«Nella lotta tra te e il mondo vedi di assecondare il mondo». Fra le tante frasi memorabili dei Quaderni in ottavo di Kafka, e in generale del suo corpus diaristico, questa è fra le più citate in assoluto. Magari a contraggenio, proprio perché controcorrente rispetto alla piega che ha preso il mondo: cioè l’insieme dei miliardi di «io», ciascuno dei quali – nella Società del narcisismo profetizzata da Christopher Lasch, giusto alla vigilia degli anni Ottanta ideali eterni nei quali permaniamo reclusi – si considera appunto il mondo (e quel “mondo” vede di farsi bastare).
Risponde a un paradosso pure invocarla, come qui, in abbrivo a un articolo sulla poesia del nostro tempo. Perché le tante definizioni che si sono potute dare di «poesia», dall’inizio almeno dell’età che consideriamo “moderna” – cioè tra fine Sette e inizio Ottocento –, su un punto sembrano concordare: e cioè che «poesia» è quella scrittura che non solo parte dalla monade «io», ma a quella circolarmente ritorna. Anche (e soprattutto) quando dice «tu», la poesia parla a chi la scrive. Lo stesso “tornare indietro” della scrittura, quando si picca d’inarcarsi andando a capo a suo piacimento, non è un modo per guardarsi allo specchio?
Di qui nell’ultimo secolo i tanti più o meno riusciti tentativi, da parte dei poeti, di smarcarsi dal vincolo obbligante a questo circolo solipsticamente vizioso. Una grande maestra di quel tempo, così radicale da non tollerare un seguito effettivo, predicava di «estinguere la passione del sé! / estinguere il verso che rima / da sé: estinguere persino me // estinguere tutte le rime in / “e”». Quella che finì per estinguere però Amelia Rosselli, alla fine, non fu la passione del sé, quanto – tragicamente – la propria stessa persona.
Perché non c’è niente da fare: per quanto lo si voglia «ridotto», dissimulato, teatralizzato, virgolettato, malfamato e sconciato, quel «pidocchio del pensiero» – come lo chiamava Gadda – sempre cocciutamente rispunta, dispettoso come il diavoletto di Cartesio o quello di Maxwell: misirizzi dell’ego che pretende sempre di avere l’ultima parola. E capita che proprio quanto più lo si censuri, in termini lessicali, «io» finisca per aggettare ancora più dispotico dalla pagina: espandendosi «oceanicamente» (come vide Freud in un frammento dei suoi più visionari) sino a pretendere di coincidere, appunto, col mondo. La nostra mente funziona come uno specchio, hanno provato a spiegarci i neurologi, ma non solo (e non tanto) perché in essa si rispecchia il fuori; bensì perché quell’esterno si conforma, nella nostra percezione, ai pre-concetti che ce ne siamo formati (e continuiamo instancabili a formarci) dentro. Già nella Beltà, anno di grazia 1968, Andrea Zanzotto ironizzava su questa dannazione nel rivolgersi Al mondo: esortandolo niente di meno che a «esistere» (perché, senza la voce di chi gli si rivolge, quel «mondo» rimarrebbe un’eco vuota).
Presa (più o meno) questa consapevolezza, la poesia-che-si-fa oggi di questo vincolo s’è fatta una ragione. E ci scende a patti. La maestra più influente oggi su piazza, Antonella Anedda, lo ha detto a sua volta in forma ironica (in Salva con nome): «Vorrei disfarmi dell’io è la moda che prescrive la critica / ma la povertà è tale che possiedo solo un pronome». Così «alla fine torno all’io che finge di esistere, / ma è una busta come quelle usate per la spesa / piena di verdure o pesce surgelato». Ha commentato questi versi Rocco Ronchi dicendo che quanto scopre il poeta, e ce lo mostra a dito, è che «l’io cui si ritorna non è identico all’io di prima». S’è riempito, appunto come un contenitore, e all’interno di quell’involucro ha mescolato le particelle del fuori, in cui s’è imbattuto, con quelle del dentro che già conteneva. Commentando un seminario sull’identità promosso da Claude Lévi-Strauss, a conclusioni simili era giunto già, negli anni Settanta, Italo Calvino: paragonando l’«io» a «una specie di sacco o di tubo in cui vorticano materiali eterogenei cui si può attribuire un’identità separata e a loro volta questi frammenti d’identità sono parte d’identità d’ordine superiore via via sempre più vaste». E alla fine dei suoi giorni l’autore di Palomar giungerà a vagheggiare «un’opera concepita al di fuori del self, un’opera che ci permettesse di uscire dalla prospettiva limitata di un io individuale, non solo per entrare in altri io simili al nostro, ma per far parlare ciò che non ha parola, l’uccello che si posa sulla grondaia, l’albero in primavera e l’albero in autunno, la pietra, il cemento, la plastica…».
La poesia-che-si-fa oggi non prova più a evadere dal self; non prova più a tirarsi fuori dalla palude dell’io prendendosi per il codino, come fa il Barone di Münchhausen alla fine di quella sferzante poesia di Zanzotto. Ma quel self, quel tubo o quella busta, lo vuole riempire di nuovo. Lo vuole ripopolare del mondo. I cinque libri che sono stati selezionati, per questa seconda edizione del Premio Strega Poesia dal suo Comitato scientifico (composto insieme a me da Maria Grazia Calandrone, Mario Desiati, Elisa Donzelli, Roberto Galaverni, Vivian Lamarque, Valerio Magrelli, Melania G. Mazzucco, Stefano Petrocchi, Laura Pugno, Antonio Riccardi e Gian Mario Villalta) rispondono tutti, ciascuno a suo modo, a questa sfida. Si va da proposizioni che paiono ripetere i moduli più tradizionali della poesia lirico-amorosa (ma alla fine si scoprono adombrare sentimenti di fusione e compenetrazione, fra io e mondo, che talvolta si sospettano persino estranei alle linee dominanti del lògos occidentale) sino ad architetture che, all’estremo opposto, si sforzano di eliminare qualsiasi riferimento autobiografico onde raccontare la Storia con la maiuscola attraverso le tante storie minuscole che l’hanno composta (eppure a questi compiti sono spinti da irresistibili vincoli affettivi o genealogici, questioni private più o meno segretamente sottese): in una dimensione etica, oltre che linguistica, che eredita le tensioni della tradizione “civile” senza ricadere negli stereotipi ideologici e retorici che quella tradizione rendono oggi inservibile.
Si pensi a un libro che ha già raccolto lusinghieri consensi, nel pubblico della poesia, come Paradiso di Stefano Dal Bianco (Garzanti, 2024). La fotografia che vedete, dello stesso autore (per ogni libro si propone qui una delle immagini, scelte dai poeti, che hanno accompagnato la proposizione di brevi loro antologie dei loro libri sulla rivista «Antinomie»), ritrae il co-protagonista del libro, il cane Tito (purtroppo scomparso per un incidente qualche tempo dopo la sua pubblicazione). È lui l’essere che – quasi come in un racconto di Kafka – svolge le sue «indagini», fisiche e metafisiche, nello spazio circoscritto (giusta l’etimo persiano, prima che greco, della parola «paradiso» appunto) che l’occhio del poeta, asciutto ma fervido, percorre in lungo e in largo.
Quello messo in scena da Dal Bianco (in ciò ben fedele, al di là dell’apparente distanza stilistica, al maestro d’una vita Zanzotto) è un piccolo dramma fenomenologico: la “visione ristretta” che, leopardianamente, è l’unica specola dalla quale si possa traguardare il concetto di “infinito” (e, con esso, l’orizzonte d’ogni possibile trascendenza) implica, nella sua partizione, un dualismo coscienziale (diciamo cartesiano, con approssimazione consueta) che invece l’ideologia animistico-panpsichista del poeta nega con decisione: insieme negando l’alterità del soggetto coatto a chiedersi il come e il perché delle cose. Laddove – come si legge nel testo che intitola il libro – l’albero «non tenta di salvarsi / né si impone, fa / quello che deve fare / non ha un significato, è solo / chiuso nel suo chiuso riso, / paradiso». Il paradosso sotteso al testo è quello di volersi uno e indiviso col creato, e ciò malgrado – nel momento stesso in cui lo si afferma – distanziarsene (perché ad affermare tale concezione è, irriducibile, il soggetto cogitante). Un paradosso in senso lato dantesco, forse: perché è proprio nella terza cantica, quella dedicata al «paràdeisos», che irresistibile si afferma l’apertura all’illimite.
Il «mondo» è invocato addirittura nel titolo del libro di Daniela Attanasio, Vivi al mondo (Vallecchi, 2023), ancorché con un’ambivalenza sottile: quel vivi è un participio sostantivato o una seconda persona (un po’ zanzottiana a sua volta, dunque) indicativa, se non addirittura imperativa? Nella bella quarta di copertina (dovuta probabilmente alla direttrice di collana, Isabella Leardini) si parla d’«un ritmo ampio, confinante con la prosa»; e in effetti in questo libro, come in tanti di poesia del nostro tempo, la prosa rivendica un suo luogo specifico. Alla fine si legge un bellissimo «ricordo-racconto», per dirla à la Umberto Saba, che s’intitola La casa di via del Corallo e che, s’immagina con quanta pesanteur, Attanasio s’è risolta a scrivere in ricordo della sua «grande amica» Amelia Rosselli (avendo lei fatto parte del “cordone sanitario” che, in quell’inverno malvagio del ’96, invano tentò di proteggerla da sé stessa). In coda poi Attanasio ha avvertito la necessità di corredare il suo libro d’una serie di aforismi di poetica (datati all’indomani di quel trauma) che a loro volta s’innervano, non a caso, sulle riflessioni rosselliane sulla «leggerezza della prosa». Una leggerezza paradossale, ove (come spesso s’è ideologizzato, negli ultimi decenni) si opini la “leggerezza”, più o meno mozartianamente nobilitata, a sinonimo di “poesia”. Ma che, conoscendo la personalità di Rosselli e il suo investimento di sé nella forma poetica, psicologicamente si capisce benissimo.
E così non è un caso che il libro di Attanasio formicoli di riflessioni sul significato della poesia, sul peso appunto che ha nell’esistenza di chi in sorte abbia avuto il praticarla. La citazione adespota di uno di questi inserti, che definisce le poesie «doni per chi sta all’erta», è da Paul Celan: da quella lettera che prosegue «io non vedo nessuna differenza di principio tra una stretta di mano e un poema». È una questione di presenza: non importa (in questo caso) se reale, nell’esistenza, o virtuale, nella scrittura. Si capisce meglio, allora, come le poesie di questo libro si dividano equamente fra “dichiarazioni di poetica” e, in apparenza più convenzionali, afflati erotici rivolti a un Altro (un’Altra). Le due alterità, «lei» e «la poesia», si confondono tra loro e sono in effetti l’una senhal dell’altra («Lei, la poesia» s’intitola l’ultima sezione in versi del libro). Nella «tigre assenza» dell’oggetto d’amore c’è «la più acuta presenza» (per dirla con un altro maestro, Attilio Bertolucci) della poesia vocata, quell’assenza, a pronunciare. «Lei c’è sempre stata», appunto (l’immagine precedente, Normandia, è di Claudia Pampinella).
Mondo «sive natura»: così si potrebbe parafrasare Spinoza a proposito del libro che così s’intitola, Natura appunto, di Roberto Cescon (Stampa 2009, 2023; l’opera qui riprodotta, di Matteo Attruia, s’intitola Ha futura memoria ed è stata fotografata da Giovanni De Roia). Anche in questo caso, come in quello di Attanasio, l’afflato tradizionalmente lirico a un “tu” esistenzialmente identificabile (anche se non necessariamente sempre lo stesso) si alterna a una riflessione metapoetica, più che concettualizzata, calata per così dire in corpore vili (come nella riflessione, tutta invescata nel quotidiano come in un qualche apologo di Giovanni Giudici, che ha per titolo La poesia dov’è?: che si conclude col dubbio, persino ontologico, se al di là della “stanza” verbale così allestita sia anche solo ipotizzabile una “realtà” che da essa prescinda). Sottesa all’impianto lirico c’è una concezione tendenzialmente panpsichista del mondo; ma a differenza che nel Paradiso trans-umano di Dal Bianco permane una riserva appunto ontologica, quasi à la vescovo Berkeley: se «esse est percipi», siamo sicuri «che quel prato sia fuori dalla mente / del cervo?». Quasi ironico, allora, un titolo come Natura: almeno se della «natura» conserviamo una concezione dualistica, rigorosamente scissa fra soggetto e oggetto.
Ma il giro di vite del libro è nella parte in prosa che, ancora una volta come nell’opera di Attanasio, lo impernia e lo orienta: le sezioni centrali, «Etimo», «Potere di parola» e «Segni, prima», svolgono in lingua poetica considerazioni di schietta matrice saggistica, nello specifico antropologica, sull’origine del linguaggio in epoca preistorica: quando, a dire dei paleontologi (si pensi al fondativo Il gesto e la parola di André Leroi-Gourhan), il segno verbale e quello iconico coincidono e «gli stessi segni, già nelle cose, sono storie uscite dalla mente che vede con le mani». Così anche quella di Natura si rivela essere, propriamente, una riflessione sul significato della poesia: su cosa sia «materia», se è «materia» la «soglia del mondo immaginato».
Nella tecnica con cui ha realizzato questa immagine Giovanna Frene (operando una sovrimpressione in Photoshop, fra uno dei mortiferi monumenti dell’absburgica Cripta dei Cappuccini di Vienna e uno dei paesaggi della sua piccola patria alle pendici del monte Grappa), volendo, c’è tutta la passione – tecnica, per non dire tecnicistica, in sede linguistica; ma anche storiografica e filologico-documentaria – che l’ha portata all’exploit di Eredità ed Estinzione (Donzelli, 2024): il libro col quale ha raggiunto una sospirata ma indiscutibile maturità. Evidente l’air de famille col mondo del suo mentore, una volta di più Zanzotto: per la «diplopia» che lascia trasparire le immagini l’una sotto l’altra, in uno scivolamento metonimico potenzialmente senza fine; ma soprattutto per l’ispirazione “storiografica” di un impianto che rivisita luoghi e ossessioni di un libro-monumento come Il Galateo in Bosco. A proposito di quel testo del 1978, diceva l’autore che «la poesia (più che la letteratura in senso lato) è forse l’unica storiografia “reale”, l’unico evento che si autoscrive e si autoparla, un evento che finisce per identificarsi senza residui nella traccia scritta che ha lasciato. […] La poesia sembra divagare e intorbidare, ma infine dilucida quanto v’è di più aggrumato nella storia». E forse non c’è poeta, dalle nostre parti, che oggi raccolga questa lezione con la dedizione sacrificale di Giovanna Frene.
Ne sortisce una riflessione sul senso della scrittura come ineludibile retorica (quello delle «Canzoni all’Italia», nella sezione più dolorosa del libro, essendo il modulo-principe della tradizione “civile” oggi più invecchiata e impraticabile), e al contempo testimonianza irriducibilmente “fisica” (i lacerti di scrittura semi-colta, emersi soprattutto nella stagione storiografica successiva al libro di Zanzotto, riportano un’anti-storia, un «contro-futuro arcaico» – come lo chiama l’autrice alla maniera di Guido Morselli – che rivede i giudizi, sovverte le retoriche, ripara i torti). Colpisce come il toponimo dell’hinterland goriziano che intitola la prima «Canzone all’Italia», Peoma / Peuma / Piuma, sia anche anagramma eloquente della parola «poema»: così chiamando in causa, a rovescio, il trattamento “monumentale” che, fra gli altri, d’Annunzio riservò a quei luoghi insanguinati; d’altronde la «piuma» è strumento eletto, per tradizione, di quella retorica “alata”. Quella di Giovanna Frene, invece, è la parola di chi rimane a terra.
Anche le immagini che punteggiano «Visita alla città di Sodoma», una delle sezioni che compongono Discomparse di Gian Maria Annovi (Aragno, 2023), sono realizzate dall’autore. Si tratta di “lapidi” d’invenzione, rinvenute da un gruppo di «turisti omosessuali» vaganti in un allegorico «deserto», in memoria di coloro che hanno perso la vita appunto per la propria sessualità (come «pier paolo», cioè ovviamente Pasolini: che «lascia la madre / e il mondo stupendo e / maledetto»). Immagini di sintesi si trovano anche in altre parti di questo libro straordinariamente fantasioso, che ogni volta escogita un diverso stratagemma formale per dare voce agli «svociati, gli sfigurati del margine, che i discorsi dominanti negano, cancellano, dimenticano»: come nella prima sezione (o poemetto), «La scolta», che (anticipata nel 2013 da nottetempo) è ormai un piccolo classico contemporaneo. Un’altra sezione, «Ritratti dal mare», si confronta con la tragedia più “rappresentativa” del nostro tempo: quella di chi il mare tenta di varcare per sopravvivere, ma da quel mare viene sepolto materialmente, per poi esserlo simbolicamente: dal mare della nostra insensibilità e del nostro cinismo. Per “dire” senza retorica questa tragedia del nostro tempo, Annovi manipola immagini più o meno canoniche della tradizione pittorica italiana – risalenti al periodo in cui, tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Seicento, si istituisce il “discorso” pittorico dell’Occidente ma anche, dallo stesso Occidente, viene istituzionalizzata la tratta degli schiavi – in cui figurino personaggi etnicamente «altri», ne ritaglia la silhouette in nero su bianco, e così allucina un’opera diversa letteralmente al “negativo”: rovesciando la gerarchia di valori dell’originale. I “ritagli visivi” così ottenuti ricordano quelli di Nanni Balestrini nei suoi collages verbali, e poi verbovisivi; e poi quelli di Antonella Anedda nella Vita dei dettagli: anche in questo caso, come suonava il sottotitolo di quel mirifico libello, «scomporre quadri» equivale a «immaginare mondi».
Il libro di Annovi è un esempio eloquente di come la testualità più intelligente del nostro tempo sia in grado di toccare in profondità temi che pertengono alla nostra esistenza associata, senza per ciò ricadere nei vizi tribunizi della «poesia civile» d’antan. La lingua poetica si spezza, come la pietra riarsa dalla luce spietata dell’oggi: si «squaglia» e si «diplasma» – ma solo per «innascere». Come la lingua barbarica della «scolta»: prima o poi destinata a «scalzare dal nostro domani / questo paralizzato italiano». Se tornerà possibile un dialogo finalmente potremo dire, allora, di essere nati.
Ha raccontato Giovanna Sicari, un’altra amica di Amelia Rosselli, che una volta al mare le capitò d’incontrare «una donna che accudiva il giardino, una donna dall’aspetto piccolo, deforme. Chiese ad Amelia: “Lei è una poetessa, perché non scrive una poesia per me?”. Amelia senza enfasi semplicemente rispose: “Tutte le mie poesie sono dedicate a te”». Una volta aveva definito La Libellula un «canto» rivolto a una «folla immaginaria». Non si può cessare di riflettere sul fatto che proprio la meno comunicativa, la meno corriva delle pronunce, col suo titanico e tirannico desiderio di forma, con la voce distorta dai recessi di una psiche ferita, con l’aristocrazia di un’educazione civile e artistica internazionale, ci ricordi che sempre la poesia, quando è grande, vive nel suo tendere a un ascolto: fosse pure quello di una folla immaginaria, un popolo che manca. Come nell’Inno alla Gioia, del Beethoven da lei tanto amato, «questo bacio va a tutto il mondo».
Andrea Cortellessa