Vent’anni di Umana gloria /1

Sono trascorsi vent’anni dalla pubblicazione di Umana gloria (Mondadori, 2004), l’opera che ha fatto conoscere a un pubblico più ampio la scrittura del poeta italiano Mario Benedetti (1955-2020), la cui opera è stata riconosciuta come una delle più importanti del nuovo millennio.

Il volume – ristampato da Garzanti nel 2017 insieme ai due successivi Pitture nere su carta (2008) e Tersa morte (2013) – è il primo capitolo di un percorso di esplorazione della mortalità e del senso del linguaggio, attraverso una costellazione di storie familiari, ricordi, figure e paesaggi amati. Ma al di là del significato che il volume acquisisce alla luce del cammino poetico successivo, Umana gloria appare in realtà un libro composito e paradossale che, pur mostrando una grande unità, stratifica tempi diversissimi, paesaggi a tratti incongrui e vite fra loro incompatibili. Il volume affianca infatti prosa e versi, testi recenti e riscritture di poesie già edite – alcune addirittura appartenenti agli anni della giovinezza dell’autore – componendo nel medesimo libro ricordi dell’infanzia e del terremoto in Friuli (1976) insieme a immagini di una città fra fine anni Novanta e inizio Duemila (Milano, Torino, Genova), paesaggi della Bretagna e della Normandia e ancora schegge e memorie di una terra di confine fra la Slovenia e l’Italia. Anche grazie a questa varietà di scorci e tempi, Umana gloria offre un senso di unità sospesa, a pari distanza fra un preistorico passato che non smette di tornare e una contemporaneità che stringe chi dice io a un rovello di solitudine, a un prolungato dubbio sul senso stesso del proprio dire. A unire gli opposti è però in Umana gloria lo sguardo sempre rasoterra, attentissimo alle più umili datità materiali, e un verso lungo che asseconda nelle tortuosità sintattiche le percezioni più minuscole al servizio di un io intermittente, tremante: Mario Benedetti consegna alla poesia italiana una meditazione sul soggetto e sulle possibilità di rappresentazione del linguaggio da cui nessuno, dopo di lui, ha potuto prescindere. A questo allude del resto il titolo – forse un calco petrarchesco – Umana gloria: «Povera umana gloria/ quali parole abbiamo ancora per noi?» La poesia cerca di restituire nel linguaggio la puntualità inesprimibile dell’esperienza («dove il mondo è stato unico e minuscolo», «dove durano i libri»), ma si trova a fronteggiare un costante dissolversi, una costante dispersione e esso sembra sempre sul punto di mancare il suo oggetto e restituire parole che sbagliano, che lasciano al linguaggio la sola possibilità di sostare in un anacoluto o su di un’interrogazione.

Anche per via di questo continuo esercizio sui limiti del linguaggio e la sua «fievole istoria», ci sembra opportuno celebrare l’anniversario dell’uscita di questo importante libro chiedendo ad alcuni studiosi che se ne sono variamente occupati, di raccontare come hanno incontrato la poesia di Benedetti e di offrircene una lettura, scegliendo – fra i molti stupendi – il testo che gli sembrava il più opportuno per accompagnarci nella poesia di Mario Benedetti.

Roberto Cescon, Tommaso Di Dio

 
 
 

«Come dire questa fragilità che è guardarti»:
appunti per un’analisi di A D.

Riccardo Socci

 

A D.

Penso a come dire questa fragilità che è guardarti,
stare insieme a cose come bottoni o spille,
come le tue dita, i tuoi capelli lunghi marrone.
Ma d’aria siamo quasi, in tutte le stanze
dove ci fermiamo davanti a noi un momento
con la paura che ci ha assottigliati in un sorriso,
dopo la paura in ogni mano, o braccio, passo,
che ogni mano, o braccio, passo, non ci siano.
.1

 

1.

Pubblicata per la prima volta in Borgo con locanda (Circolo Culturale di Meduno 2000), A D. condensa in pochi versi i principali nuclei tematici di Umana gloria (Mondadori 2004), che raccoglie a sua volta, strutturandola in un macrotesto a lungo meditato, l’intera prima fase della poesia di Benedetti2: la correlazione tra pensare, guardare ed essere; il rapporto fra la prima persona e gli altri; la decostruzione di sé attraverso la scrittura lirica; la negazione del principio di permanenza nel tempo dell’identità individuale; la malattia che aggredisce e scompone il corpo; la caducità degli esseri viventi.

L’occasione biografica alla base del testo è da rintracciare in una delle prime manifestazioni della patologia neurologica degenerativa che avrebbe accompagnato Benedetti per tutta la vita. La presenza di un tu, e l’apostrofe che ne consegue, prefigurata dal titolo e dal primo verso della poesia, si traducono di fatto in un soliloquio della prima persona: il guardarti stare dell’incipit diventa, già al v. 4, un guardarsi stare («dove ci fermiamo davanti a noi un momento»). Non solo, come scrive Mazzoni, in Benedetti non c’è «attrito fra io e gli altri»3, ma è proprio la percezione dell’altro da sé l’unico mezzo che consente all’io di riconoscersi4, nella consapevolezza che l’oggetto del proprio guardare è al tempo stesso un soggetto dal quale si è guardati e dunque riconosciuti – Moriremo guardati è appunto il titolo della plaquette di esordio di Benedetti –, «come se solo l’altro, la seconda persona, potesse restituire il mondo alla prima»5. A D. è caratterizzata però da un altrettanto repentino passaggio dalla prima persona singolare di chi prende la parola («penso a come dire», v. 1) alla prima plurale («d’aria siamo quasi», v. 4, «ci fermiamo», v. 5, «ci ha assottigliati», v. 6), che segna l’allargamento della prospettiva dall’esperienza soggettiva dell’io a quella collettiva del tutti («ogni mano, o braccio, passo» vv. 7-8). La triangolazione tra io, tu e tutti configura così nel testo quel tentativo di «conseguire l’universale» attraverso un’«individuazione» soggettiva (Adorno) tipico della lirica moderna, dal quale anche la poesia di Benedetti prende di certo le mosse, rimodellando però lo statuto della scrittura lirica stessa in una forma originale.

Se, da un lato, in Benedetti si dà una sovrapposizione sostanziale fra essere e guardare (il verbo è in assoluto uno dei più ricorrenti nella sua opera) – ad esempio: «tu mi guardi come qualcuno, perché sono qualcuno?»6 – dall’altro lo sguardo della prima persona è caratterizzato da un profondo senso di fragilità, come leggiamo in A D. Ne consegue, in primo luogo, la totale incertezza epistemologica nella visione e nella concezione del mondo di Benedetti, che ha ricadute immediate sul piano dello stile: nei componimenti di Umana gloria, il soggetto poetante riduce al minimo il grado di assertività del dettato attraverso formule che mettono in luce il proprio spaesamento («non so come dire», «io faccio fatica a dire»7, «penso a come dire», nel nostro testo, in cui l’avverbio, ripetuto ai vv. 2 e 3, riflette anche negli esempi di «cose» che accompagnano l’io e il tu quel valore dubitativo che caratterizza l’incipit), e al contempo confessano apertamente al lettore, come una forma di onestà necessaria alla stessa comunicazione poetica, i propri limiti conoscitivi. In secondo luogo, dal momento che essere e guardare tendono a coincidere, la «fragilità che è guardarti» non può che tradursi nella constatazione della fragilità che è essere in vita: introdotta dall’avversativa al v. 4, si instaura così l’antitesi fra l’illusione dello «stare insieme» alle cose che permangono, nella loro immobilità («bottoni o spille», v. 2), e la percezione di sé quale individuo non soltanto transitorio, ma pressoché inconsistente: «ma d’aria siamo quasi», un emistichio, memore forse di un celebre verso di Sereni («allungo un braccio. Stringo una spalla d’aria»8), in cui l’avverbio viene enfatizzato da una sintassi sottilmente straniante, che è forse in assoluto la cifra stilistica più sorprendente dell’opera di Benedetti, e il principale strumento di espressione della soggettività del poeta.

Tanto in Umana gloria quanto nei libri successivi, il non essere di Benedetti è da intendersi soprattutto come un non essere interi, vale a dire come la percezione di sé e degli altri quali insiemi di frammenti irrelati, a partire dalla dimensione corporale. Assieme alla similitudine, la sineddoche è una delle figure fondamentali della sua scrittura: in A D., i corpi della prima e della seconda persona si scompongono in vari pezzi (le «dita», la «mano», il «braccio», i «capelli lunghi» marroni, come direbbe un bambino, nella povertà del suo lessico), che mentre sembrano alludere a un principio di unità e di individuazione, di fatto lo negano. Questa rappresentazione del mondo per parti non può che coinvolgere anche l’identità dell’io, quale racconto di sé attraverso il tempo. Poiché la memoria subisce un costante processo di erosione, come il corpo che la contiene, il soggetto di Benedetti può soltanto affermare la propria inconsistenza, «testimoniare piccole parti»9 di vita, osservare «i muri strappati delle case che non ci sono»10, i nomi propri degli individui che nel tempo diventano un qualcuno:

Chi è stato a farci tutto questo male? Un male che pure è diventato qualcosa qui. Le cose che cerco vanno infatti a poco a poco sulle pagine, anche se con dolore, smarrimento. Questo male che ha tolto la nostra presenza, tutto quello che parlava di noi. E noi ce lo dicevamo che tutto questo parlava di noi, eravamo così commoventi nella nostra fragilità. Almeno qui, adesso, su questi fogli, mi sembra che sia stato così e che così noi siamo costitutivamente. C’è chi ha perso tanto, anche se in effetti aveva materialmente poco e quel poco era molto a contatto con l’insidia del male, quel poco così labile per poter essere difeso, preservato. Anche questo espone all’incertezza, allo smarrimento fin da piccoli, dall’inizio. È stato il tempo, quel male. C’è chi pensa di essere sedimentato, di avere una continuità ma io no probabilmente. E adesso le cose perse, e i mondi, anche storici, fluttuano sulle pagine, nel mio sgomento, e magari forse in un piccolo tratto della sensibilità contemporanea. Fluttua l’alto e il basso, la profondità è dissolta nella leggerezza di una figurina infantile di bambina. Ci si tiene aerei, volatili, virtuali a un’idea di corpo, mantenendolo dove riesce a parlarci anche se con tanto tremore, come se in carne e ossa non ci fossimo più. Come per una morte che ci assedia da tutte le parti e promette nuove epoche, solo nuovi millenni.11

 

2.

Chi si ferma davanti a sé un momento, e si guarda nella precarietà della propria presenza, lo fa «con la paura» (v. 6). All’interno del corpus in versi di Benedetti, il termine ricorre in soli tre altri componimenti, tutti raccolti in Umana gloria. In ogni occorrenza, la paura è collegata alla sensazione del dissolversi, e specificamente alla malattia che aggredisce il corpo e ne danneggia le parti:

– La tasca, il naso, le ginocchia, una mano con la mela / o con la scodella, o con niente, senza braccio, / come da paure, da un cervello ferito in una parte.

– Si sta dentro con la paura che il corpo è strano che non faccia male, / povere e care le dita che danno alla bocca queste ore immense di noi.

– La voce per raccontare di un bel sole / quando hanno paura di non poter vedere / come si veniva a cercarsi così lontano, come si sentiva la strada a piedi, / i sassi che cos’erano.12

In Benedetti, la malattia è un’esperienza assieme privata e universale. Non è uno stato di eccezione ma, per così dire, la condizione naturale latente dell’essere umano – «il corpo è strano che non faccia male»13. Sarebbe improprio, se non ridicolo, appiattire l’opera sul solo dato biografico, ma quel «cervello ferito in una parte», contenuto nel componimento che di fatto inaugura la stagione matura della sua poesia – dopo il testo-soglia che apre Umana gloria, Lasciano il tempo e li guardiamo dormire – resta un dato ineludibile, il filtro principale attraverso cui il soggetto poetante guarda il mondo. La malattia disgrega il corpo, più o meno velocemente ne addormenta o ne cancella le varie componenti («senza braccio»), sottraendole al controllo dell’io. «Che ogni mano, o braccio, passo, non ci siano», come leggiamo nel finale del nostro testo, è una paura di tipo esistenziale ma anche, e sarebbe altrettanto improprio dimenticarlo, la paura per un evento che realmente potrebbe verificarsi o, meglio, che si sta già verificando.

A queste riflessioni, avrà forse contribuito anche la lettura di Michelstaedter, sul quale Benedetti aveva lavorato per la tesi di laurea:

La paura che gli uomini credono limitata al dato pericolo, ed è invece il terrore di fronte all’infinita oscurità di chi in un dato caso si esperimenti impotente: poiché è portato fuori dalla sua potenza. […]

D’altronde anche per lui [Platone] l’altezza vertiginosa, l’aria irrespirabile – la mancanza di tutte le care cose della vita, e del commercio degli uomini – l’immobilità di tutte le cose nel giro dei giorni e delle notti – aveva un sinistro senso di vuoto cui le sue parole non riescivano a riempire – e che non era molto dissimile dalla paura. Sicché quando l’aria cominciò a fischiare penetrando impetuosamente nel globo e svegliò i poveri discepoli dal loro torpore, anche Platone si sentì allargare il vecchio cuore mentre la sua ξηρὴ ψυχή s’inumidiva di desideri lontani.

L’areostato scendeva, i discepoli erano tornati alla vita. «Scendiamo!» «Scendiamo!» altro non potevano pronunciare e questa parola non si saziavano di ripetere che antecipava loro la gioia della quale avevano ormai disperato, la gioia d’aver la terra sicura sotto i piedi, d’esser per sempre fuori, salvi da quella terribile, vertiginosa solitudine.14

La malattia è un’esperienza che, partendo dal «dato pericolo», coniuga la paura per il dolore fisico a un «terrore» più generale, a uno stato di «impotenza», «solitudine» e «immobilità». Come leggiamo in A D. al v. 4, con la paura «ci fermiamo davanti a noi», ci osserviamo, attraverso l’altro, diventare immobili come le cose che portiamo addosso, «bottoni o spille», e infine, privati della capacità di agire e dei nostri tratti individualizzanti, diventare «cose» noi stessi – «pieno un pomeriggio di dormiveglia voglio stare. / Stare con le nuvole ferme come una cosa bianca delle montagne»15. Se riattraversiamo la nostra poesia, cercando di ricomporre questo corpo umano che lo sguardo di Benedetti ha suddiviso in varie parti, notiamo che mentre gli arti superiori sono, per così dire, completi nelle loro componenti («dita», «mano», «braccio»), di quelli inferiori, predisposti al moto, resta soltanto un gesto ridotto a semplice immagine mentale, a un ricordo: il «passo» è privo della gamba che dovrebbe compierlo, perché questa, sottratta alla percezione dell’io e alla sua integrità, è come se non ci fosse già più. Di fatto, il soggetto della poesia è già immobile.

Accanto alla paura per questo vuoto di percezione troviamo il «sorriso», una delle tante parole semplici di Benedetti che, diacronicamente, attraversano tutta la sua opera:

C’è qui, all’inizio, la raffigurazione di certi stati che mi sono parsi fortemente qualificanti una singola vita, o più vite: il riso e il pianto. E c’è, insieme, il loro voler esser confermati, considerati veri e pieni di valore, in quanto tali.16

Come leggiamo nel nostro testo, più che opporsi al sentimento della paura, il sorriso sembra accompagnarlo e completarlo17: è un sorriso nel quale il soggetto poetante si è «assottigliato». Al di là della forza figurale del v. 6., il termine acquisisce un significato specifico se consideriamo che, all’interno del corpus poetico dell’autore, ricorre in due sole circostanze. Una prima volta nel testo-soglia che apre Umana gloria, Lasciano il tempo e li guardiamo dormire18:

Lasciano il tempo e li guardiamo dormire,
si decompongono e il cielo e la terra li disperdono.
 
Non abbiamo creduto che fosse così:
ogni cosa e il suo posto,
le alopecie sui crani, l’assottigliarsi, avere male,
sempre un posto da vivi.
 
Ma questo dissolversi no, e lasciare dolore
su ogni cosa guardata, toccata.

Una seconda, in funzione di aggettivo, nell’ultima breve silloge pubblicata dal poeta, Questo inizio di noi19:

Vedi, il libro ti è davanti, le frasi
mozze bene assottigliate sussumono
anni di giornate con le loro ore.
 
Getta quel libro, è odore della carta:
e il bimbo apriva e ripiegava, apriva
e ripiegava l’odore d’inchiostro
 
e delle figure: la madre giovane
ma il bambino la vedeva una morta
ma anche non era una morta, davanti
 
quell’angolo di muro che si apriva
e ripiegava, apriva e ripiegava.

Come la paura, anche l’«assottigliarsi» assume un valore al contempo letterale e figurato, privato e generale. È il destino di un corpo segnato da una malattia che ne consuma gradualmente le varie parti, impedendone i gesti, e insieme la condizione di chi, pur trovandosi ancora in «un posto da vivi», è sul punto di «dissolversi»: gli esseri umani gettati nel tempo che sembrano «dormire» ma in realtà già «si decompongono», il figlio che vede la «madre giovane» come «una morta / ma anche non era una morta».

 

3.

Veniamo dunque al principale nucleo di senso contenuto nella nostra poesia e, in generale, nell’opera di Benedetti: la «fragilità» delle esistenze e delle esperienze individuali. Innanzitutto, è interessante notare che anche il termine «fragilità», nonostante sia una delle parole utilizzate più di frequente in sede critica20, ricorre all’interno del corpus dell’autore in due sole circostanze: in veste di aggettivo, in un componimento di Tersa morte (Mondadori 2013), sul quale torneremo, e, appunto, in A D. – componimento che, come si è visto, rappresenta per diversi aspetti una porta di accesso privilegiata alla scrittura di Benedetti. Molte sue poesie configurano una sorta di fenomenologia della caducità e della fragilità degli individui:

La mia via, da persona che osserva la realtà, in maniera anche serena se vogliamo, è quella di una visione molto concreta delle cose, per evitare qualsiasi falsificazione. Così in poesia: io seguo un percorso che non so dove mi porterà. La via d’uscita dalla vita banalizzata, dalla falsificazione, passa attraverso l’osservazione quasi scientifica della mortalità. Io voglio indagare il corpo, il resto non mi interessa. Io vivo con gli occhi, vivo con il tatto, con i sensi, vivo con la mia intelligenza, se c’è. Questo è tutto.21

Mentre nel successivo Pitture nere su carta (Mondadori 2008), il soggetto poetante sembra avere già oltrepassato lo stadio dell’«assottigliarsi», prendendo la parola da una realtà ormai dissolta e immobile (di qui l’insistenza sullo stile nominale che informa tutti i testi della raccolta), in Umana gloria si istaura una dialettica fra la precarietà che regola le biografie degli individui e la persistenza residuale delle stesse, soprattutto sul piano della memoria. Poiché «è tutto molto provvisorio in maniera forte», come ha scritto Benedetti, «dire la caducità»22 diventa un imperativo di carattere etico. Ecco dunque il ricorrere costante, nelle poesie di Umana gloria, di questo verbo ad altissima frequenza che segna l’incipit di A D. – «penso a come dire». Riporto qualche esempio:

– Le teneva la terra, non so come dire, la sabbia e l’erba.

– Io faccio fatica a dire chi sono perché non è più niente l’erba che capita.

– C’è dell’erba di là, come non saprei dire.

– A sapere bene forse potrei dire: / anche per noi una visione intera / con uno specchio sopra, con un cielo.

– E io vorrei le parole per dire gli occhi / fermati sulla colazione, dire che il pane / è più una cosa che mi nutre di altri giorni di allegria.

– Alla fine, mi domando, come poter dire: alla fine.

– Vorrei dire ancora la tosse e il freddo in quella camera larga.

– Come dire che due ragazzi camminano / sulla breve salita.

– Io posso dire dei lampi, una nuvola rotta.23

Sul piano dei tropi, l’insistenza sul «dire» si esprime anche in un’altra figura tipica della poesia di Benedetti: la ripetizione. Il finale di A D. ci offre un esempio molto chiaro, amplificato, attraverso la metrica, dal ricorso ad accenti forti sulla quinta sillaba attraverso tutto il componimento: da un lato troviamo la «paura» (vv. 6 e 7) che assottiglia il soggetto, dall’altro il suo corpo e i suoi gesti, «ogni mano, o braccio, passo» (vv. 7 e 8), sul punto di dissolversi eppure in qualche modo, proprio perché detti e quindi ripetuti, ancora presenti. Come ha scritto l’autore: «se resto muto, è come se non ci fossi. Dunque comunico, devo»24 – il concetto è ribadito in un verso di Pitture nere: «voglio non essere muto, potendolo, in una voce nuova»25.

Come leggiamo negli esempi sopra riportati, la presa di parola del soggetto di Benedetti, il «dire» della prima persona è però sempre incerto, è sempre accompagnato da formule o strategie testuali che esprimono incapacità o impossibilità: «non so come dire», «faccio fatica a dire» ecc. Proprio in questo spazio di incertezza, deposta qualsiasi pretesa di assolutizzazione dell’esperienza soggettiva, la lirica di Benedetti riesce a instaurare un rapporto di vicinanza con il lettore, a raccontare la gloria tutta umana della percezione della precarietà e, talvolta, della sua momentanea dimenticanza.

I nuclei di senso che abbiamo incontrato in A D. verranno ripresi e condotti alle loro logiche conseguenze in un testo di Pitture nere – che riporto in conclusione –, dove incontriamo l’unica altra occorrenza del termine «fragilità». Per molti aspetti, Mandami le ossa…26 rappresenta il verso della nostra poesia, il suo negativo: gli arti (la «mano», il «braccio») si trasformano in «ossa», mentre il corpo stesso è diventato ormai una «cosa» «rigida» e «inservibile»; il cervello ferito dalla malattia che in A D. impedisce il «passo» si riduce a un «cranio»; il «sorriso» è fissato in uno «sguardo blu»; l’io, costretto «dentro una vita che per potere essere / vissuta deve sembrare una vita per sempre», diventa infine un pronome indefinito, «uno»:

Mandami le ossa, mandami il cranio senza gli occhi,
la mascella aperta, spalancata, fissa nei denti,
e i calzini sotto la tuta, eri rigido, eri rigido, eri una cosa
come un’altra, senza la forma che hanno i tavoli,
morso dallo stento del vivere, una cosa inservibile,
indecisa, un terriccio che non si nota, un pezzo di asfalto
di una strada anonima, eri tu, quella cosa, eri tu,
quella cosa, eri uno che è morto. Così fragile il tuo sorriso,
lo sguardo blu e gli zigomi, il metro e settantacinque
portato come un uomo che piace, che vive per sempre,
per sempre dentro una vita che per potere essere
vissuta deve sembrare una vita per sempre, mentre eri
della carne, quello che io sono uno per sempre ancora.

 
 
Foto di copertina di Dino Ignani
 
 
 
 
 
 

1 Edizione di riferimento: Mario Benedetti, Tutte le poesie, a cura di Stefano Dal Bianco, Antonio Ricciardi e Gian Mario Villalta, Milano, Garzanti, 2017, p. 79.

2 Cfr. Riccardo Socci, Modi di deindividuazione. Il soggetto nella lirica italiana di fine Novecento, Udine, Mimesis, 2022, pp. 213 e ss.

3 Guido Mazzoni, Recensione a Umana gloria, in Almanacco dello specchio 2005, a cura di Maurizio Cucchi e Stefano Giovanardi, Mondadori, Milano, 2005, p. 169.

4 Riflessioni su questo tema emergono anche in Materiali di un’identità. Si veda ad esempio la poesia di Apollinaire che Benedetti cita: «tutti quelli che sopraggiungevano e non erano me stesso / portavano a uno a uno […] i pezzi […] di me stesso. / Mi costruivano a poco a poco come s’innalza una torre» (Mario Benedetti, Materiali di un’identità, Massa, Transeuropa, 2010, p. 11).

5 Umberto Fiori, Recensione a Umana gloria, in «Atelier», IX, 33, p. 112.

6 Benedetti, Tutte le poesie, cit., p. 45.

7 Benedetti, Tutte le poesie, cit., pp. 37 e 49.

8 Vittorio Sereni, Poesie, a cura di Dante Isella, Milano, Mondadori, 1995, p. 261.

9 Mario Benedetti, Materiali di un’identità, Massa, Transeuropa, 2010, p. 57.

10 Benedetti, Tutte le poesie, cit., p. 56.

11 Mario Benedetti, I nostri giorni, in «Il gallo silvestre», 12, 1999, p. 184.

12 Benedetti, Tutte le poesie, cit., pp. 35, 63 e 113.

13 Ivi, p. 63.

14 Carlo Michelstaedter, La persuasione e la retorica, a cura di Sergio Campailla, Milano, Adelphi, 1982, pp. 60 e 114-115.

15 Benedetti, Tutte le poesie, cit., p. 40.

16 Mario Benedetti, È stato un grande sogno vivere, in «Il gallo silvestre», 11, 1999, p. 113.

17 «Il riso sarcastico turba, guasta, corrompe le tranquille immagini famigliari ch’essi invano vorrebbero trattenere, e li grava con oscure immagini di biasimo e di minaccia» (Michelstaedter, cit., p. 58).

18 Benedetti, Tutte le poesie, cit., p. 31.

19 Ivi, p. 323.

20 Si vedano, ad esempio, Gian Mario Villalta, Una ferita coralità perduta, in Benedetti, Tutte le poesie, cit., pp. 21-26; Guido Mazzoni, Intervista a Guido Mazzoni, in «L’Ulisse», XI, 2010, pp. 68-79; Gianluigi Simonetti, La letteratura circostante. Narrativa e poesia nell’Italia contemporanea, Il Mulino, Bologna 2018.

21 Mario Benedetti, Intervista a Mario Benedetti (Trevigliopoesia 2014), a cura di Maria Borio, in «Nuovi Argomenti», 18 settembre 2014, www.nuoviargomenti.net/poe­sie/vedere-nuda-la-vita-ventiquattro-ore-con-la-poesia-di-mario-benedetti.

22 Benedetti, Materiali di un’identità, cit., pp. 56 e 27.

23 Benedetti, Tutte le poesie, cit., pp. 37, 49, 52, 53, 54, 59, 81, 102 e 104.

24 Benedetti, Materiali di un’identità, cit., p. 14.

25 Benedetti, Tutte le poesie, cit., p. 217.

26 Ivi, p. 262.