La felicità è inafferrabile; la sofferenza si può abitare, ha un volto, non ti abbandona. E in fondo c’è la soglia ultima di un “dopo” irrevocabile che porta altrove l’immaginazione o la annichilisce.
In Quarantadue di Beatrice Zerbini la morte appare quale impulso metafisico capace di abbracciare la vita con tutte le paure e le sofferenze che impastano il nostro stare nel mondo.
La parola, accesa da cortocircuiti e grumi metaforici fino al paradosso o all’antitesi, è capace di portare a presenza e di mescolare l'accaduto con il non accaduto o il non accadente, trattenendo un corpo di ricordi tanto ostinato quanto doloroso, eppure sempre scandito dall’apertura e dalla compassione per il flusso che continua.
La morte è paura di morire, perdita di una persona cara a cui dire comunque “torna prima che faccia buio”, ma nello sguardo di Zerbini prevale il voler bene, in “tutti i luoghi del mondo”.
E, però, la felicità come si può dire? Davvero si può solo intuire nei vuoti tra una parola di sofferenza e un’altra? Oppure la felicità della parola, la poesia, può toccarci?
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