Continua lo Speciale di pordenoneleggepoesia.it dedicato ai Vent’anni di Umana Gloria. Partito dall’evento tenutosi il 1 ottobre ai martedìpoesia con Francesco Brancati e Marta Celio (QUI), il primo articolo ha visto l’introduzione di Roberto Cescon e Tommaso Di Dio e a seguire Riccardo Socci con «Come dire questa fragilità che è guardarti»: appunti per un’analisi di A D. (QUI). Il secondo approfondimento invece è stato a cura di Cristiano Poletti dal titolo Mario Benedetti e la pittura (QUI). Il terzo è stato a cura di Gian Mario Villalta dal titolo Una poesia di Mario Benedetti, una lettura (QUI). Il quarto è stato a cura di Luigi Fasciana dal titolo La corsa, la fine. Su una poesia di Umana Gloria (QUI). Il quinto è stato a cura di Gabriela Fantato dal titolo Abitare il mondo con il corpo – Note sulla poesia di Mario Benedetti (QUI).
Da lontano
Note sulla poesia di Mario Benedetti
di Michele Maggini
Il titolo della poesia scelta, Da lontano, di per sé determina e riassume la prospettiva narratologica di Benedetti nello sceneggiare gli avvenimenti, fungendo da manifesto della sua poetica in Umana Gloria.
Il soggetto è disperso in una moltitudine di piani esistenziali, fenomenologici e filosofici; privato della possibilità di coniugarsi alle scene del testo a causa della lontananza ne partecipa attraverso l’estraneità. Infatti, vive in uno stato di disconoscimento che non accresce nessuna consapevolezza rispetto alla realtà degli avvenimenti, come in un mondo fiabesco privato della morale, non però della capacità di affascinare.
In questi versi, si percepisce uno scollamento del fiabesco dai suoi presupposti di gioia o riscatto, del romanticismo dall’infanzia. La sottrazione di queste parti riduce l’immaginario di Benedetti in grottesche apparizioni di una realtà percepibile solo a tratti e parzialmente. Questo percepire non è risultato di una febbre (“Non lo sapevo, non avevo febbre, […]”), che recherebbe con sé sconvolgimenti di umore e stati di agitazione, ma comporta lacune di tipo linguistico, sintattico e non solo. Piuttosto, il percepire di Benedetti è febbrile nel senso in cui l’ansia di captare l’intorno del soggetto in tutte le sue manifestazioni domina (“Era perché non poteva restare niente di tutto questo/ che gli occhi facevano i matti), generando delle compenetrazioni tra sottintesi e realtà distinte e altrimenti inaccostabili. Questo com-portamento supera le capacità cognitive umane che non sono in grado di recepire tutti gli stimoli di un dato intervallo o spazio, operando vuoti sintattici e semantici sulla realtà: “senza braccio”, oppure “da un cervello ferito in una parte”.
Con tale padronanza della lingua, ridotta al suo grado zero – una comunicazione degli oggetti della poesia che avviene senza l’ausilio degli strumenti retorici di cui la poesia si dovrebbe comporre – la poesia di Benedetti ci disorienta perché privata di metafore o similitudini di alcun tipo (“sentivo una carnagione nelle tende le parole in giro/ del viso della nonna”).
In altri termini, l’autore si disfa della Rettorica michaelstedteriana, ossia l’apparato di parole e gesti che occultano la possibilità di raggiungere la Persuasione, il possesso di se stessi, e da questa distraggono. Infatti, in testi successivi, Benedetti dirà con un imperativo esortativo: “non distrarti”.
Il punto della lingua di Benedetti è che riporta il reale e la sua superficialità con tutto il carico traumatico che ne deriva, adoperando un lessico povero, semplice. Nella sua poetica, qualsiasi cosa ha dimenticato la capacità di continuità in tutte le sue forme e spazi, vivendo in uno stato indefinito: infatti il tempo verbale dominante è l’imperfetto indicativo. Questa concezione sarà approfondita in Pitture nere su carta, dove tutto invece tenderà ad una testimonianza assoluta attraverso la catalogazione, tecnica già presente in questa poesia, che crea le compenetrazioni tra gli oggetti nell’intorno del poeta (“la tasca, il naso, le ginocchia, una mano con la mela/ o con la scodella, o con niente, senza braccio,/ […]”). In questa dispersione tra i piani dimensionali, il soggetto benedettiano cerca di stare, caricandosi delle varie epifanie che può ricordare senza patetismi. Non è raro che si aggirino delle presenze fantasmatiche tra questi piani: una terza persona plurale che fa riferimento ad un gruppo inconsistente e carica della stessa facoltà evocativa della parola (“Venivano da lontano, dalle parole che si dicevano in casa./[…]/ Venivano tanti che diventavano subito bambini…”). Benedetti è qui un’entità osservante estranea, un soggetto un-heimlich, che, invece, diverrà nell’ultima raccolta, Tersa Morte, il sosia.
Da lontano
E la casa mi volava via nel prendere sonno.
Ero con mio fratello così distante dai nostri giochi
della palla, dell’aquilone, della canoa.
Era perché non poteva restare niente di tutto questo
che gli occhi facevano i matti. Sorpresi come uno stupido
a cui si dice “che cosa fai”. Non lo sapevo, non avevo febbre,
sentivo una carnagione nelle tende le parole in giro
del viso della nonna. Ruotavo la testa per fare la giostra
con i bambini e con i grandi che vedevo e non vedevo:
la tasca, il naso, le ginocchia, una mano con la mela
o con la scodella, o con niente, senza braccio,
come da paure, da un cervello ferito in una parte.
A letto era un bel cielo dalle finestre di tanti bei giorni.
Venivano da lontano, dalle parole che si dicevano in casa.
Quando pioveva eravamo solo acqua e con il vento aria.
Venivano tanti che diventavano subito bambini…
da Umana gloria, Mondadori 2004
Vorrei ringraziare Tommaso Di Dio per la possibilità di ritornare a scrivere su Mario dopo lungo tempo e sempre Donata Feroldi per aver permesso di incontrarlo (N.d.A.).
In copertina un ritratto di Dino Ignani