento poeti post ’68. Il divieto di accorgersi che ho pubblicato su le parole e le cose il 23 gennaio scorso e che altri 5 poeti, a me vicini come età più che come origini, hanno sottoscritto. Ne è nato subito dopo un gruppo, in modo estemporaneo e anche istintivo, come i gruppi di solito nascevano, soprattutto tra i pittori e gli artisti nel Novecento. Studiavo i “Sei di Torino” negli archivi in quei mesi, la spinta di giovani pittori che attraverso l’arte, non per la via diretta della sola politica, negli anni Venti e Tenta avevano iniziato a sviluppare il seme dell’antifascismo. Senza intento programmatico – lo studio chiama a sé l’impegno per come io la vedo, anche se ancora oggi si tratta di un concetto tabù nelle università italiane – ho contattato alcuni poeti che mi sembravano disposti all’ascolto, o mi sembravano non porsi sulla difensiva. Amos Mattio, Federico Italiano, Marco Pelliccioli, Laura Di Corcia, Marco Corsi. Ma per via editoriale prima ancora Christian Sinicco del quale di recente è uscito nella collana di poesia della Donzelli Ballate di Lagosta, il primo di una serie di poete e poeti nati negli anni Settanta e Ottanta che vorrò continuare a pubblicare (anche se nella collana erano già usciti libri in cui ho molto creduto, quelli di Massimo Gezzi, Marco Giovenale, Isabella Leardini).
Questa politica editoriale scaturisce da un’idea precisa che è anzitutto una idea poetica. Nata nel cuore della mia poesia. album può essere anche letto come il diario intimo di una generazione cui la generazione dei padri non ha dato grande credito e grande spazio. Non mi si fraintenda, non di tutti i padri letterari: ce ne sono stati di generosi e aperti. Ma a differenza di chi per ragioni biologiche aveva vissuto la propria giovinezza negli anni della contestazione politica, noi nati dopo il Sessantotto per ragioni epocali non siamo stati capaci di vivere l’esperienza della collettività attraverso la politica. Né dell’adultità: piuttosto dell’individualismo forzato e diffidente avendo trascorso l’infanzia accomunati più da cose e oggetti comuni (giocattoli o cartoni animati) che dalla memoria degli eventi, ed essendo cresciuti nell’ovatta del berlusconismo degli anni Novanta. Oggi è inutile cercare a tutti i costi una radice comune, o una ottimistica e feticcia convivialità. Non è nelle mie forze pretendere di salvare o cambiare a tutti i costi il corso degli eventi. Ma neanche nella mia volontà, forse nella mia natura, restare ferma sulle posizioni cui ci siamo adagiati. Ci sono in poesia dei dati estetici comuni che possono parlare a nome di una intera generazione di figli. Figli che in alcuni casi oggi sono anche padri e madri, e se non lo sono potrebbero esserlo.
Abbiamo organizzato degli incontri con il gruppo post ’68 proprio per interrogarci su una ‘non-generazione’ – come ho preferito definirla – accomunata più dalle mancanze che dalle somiglianze. Ma mossa da una altissima capacità di visione, essendosi abituata a vedere il Novecento soprattutto sugli schermi. Ed anche spinta da una positiva (ma a volte tendenziosa) capacità di fuga, come il punto di fuga che occorre per costruire le immagini in tre dimensioni. Vorremmo indagare alcuni degli aspetti che ci hanno, nelle plurime diversità, caratterizzati: l’assenza pressoché totale della storia degli ultimi quarant’anni nei nostri versi (meno della cronaca che è altra cosa), la a-specificità o specificità di stile-tecniche-forme, quella che io definisco la ‘spazializzazione della memoria’, l’illegittimità a parlare del mondo da parte delle donne. Quest’ultimo è stato oggetto di un incontro avvenuto a Milano al Teatro Fontana il 12 giugno scorso, Mondo illegittimo? Donne in poesia post ’68. È stato un cantiere ed un esperimento. Ma ho visto gioia e liberazione al termine del lungo scambio da parte di tutte le mie colleghe e compagne, intelligenza nel nostro spavento. Soprattutto tenerezza e dolcezza che è un messaggio che noi donne dobbiamo poterci di nuovo permettere di trasmettere e condividere, superando le rivalità e l’istinto a primeggiare sulle altre. Un dibattito sulla lingua e le forme, è stato poi condotto a luglio a Bergamo da Marco Pelliccioli.
Mentre ci stiamo preparando a parlare di spazio, habitat, paesaggio nella poesia dei nati Settanta e Ottanta in occasione del Cabudanne Des Os Poetas che si terrà a Seneghe in Sardegna ai primi di settembre. Ogni volta che abbiamo proposto un incontro, sono usciti su riviste on-line (le parole e le cose, Poesia del nostro tempo) documenti, riflessioni o micro-saggi inchiesta di accompagnamento. Officine e cantieri aperti di ricerca, non studi conchiusi e preconfezionati. Come anche accadrà a breve per il paesaggio, questa volta a firma di tre di noi. Mi auguro che la forma a più mani possa divenire un atteggiamento e un’abitudine critica. Perché ritengo importante rieducarci come ‘non-generazione’ a ragionare in termini collettivi anche nell’ambito di un’azione singola come la poesia. Singola come scatto, comunitaria come linguaggio.
Si è detto più spesso che i critici non possono essere poeti. Ma rovescerei l’assioma o il preconcetto del poeta prelogico e puro perché lontano dall’esercizio critico. Credo non basti più ai poeti essere solo poeti, e che la poesia abbassi il livello della propria funzione culturale e politica in questa direzione. Viceversa non ci si improvvisa saggisti o critici. I poeti devono confrontarsi con la critica, con la traduzione poetica, se vogliono dare peso e costituzione al proprio fare. In questa direzione chi lavora all’università e scrive poesia svolge una funzione necessaria per arginare lo scollamento tra formazione e mondo, e monitorare il livello dell’informazione culturale. Dobbiamo avere consapevolezza di un dato: è sempre più ampia, ma spesso sempre più bassa, la qualità della proposta pseudointellettuale sul web, tanto più nell’ambito della poesia.
Come anche penso dovrebbe definitivamente crollare il preconcetto secondo cui chi studia o insegna, o fa altri mestieri intellettuali, non può essere davvero poeta ‘ispirato’.
In ogni ambito e genere dovrebbero essere i nostri libri, i nostri scritti, a parlare dei nostri mestieri. Dobbiamo fare i conti con le potenzialità di una società ‘fluida’ anche sul versante cognitivo e artistico, non solo corporale e sessuale. E le redazioni di riviste di poesia – un gruppo di poeti in primis – dovrebbero tenere conto dell’importanza e del livello della formazione culturale di chi scrive, e delle esperienze accumulate nell’ambito della poesia, unendo più competenze. Senza oscurare o tralasciare la distinzione tra diversi percorsi. Ma apprendendo in osmosi l’uno dall’altro.
Poi c’è una parte che resta solo nostra ed è la scrittura poetica, sulla quale in realtà ho anche un’idea opposta. Che ad un certo punto, come nello studio e nella vita, occorra chiudere i libri e camminare o andarsene in vacanza. Purché i libri siano rimasti in silenzio e a lungo aperti sui nostri banchi e continuino a farlo. E questo non garantisce naturalmente nessun talento, ma predispone il terreno per non disperderlo o sciuparlo. Qualora esista.
Non so ancora quale sarà la prossima meta: so che le mie scritture, la mia ricerca, vanno nella direzione del cambiamento, dunque della poesia per come da sempre la intendo. Erratica, fedele e straniera a sé stessa. Al corpo della nostra memoria.
nevaio 1983
Alikam ha una figlioccia
con la pelle d’albicocca
Alikam Salàm
Alikam Salàm Salàm
Torino, la strada innevata
la polizia che entra in casa,
controllo contatti telefonici
collaborazioni alla fuga
terrorista in Francia.
la fortuna è stata essere in due,
sapere io e te che cosa è stata
la neve, il gioco delle canzoni,
contare se “ci sono più curve
a scendere o più curve a salire”
e lo sguardo puntato a Challant,
la gioia di arrivare presto purché
fuori dalla geometria di una città.
Le date che chiedi non sono importanti,
i ricordi si accumulano dopo
i cinque anni. Sei tu la grande,
io resto con i piccoli,
sentieri, funghi, mirtilli,
a seconda delle stagioni
la neve, delle estati il nevaio
noi quattro vestiti noi
quattro nudi dentro
il massiccio.
Ho fatto scricchiolare altrove
nei letti le impronte dei corpi,
l’idea che abbiamo dell’essere
una famiglia, di scoiattoli
o di altri animali rossi
tengo unita nei passi
l’orma della libertà.
(uscito sul n. 329 de “l’immaginazione”, manni editore).