Il regno doloroso – Paolo Valesio

Il regno doloroso di Paolo Valesio (prefazione di Fabiano Gritti, Viareggio, Dia.foria, 2024, pp. 260), è la nuova edizione dell’originale uscito nel 1983, un’opera di prosa narrativa che tende al verso, il contrario del volume antecedente, Prose in poesia, 1979. Alla fine del libro, scopriamo un “piccolo diario di lavoro” dove l’autore racconta analiticamente le fasi della revisione.

Se studiamo la struttura di questo “esperimento concretato in romanzo” (254), scopriamo un caso originale e insieme familiare. Il regno doloroso è diviso in dieci capitoli, anch’essi suddivisi in sezioni separate da spazi bianchi. Le numerose frasi rientrate sono versi. Il primo e il decimo capitolo hanno lo stesso titolo: La via dei minimi. Quindi esiste una cornice come nel Decameron di Giovanni Boccaccio. Perché considerare seriamente questo paragone invece di una parentela letteraria con il più vicino Gruppo 63 o il Nouveau Roman? Perché Il regno doloroso tesse una serie di ritratti, di Tableaux parisiens, di oggetti (la penna stilografica, la caffettiera vesuviana, la custodia dell’orologio, ecc.) e di personaggi di ogni tipo dai “professorini” ai baristi e i tassisti, le attrici e gli scrittori. L’inizio è più travagliato mentre la fine è decisamente più luminosa. Un altro motivo per elaborare il paragone con il Decameron? Il contenuto. Come alla fine della quinta giornata del Decameron dove Dioneo cita la ballata anonima del nicchio: Questo mio nicchio, s’io nol picchio… anche Valesio cita lo stesso verso a pagina 189 nel capitolo Le cautele dove si racconta di una telefonata intima tra marito e moglie con sottotono sessuale. Il tono è spesso ironico e comico. Naturalmente questa struttura non esclude intertesti danteschi, ma la cornice ha una funzione essenziale che richiama più il Decameron.

Qual è questa funzione? Essa è riflessiva e ripetitiva. Il primo capitolo, La via dei minimi (1) ci dà la chiave di lettura e ci dimostra come sarà fatto il libro. Mette in atto il meccanismo delle transizioni operative dentro le unità tematiche in senso generale, ma provocate da una parola, una frase o un’immagine che viene ripresa o elaborata o anche una figura retorica come il chiasmo. Mentre il decimo capitolo, La via dei minimi (10) rielabora i temi maggiori annunciati nel primo in chiave più “aulica.” Perché? Perché alla fine si escludono gli elementi “volgari” e comici in favore di immagini luminose e parabole di speranza (il bambino fantasima che appare solo all’ospite, 242-244). Si chiude con l’attesa fiduciosa della bambina che forse riflette le fanciulle dagli occhi grandi dell’inizio.

Quindi si racconta con una lingua abbastanza elegante tranne alcune eccezioni che sono sempre casi di hapax legomenon, cioè occorrono una volta sola nel libro e sono detti da personaggi non protagonisti o dal narratore. Tali occorrenze, tipo: “sorchetta”, (19) e “motherfucker” (92) e alcuni altri a pagine 140 e 158, colpiscono perché sono rare. Fanno risalire il contrasto.

Che cosa si racconta? Le conversazioni e i frammenti considerano gli oggetti e le persone, le funzioni corporali e la fisicità dell’essere. Questo include il sesso femminile e maschile e il modo di stare con il proprio corpo e con quelli dei nostri amanti o coniugi. Spesso le considerazioni sugli oggetti azionano la riflessione sullo sguardo interiore ed esteriore; si scruta la stratificazione della realtà dove si nascondono scintille divine, i modi molto diversi dei luoghi distanti tra di loro.

Barbara Carle