Vent’anni di Umana gloria /2

Continua lo Speciale di pordenoneleggepoesia.it dedicato ai Vent’anni di Umana Gloria. Partito dall’evento tenutosi il 1 ottobre ai martedìpoesia con Francesco Brancati e Marta Celio (QUI), il primo articolo ha visto l’introduzione di Roberto Cescon e Tommaso Di Dio e a seguire Riccardo Socci con «Come dire questa fragilità che è guardarti»: appunti per un’analisi di A D. (QUI).

 
 

Mario Benedetti e la pittura1

Cristiano Poletti

 

L’umiltà della mano, l’umiltà delle vene, come in un famoso quadro di van Gogh, I mangiatori di patate. Osserviamo attentamente la mano destra del contadino, intenta a tagliare; osserviamo poi la semplicità del suo occhio di profilo o la semplicità ancor maggiore che riempie gli occhi della donna che, al suo fianco, lo guarda. Ecco, l’umiltà si allarga, diventa l’intera opera.

Ora leggiamo questa poesia:

Il tram a Milano in viale Monte Nero,
eri seduta a guardarlo come guardavi i treni.
Con la bicicletta senza i freni,
dopo il passo di Monte Croce
per andare a Attimis, a Forame,
è stata una fortuna non cadere, sfracellarsi.
Sapevo che c’eri, che eri vicino a guardare
mentre io pensavo, e ti trattenevo.
Come una foglia tra le foglie
eri sulla panchina. C’erano alberi e alberi,
e il tuo viso, il vestito del solito blu.
Madre, persona morta
in viale Monte Nero, sulla strada per Attimis,
per Forame dove sei nata.

Non c’è elemento che sia finto in questo testo, esattamente come nel quadro di van Gogh. Niente appare falsato: sono versi che sembrano un soffio, venuto da un’umiltà respirata a fondo. Dentro questo soffio ecco il dipinto, che si apre al settimo e si chiude all’undicesimo verso, da «sapevo che…» a «…del solito blu». La cornice è costituita dalla nominazione di luoghi e dal pronunciarsi, asciutto, di una pura psicologia della solitudine: una voce sola e solitaria, quella del poeta, dichiara in poche righe di vedere nuda la vita, la vita della madre che ora vorrebbe proiettata per intero dal passato al presente, tutto un arco da trattenere scrivendo. L’intento infine riesce, proprio attraverso il dipinto di un ritorno: il poeta ritrova il codice della sua stessa esistenza (e con la sua, noi lettori ritroviamo la nostra).

Bastano pochi tratti: una bicicletta, il colore usuale di un vestito. Guardare è il cuore di questa poesia. Gli occhi sono umili: di fronte hanno il corpo deposto della madre, ed è per questa ragione che il linguaggio vorrebbe farsi plastico, vorrebbe farci toccare la perdita.

Ecco allora il tema dominante: c’è un punto nella nostra vita che impone a noi di stare esclusivamente di fronte alle parole, non dentro o dietro: il linguaggio, in questa poesia di Benedetti, non è “idea”, ma corpo appunto. Il pensiero diventa così subito immagine e le parole finiscono sulla pagina (luogo della deposizione, vero e proprio “corpo deposto”) perché semplicemente non sono più, non esistono fuori dalla vita.

Oltre, o meglio, prima di ogni stilistica, credo che qui si mostri il conflitto, decisivo, tra il non dire più e doverlo comunque dire: «mentre io pensavo», scrive il poeta, la madre c’era, era «vicino a guardare». Prima della voce dunque, prima del linguaggio («il primo strumento musicale è l’anima, il secondo è la voce» ha affermato splendidamente in una conferenza il compositore Arvo Pärt), la madre, come lo sguardo, era (ed è) l’inizio, sempre…

All’origine quindi, all’inizio occorre tornare, «a Attimis, a Forame», lì dove sembra che tutti siamo nati.

E le figure e i movimenti in gioco d’altronde, in evidenza principalmente nella cornice della poesia, tra inizio e fine, sono il cerchio, il ritorno, la ripetizione.
Per fare questo, tutto questo lavoro intendo, la parola di Benedetti in poesia è rastremata e stremata. Forse, nel suo caso, potremmo affermare che si tratti addirittura di tradurre l’ineffabile, di tentare almeno di farlo: ciò che resta è il solo apparire, il solo mostrarsi. Penso in particolare a Pitture nere su carta (2008), dove la poesia diventa silenziosissima forma, dove si va dal nero al nero intuendo solo brevemente la luce, luce che prende la più asciutta forma di parola possibile.

E in effetti, pensandoci, l’arte che più vorrebbe parlarci, è la pittura, mentre la poesia, che pure usa le parole, vorrebbe solo fare silenzio.

Un ultimo contributo: nell’intervista-video L’abécédaire (anni 1988-1989), il filosofo Gilles Deleuze chiarisce bene un nodo-chiave della scrittura, affermando: «Lo scrittore scrive per dei lettori, ma cosa vuol dire “per”? Vuol dire “in favore di” […] Ma bisogna dire anche che uno scrittore scrive per dei non lettori, cioè non “in favore di”, ma “al posto di” […] Perché si osa dire una cosa del genere, scrivo al posto degli analfabeti, degli idioti, delle bestie? Quando si scrive si fa questo […] Scrivere non è una questione privata, è lanciarsi in una questione universale».

È quello che Mario Benedetti ha fatto.

 
 
Foto di copertina di Dino Ignani