Vent’anni di Umana gloria /4

Continua lo Speciale di pordenoneleggepoesia.it dedicato ai Vent’anni di Umana Gloria. Partito dall’evento tenutosi il 1 ottobre ai martedìpoesia con Francesco Brancati e Marta Celio (QUI), il primo articolo ha visto l’introduzione di Roberto Cescon e Tommaso Di Dio e a seguire Riccardo Socci con «Come dire questa fragilità che è guardarti»: appunti per un’analisi di A D. (QUI). Il secondo approfondimento invece è stato a cura di Cristiano Poletti dal titolo Mario Benedetti e la pittura (QUI). Il terzo è stato a cura di Gian Mario Villalta dal titolo Una poesia di Mario Benedetti, una lettura (QUI).

 
 

La corsa, la fine.
Su una poesia di Umana Gloria.

di Luigi Fasciana

Scrive Bataille che l’arte in principio era espressione di forme sovrane, divine, regali. Con l’ascesa del ceto borghese, dedito all’utile e incapace di onorare incondizionatamente qualcosa, incapace di vera devozione, le forme maestose finirono col diventare sproloquio magniloquente, vuoto; “alto” e insignificante: la menzogna solenne di chi non ha più la forza di credere. È un passaggio assodato della critica d’arte ma Bataille approda a una precisione profonda: con Manet, in parte anticipato (sarà un caso?) da Goya, ritroviamo questa grandezza solo nella «passione di colui che raggiunge in se stesso una regione di silenzio sovrano». Quella dell’arte, continua citando Malraux, è una «cattedrale segreta». Ogni eloquenza è eliminata, ma da questa assenza emana una «pienezza densa». Il sacro è ormai muto, non proclamato. È frutto di una «trasfigurazione interiore, silenziosa, in qualche sorta negativa»1.

Non è certo l’unico ad aver avuto consapevolezza di tutto ciò, ma è difficile trovare un poeta contemporaneo che incarni più di Mario Benedetti questa profonda e moderna sensibilità: lo yogurt, il televideo, la scodella, l’erba, il mobiletto, le bucce, la tosse, le brioss del supermercato, le sfoglie inzuppate nel latte. A partire proprio dalla lingua di Umana gloria, lingua che Benedetti in una vecchia intervista ha definito «di parole antropologicamente determinate»2. Una lingua umana, povera – in Benedetti questi due termini sembrano sinonimi. Frantumata, insidiata. Eppure da queste parole proviene spesso un riverbero, qualcosa eccede. Così come dai vecchi oggetti proviene a volte un’aura di eternità, sembrano dèi, qui, gli esseri umani che compaiono nell’ultima poesia della sezione In fondo al tempo:

Arrivano a piedi come gli dèi, stanno lì.
L’essere di qualcuno tra le case e io con la
mano cancello davanti
un ragnetto sul foglio,
niente non vuole dire se piango.

Luna, corridoio bianco, come ho corso!,
e nel vento sono ancora che mi porti, braccio, ramo nel
buio che si muove.
Come corro, come ride l’acqua
e tu mi guardi come qualcuno, perché sono qualcuno?
Corro nell’acqua increspata, cosa c’è
in questa musica visi, fisarmoniche e il volere andare, e
dopo il pianto grande la voce così bella
sai, dice, vieni, sono tutta nel sogno e tu? Io, le
mie scarpe le risa le travi dove? sono qui i
morti? sono qui?

Arrivano gli adulti, sembrano divinità. Forse è uno di quei momenti dell’infanzia in cui si aspettano i grandi. La mano cancella. Il ragnetto era disegnato o è finito sul foglio? Qualcuno avrà chiesto “perché”? Ma non vuol dire niente, non è successo niente, questo pianto non ha motivi (v. 5). La potenza dello stile ellittico di Umana gloria è quella di non sembrare rimaneggiato, di mettere assieme pezzi di cose dette, immagini, reazioni, emozioni come se fossero appena state dette, viste, sentite. È sera. Dopo il pianto, si corre sotto la luce dalla luna. Il rumore dell’acqua che scorre (v. 9), che schizza, sembra quello di una risata. O l’acqua ride perché al buio è illuminata ed emette bagliori? O a ridere è l’io? Alcune poesie di Umana gloria possono sembrare come uno specchio rotto in cui ogni scheggia riflette un ricordo, un frammento di passato e tra le schegge la cornice del ricordare: quasi invisibile, il presente. Afribo ha parlato di «compresenza vischiosa di passato e presente»3. La poesia di Benedetti, in certe occasioni, va anche oltre. L’emozione del ricordare e l’emozione ricordata, l’io infantile così prossimo e l’io presente a volte così distante. C’è un disorientamento. Qualcosa di più di un ricordare o di una mimesi del ricordare. Un’estasi, forse. Anziché fondere i tempi, certe poesie di Umana gloria sembrano, più radicalmente, anacronizzare il tempo. Forse è per questo che una materia elegiaca convive con una vena robustamente anti- elegiaca, segno probabilmente che l’utilità di tale categoria, nell’avvicinarsi alla poesia di Mario, sia stata forse sopravvalutata.

Più che una trama di schegge, la poesia di Benedetti somiglia a quell’«acqua increspata» che leggiamo al verso 11. La sintassi mostrandosi come il luogo in cui tanti centri si propagano, onde che si scontrano. L’una si interrompe per effetto dell’altra. Frammenti di discorso che si sovrappongono l’uno all’altro senza un confine netto, anzi creando un riverbero, non essendo certo governato il loro incontro, come sappiamo, dalla grammatica o dalla sintassi tradizionale. La poesia di Mario sembra più seguire la regola di ciò che sopraggiunge emozionando.

Al verso 10 lo sguardo, direi di una madre, a generare la domanda “perché sono qualcuno?”, che per un momento trascuriamo. A questo punto i versi subiscono un’accelerazione, mimesi di ciò che gli occhi distinguono nella corsa, nel “voler andare” (v. 12). Altrettanto brusco il passaggio al “pianto grande”. L’ambientazione cambia, lo capiamo da quelle “travi” al penultimo verso. Si va a letto, probabilmente, e gli ultimi versi forse provengono da quella soglia tra veglia e sonno, chiudendo così il cerchio col primo verso di In fondo al tempo: «e la casa mi volava via nel prendere sonno».

Due domande essenziali: perché sono qualcuno? Sono qui i morti? Si parla di confini, di termine. Il bambino che comincia a fare esperienza della sua esistenza individuale, essere “uno”. Il bambino che inizia a rendersi conto che la vita – la corsa, il pianto grande – finisce. Ancora una volta un cortocircuito tra la consapevolezza presente e le sensazioni di un tempo. Come per la gloriosa povertà dell’uomo, il fondo del tempo da vivere adesso, l’anti-eloquenza che esorbita e la strana sensazione di eternità degli oggetti in disuso – questi versi sono alimentati da un ennesimo paradosso: «il nostro sentire in eccesso, debordante, illimitato, senza misura» e la «finitudine come condizione di ogni cosa»4. Misura e dismisura, infinito sentire ed esistenza finita. Eccolo uno dei nuclei, forse il maggiore, di Umana gloria: «l’immenso sentire l’intera esistenza terrestre in quanto finita, mortale»5.

 
 
 
 

1 G. Bataille, Manet, Abscondita, Milano, 2013, pp. 38-41.

2 M. Benedetti, Maurizio Chiaruttini a colloquio con Mario Benedetti, in «Nuovi Argomenti», 5, settembre-dicembre 2020, p. 105.

3 A. Afribo, Poesia contemporanea dal 1980 a oggi: storia linguistica italiana, Carocci, Roma, 2007, p. 206.</span

4 M. Benedetti, Materiali di un’identità, Transeuropa, Massa, 2010, p. 26.

5 Ivi, p. 27.