Nel concerto del tempo – Marco Pelliccioli – il coro sotterraneo della vita

Nel concerto nel tempo di Marco Pelliccioli1 (Specchio Mondadori, 2024) è un titolo che rimanda come è evidente alla musica, praticata del resto come propria formazione dal poeta bergamasco. Coerente con questo rimando, il libro ha la forma di partitura in tre diversi movimenti: il primo occupa metà del libro con più sezioni, tra cui quella che dà il tutolo all’intera raccolta – pagine connesse alla grande storia, recente e meno recente. Seguono altre due sezioni “Il sogno del pesce gatto” e “nell’aria leggera” su cui torno più avanti.

Va detto preliminarmente che queste tre voci sono – potremmo dire tutte – interpretate da una “controfigura” che si presenta così. Un Io che non è “l’io”, né biografico né traslato, ma è una personalità metamorfica che ci offre” un sogno, un viaggio, o forse una visione” col suo tono d’altri tempi nel lessico dice che viene a “proferire accadimenti”.

Pelliccioli crea dunque dei cronotopi di scrittura, il primo movimento mi sembra il più interessante e denso, con il suo andamento corale di voci, tra presente e memoria, tra stile iper-contemporaneo e tracce di ‘900, con un andamento metrico e l’organizzazione strofica caratterizzato da spezzature sintattiche, nette nello spazio tipografico-visivo, più fluide nel ritmo (una musica che si nota soprattutto quando Pelliccioli legge). Tutto dentro varie sezioni: “Il muro è caduto” o “1950-1970” “2020” e appunto “Nel concerto del tempo”, poesie incardinate tra il 1989 e l’oggi.

Il concerto sembra avere un fulcro nel passaggio tra ‘900 e presente, componendo una poesia narrativa e lirica insieme, che rinnova il percorso – per altro vivissimo – che va da Giudici a Cucchi (e la “controfigura “ richiama alla memoria “il disperso”) con una reale attenzione al paesaggio lombardo, più che solo Milanese, e che traluce anche in scelte dialettali, tra immagini, cronaca, storia e dettagli, come se la narrazione poetica fosse un intreccio di metonimie.

A Berlino e a Ground Zero ci sono rovine da puntellare, quelle dei muri crollati, muri della terra, che costringono al contingente. LA poesia ha il compito di attraversarli, in una compresenza di vivi e morti, di particella quotidiana e grandi eventi. Così il 9 NOVEMBRE 1989 “è una sera di novembre / come tante” (l’eco di Giudici) in cui l’antenata Angiolina, figura ur-materna e virgiliana che ricorre più volte, nonna dell’io-che-scrive, è seduta in cucina e “rammenda”, il padre e la madre fanno gesti semplici lei “pulisce la cucina” lui “stanco” che “prende il telecomando” e rompe l’atmosfera con un urlo “Zitti!” detto per sentire la notizia della Storia, che così irrompe in quella come molte cucine italiane. Questo procedere minimale è denso di realismo fa sì che però questi scorci privati sino in realtà pubblici, ancorati a una precisa antropologia italiana. Non ci sono eroi di un epos, ognuno nell’accadere molecolare è “anonima creatura” di qualcosa di più grande: “Tra quei cocci, ora, che il notiziario / ha portato in casa, ci muoviamo/ incerti, noi, senza più/ confini, siamo/ un’unica materia” (con versi dislocati in una asimmetria tipografica) “Materia” è parola chiave, tornerà poi nella natura della sezione “Nell’aria leggera”. Qui però siamo sempre nella storia e nel nome del padre che ritroviamo dodici anni dopo, nel 2001 con il figlio ancora giovane a costruire un significativo “archivio” mentre si sente alla radio ancora la storia: “un Boeing contro una torre” e il padre anche qui ammutolisce, senza urlare (“non parlò, fino al giorno dopo”). In questo attimo sconfinato e sospeso si sente “il vento/ spaventato alla finestra”: ben diverso dal progresso dell’Angelus Novus di Benjamin, come se ne rimanesse ormai solo il lato drammatico, tragico, nella sequela di catastrofi storiche di altre poesie: “3 settembre 2015”, “22 settembre 2022” e poi “Serhij” un bambino profugo, che compare con il piccolo Ailan morto sulla spiaggia, l’iraniana Mina uccisa perché senza velo. La poesia tallona la storia che a sua volta ci fa inciampare in essa nel quotidiano di un incontro sul treno o per strada. Così nelle sezioni vivi e morti si affiancano, tra cui Angiolina: per lei è l’“ultimo sguardo” mentre se ne va, lascia in eredità implicita una vita di lavoro: “Le mani storte nelle mie /il respiro corto, lei che affonda /nell’abisso e cerca invano /di stringersi alla barca “. Sulla barca (insegna Luzi) siamo anime migranti: Angiolina e il suo ‘900 dei molti panni lavati nei torrenti freddi, il piccolo Serhij invece cresce oggi “nell’ombra cupa del Cremlino”. La successione di tragedie ha nella storia minima l’unica forma di utopia possibile. Tutte le comparse, come la controfigura, si muovono, hanno vita activa di masse in transito tra rive, non solo geografiche: eccole colte da Pelliccioli “sul ponte del Serio” come “una calca” e tra essi qualcuno ha “al collo gli scarpini”. Immagine che dice tutto. Sono “umili destini /grattati via dal tempo, sintesi imperfette /di quello che siamo” Pelliccioli inventa il suo stile per questa congiunzione tra la vita anonima di chi non ebbe voce e l’anonimato metropolitano di un individualismo sfinito.

Quella che Tolstoj chiamava la vita-sciame. sono loro, rappresentate dalle figure familiari di Agnese, Angiolina, la Bepi il “concerto che riempie la Storia. Tra loro la controfigura-io, un “orfano” (sostantivo già usato in un precedente libro di Pelliccioli) come lo sono gli “oggetti abbandonati” in questi testi.

All’opposto ma complementari perché parte di una stessa sinfonia che tiene assieme le epoche, ci sono, nella sezione “2020”, altri soggetti che parlano secondo “nuovi vocabolari” come è titolata una sezione dedicata a figure del lavoro terziario oppure la figura femminile iper-moderna di @CLIO, l’influencer erede delle Clizie che prende la parola, anima virtuale del cortocircuito di adorazione e desiderio di essere adorati. Rispetto a quelle del ‘900 hanno nuovo linguaggio ma non è dissimile la condizione anonima di massa (lavorano “in silos” da cui si guarda fuori solo nella “pause caffè”) vivendo un’“epica sconnessa” felice formula del bulicare dei non-protagonisti, paesaggio bruegheliano di figure (familiari e non) “indaffarate” dentro i loro “alveari”.

Questo medesimo mondo è nella sezione “Il sogno del pesce gatto” tra realtà e fantasia, pesce d’acqua dolce che vive di notte e si interra, emblema di un materialismo onirico, dentro una “città sotto assedio” di gru, piante rampicanti e sagome di viandanti, tracce arcaiche (i “mammut”) e minacciose (i “cani” i “coltelli”). Il verso pur in un’alea di fiaba, si fa più disarticolato, sconfina spesso in lasse di prosa, la sintassi paratattica, a insistere nel ritmo da tableaux ancora cittadino di everyman e woman del circuito lavoro-casa, ma con un’intuizione quasi neurale che ci sia una “vita che ignori” di “creature” fuse al processo naturale di trasformazione (“si amalgamano al passo della stagione”) o umane presenze senza gloria, di chi “trascina i bidoni per la strada” o “raccoglie mozziconi”. Sono queste vite a rivelare “quell’andare sbagliato di noi” a cui opporre un sogno di melodia, un controcanto un desiderio di essere come la terra che viene “lasciata respirare”, essenziale (“quanto resta dopo aver spogliato tutto”) in quella che possiamo dire una dichiarazione etica di prossimità al mondo, all’altro (“io resto, amore, / come radici che non sanno/ abitare altrove”). Un movimento che si completa nella sezione “nell’aria leggera” inaugurata da quel andare per mano padre/figlio a invertirsi (sempre nel concerto del tempo) le parti quasi un ritorno alle singolarità all’ombra della storia che hanno inaugurato il libro, qui metaforizzate come vita “nascosta tra le foglie” o “segreta” (ancora la disposizione tipografica, simbolicamente rasoterra in basso pagina). Sono qui, nella natura minacciata e fragile, l’eredità delle “anonime creature”, come gli avi, come noi, come “milioni di insetti” che la abitano. Qui la controfigura si immerge in un “ciclo della vita” che con una virata di retro-nostalgie anche stilistica, Pelliccioli racchiude “in questo lieve canto/ che smemora ogni pena” che potrebbe anche essere un verso di Pascoli.

Il libro si chiude da dove era partito, dentro un mondo di vetrai e sarti, un mondo di vivi diafani di inesistenza e di morti vivissimi in connessione memoriale, torna anche Angiolina e un mondo in cui – tra magia e natura – “il fiato innesca l’universo”. Presenze che “trafiggono” stavolta come aria d’inverno, impastate di storia (le mura dove sono passate Lucia e Agnese manzoniane, presenze vive) e che accompagnano verso un futuro in cui tutto questo con una fiducia – che in Pelliccioli è poesia e etica insieme – che in qualche modo tutto questo resterà, resisterà, magari solo in un’entità pulviscolare di “granelli”.

Mario De Santis

 
 

 
 
 
 

1     In presentazione a Una Scontrosa Grazia il 9 novembre, a cura di Mary Barbara Tolusso (QUI), curiosamente 35 anni dopo la Caduta del muro di Berlino, di cui il secondo testo del libro