Silvio Ornella (1958), nel suo particolare friulano occidentale di Castions di Zoppola, in provincia di Pordenone, ha pubblicato sei plaquettes di poesie nell’arco di un ventennio: Rudinàs (2001), Ùa (2005), Il paesagiu sculpìt (2007), Il polver ta la mània (2011), Timp in motu (2016), Fadìa (2019); ora raccolte nell’opera omnia Ùa/Uva, appena edita da puntoacapo Editrice nel 2021, insieme ad un sostanzioso manipolo di inediti, che già prefigura in parte, soprattutto nei promettenti Motès dai timps dal mal, i prossimi sviluppi della sua lirica. La sua esperienza poetica in dialetto matura all’interno del Gruppo Majakovskij, fondato e animato dal conterraneo Giacomo Vit, fedele al verso del poeta russo secondo cui l’artifex deve “conficcarsi nel cranio del mondo”, da qui l’esito di una poesia militante, e prende inevitabilmente le mosse dal Pasolini friulano. I versi di Ornella mostrano una marcata impronta etica nel serrato confronto e scontro con l’oggi, dunque nessuna nostalgia per le neiges d’antan, in cui gioca un ruolo decisivo la stessa lingua friulana, sentita come alternativa alla parola di plastica dell’italiano. Il tema della guerra, terribilmente attuale, è uno dei fil rouge dell’intera sua opera, declinato con una pietas particolare per tutte le vittime dei conflitti contemporanei, a cominciare dai bambini, indifesi e innocenti di fronte al male della storia, che non esclude l’indignatio nei confronti della menzogna istituzionalizzata. Gli affetti familiari, le conoscenze, gli incontri, gli amici fanno sempre più capolino dai suoi versi accoglienti, senza dimenticare gli “ultimi” e gli “umili”, a cogliere un gesto o una parola di luce e di speranza, e coi quali l’io lirico si relaziona con empatia, sottolineata dall’uso insistito dei diminutivi, che denotano un affettuoso e tenero rapporto – malgré tout – con le cose del mondo, di cui partecipa pienamente la natura con la fitta presenza del mondo vegetale e un ricco bestiario, a volte declinati in chiave allegorica. Le memorabili metafore, similitudini e immagini che incontriamo nei suoi versi, attinte senza retorica dal suo terroir e dal retroterra contadino di un mondo in via di sparizione, sono concrete, corpose, terrigne, materiali, vivide, materiche, tanto da sembrare impastate di terra: da qui la loro forza evocativa e la loro freschezza, in cui torna – ora con indulgenza ora come irrevocabile età perduta – la mitica e fiduciosa infanzia di un frut, un po’ impacciato, con le mani sempre nell’acqua e nella terra, con l’acqua fresca delle pompe nei cortili, con le partite di calcio nel campo spelacchiato dell’oratorio, con le liberatorie corse estive in bicicletta.
Hai alle spalle sei raccolte poetiche, la prima – Rudinàs – è uscita circa vent’anni fa (2001), come mai hai deciso di ripubblicarle tutte in un unico volume (Ùa/Uva, 2021)?
Sinceramente, se non mi avessero diagnosticato il cancro a maggio 2020, non so se avrei trovato la disperata energia che è occorsa per mettere insieme questo libro. Allora ho sentito l’urgenza di mettere ordine nel mio lavoro, di raccogliere in un mazzo le poco più di cento poesie che avevo pubblicato nell’arco di cinque lustri in sei libercoli. E anche, sì, l’effetto che facevano sentirle cantare tutte insieme.
Perché scrivere, oggi, in un mondo globalizzato, poesie in friulano? Quale significato ha per te, non dialettofono, poetare in una lingua minoritaria?
Mi sento come i vecchi della Naf dai vecius, che fanno le parole crociate aspettando la cena, e cercano nella cassetta degli attrezzi della memoria “una puntina una rondella / una sillaba arrugginita”, che non sanno se troveranno. Ecco, le vedo così le parole del mio dizionario poetico, una variante delle varianti del friulano occidentale. E ogni volta scrivo come se fosse l’ultima poesia, perché non so se troverò ancora le parole. Questo spiega anche la mia metrica sincopata, fatta di versi brevi, perché le parole sono contate, affiorano da vene sotterranee, sono fiotti, conati come dice la poesia In dialèt. Ogni poeta cerca un suo linguaggio: io l’ho trovato a fine anni ’80 leggendo Lengas dai frus di sera (Linguaggio dei fanciulli di sera) di P.P.Pasolini sul Materiale e l’immaginario: un’autentica epifania! Qualche anno dopo al professionale di Spilimbergo ho trovato, coperta di polvere, l’antologia dei poeti del Friuli Occidentale nel Novecento I’sielc’ peravali’ Scelgo parole, e l’ho rubata. Così ho conosciuto Vit, Fioretti, la Vallerugo. Poi ho invitato Vit a parlare delle sua poesia all’IPSIA di San Vito e lui mi ha invitato al Gruppo Majakovskij. Lì ho conosciuto altri neodialettali di vaglia (Indrigo, Pauletto) e ho cominciato il mio apprendistato poetico. Lì il dialetto veniva usato per mordere la realtà, per parlare dell’oggi, tenendosi lontani dalla retorica, in una lingua nuova. È una questione di ritmo, di consistenza, di grana: parole da toccare.
Fin dalla prima raccolta, allora si trattava della guerra in Kosovo, uno dei temi ricorrenti della tua opera è la guerra, tornata – purtroppo – di stretta attualità in questi giorni con l’invasione russa dell’Ucraina: di per sé il connubio guerra/poesia non è nuovo, affonda le sue origini nei poemi omerici ed è stato diversamente declinato nel corso del tempo dai poeti, ma tu quale immagine tendi a dare della guerra con i tuoi versi?
“Mermelata / di carotis / tai vistis / ta li’ mans di ort / da la vecia neta / par vendi / carotis / al marciàt di Nis” (Marmellata / di carote / sui vestiti / sulle mani di orto / della vecchia pulita / per vendere / carote / al mercato di Niš). È Marciàt di Nis, sezione La vuera di Rudinàs. Parla della vecchia ortolana ammazzata al mercato della cittadina serba durante un bombardamento NATO nella primavera del ’99. In questi anni di ricerca la guerra è stata il discrimine, il trauma che ha segnato il mio fare poesia. Bisogna avere avuto il cervello segato per un mese e mezzo, giorno e notte, dal rombo dei bombardieri partiti da Aviano, che si fondeva con i racconti dei nostri genitori bambini che i bombardamenti li avevano vissuti, per capirlo. Guerra del Kossovo, Guerra del Golfo, sovrapposta all’agonia di mio padre morto troppo giovane, la mattina del primo bombardamento su Bagdad. Ecco allora che la lingua dell’infanzia diventa l’unica per dire la contemporaneità, per padroneggiare l’orrore e resistervi. Specie davanti a un incessante processo di consunzione delle parole, agli atroci eufemismi delle “guerre umanitarie”, dei “bombardamenti chirurgici” e dei loro spiacevoli, ma inevitabili “effetti collaterali”. “A supin li’ peraulis vièrs sensa musa / e caghin seadura. / A resta ‘na sclòfula / ch’a s’implomba e trima / ta un vint sensa stagiòn / e a vorès essi nuia”, (Succhiano le parole vermi senza volto / e cagano segatura. / Resta una scorza / che s’infradicia e trema / in un vento senza stagione / e vorrebbe essere niente) scrivo in Primavera dal doimìl e tre. È la pena per le parole, succhiate e cagate, ridotte a vuoti involucri, che mi ha fatto scegliere il dialetto per fare poesia. Infine, la guerra non va vista sugli schermi a 70 pollici, la guerra va sentita. Io credo che la poesia, anche la mia poesia, te la faccia sentire.
La tua poesia ha una marcata impronta etica: un rapporto, quello tra etica e letteratura, alquanto complesso, ambiguo e contradditorio, anche per il rischio di scivolare nel moralismo: come credi di averlo affrontato, tanto più quando la figura dell’intellettuale engagé e militante sembra essere in via di estinzione?
L’imprinting me l’ha dato il Gruppo Majakovskij: lì si faceva poesia militante – Poesie militanti era il sottotitolo del primo libro pubblicato con loro. Si cercava di mettere in pratica l’invito irriverente del poeta russo ne La nuvola in calzoni: “Come osate chiamarvi poeta / e, mediocre, squittire come una quaglia. / Oggi / bisogna / a mo’ di frangicapo / conficcarsi nel cranio del mondo!”. E certo quella che tu definisci etica ha a che fare con la lingua che uso, come ti scrivevo in una lettera di vent’anni fa: “Lessico familiare il mio dialetto, lingua materna – l’acidità, il sarcasmo, l’insofferenza per la verbalizzazione vacua –, lingua paterna – le punte di dolcezza, la volontà di canto, la percezione stupita delle cose”. Solo ciò che degrada, che offende l’uomo e il mondo mi spinge a scrivere. Solo l’amore per la vita e la natura fa scaturire l’emozione che si traduce in parola. Non è qualcosa di staccato, deve attraversarti, far corpo col tuo vissuto. È la moralità del sambuco, che sulla proda scorticata, bruciata si ostina a vivere, con il suo soffice midollo, la scorza porosa, i germogli di smeraldo, i mazzetti dei suoi fiori: “Il sambuc è la nustra ginestra / il vingiostri iust / pa la nustra moralitàt” (Il sambuco è la nostra ginestra / l’inchiostro giusto / per la nostra moralità).
Com’è cambiata la tua poesia, se lo è, da una raccolta all’altra, sul piano tematico e formale? Ad esempio, mi pare che strada facendo ci sia stato uno spostamento dall’“io” al “tu” e si siano moltiplicati i personaggi, o si sia formata una sorta di Stimmung stilistica con l’uso ricorrente dei diminutivi, o si sia fatto più stringente il rapporto col terroir, senza per questo perdere di vista l’orizzonte di là dal mont, o – ancora – le tue metafore e le tue similitudini si siano fatte sempre più concrete, corpose, terrigne, materiali, vivide, materiche, tanto da sembrare impastate di terra, ecc.
Ormai per me la poesia è solo dialogo e incontro. È una poesia grata di quanto ha ricevuto dalle persone e dalle cose, siano artisti o un pioppo nero incontrato una sera di gennaio. Riconoscenza e tenerezza con quella Stimmung che tu riconosci nell’uso che faccio dei diminutivi. Quello che tu chiami terroir – termine enologico del tutto pertinente per una raccolta che s’intitola Ùa/Uva – è il mio porto sepolto, il giacimento da cui ricavo metafore e similitudini. Perché “no è vera ch’a no son pì lòucs: / a s’insumièin ta li’ peràulis / e ti svèin e ti emplin / coma ’na ciera lizera” (non è vero che non ci sono più luoghi: / si sognano nelle parole / e ti svegliano e ti colmano / come una terra leggera).
Silvio Ornella