Autenticità e poesia contemporanea /2

In un mondo sempre più complesso e stratificato ha senso tornare a discutere, in modo aperto, critico e libero, del rapporto fra autenticità e scrittura poetica. Per questo, partendo da una ricerca di Maria Borio e da un dialogo fra quest’ultima e Laura Di Corcia, è nata l’idea di allargare la discussione ad altre poete e poeti, in vista di una tavola rotonda che si terrà a Pordenonelegge il prossimo settembre. Il dibattito, sotto forma di intervista, sarà ospitato dai litblog Le parole e le cose, Nazione indiana e dal sito di Pordenoneleggepoesia. A poete e poeti è stato proposto un questionario (visitabile QUI), da cui ciascuno ha potuto scegliere liberamente tre/quattro domande. Dopo il primo intervento di Roberto Cescon, uscito su Le parole e le cose (QUI), si pubblicano le risposte di Tommaso Di Dio.

 
 

Che rapporto c’è tra scrittura confessionale e autenticità? L’autenticità può essere connessa solo alla lirica, concentrata quindi intensivamente sul soggetto, oppure ad altro? L’etimologia di autentico, d’altra parte, deriva dal greco αὐϑέντης, composto autos (me stesso) e hentes (colui che agisce): autentico è chi agisce secondo il suo vero sé. Ma l’azione, per realizzarsi, presuppone un contesto e la possibilità di interazione con gli altri, senza i quali nemmeno la nostra identità riuscirebbe a costituirsi. La prova dell’autenticità, alla fine, avverrebbe comunque in un orizzonte intersoggettivo… – e, quindi, l’espressione (autentica) di sé, da parte del poeta, come può interessare la collettività?

È molto interessante il termine autenticità: è una parola sfuggente, problematica, doppia. In un primo momento sembra rimandare a una dimensione interiore e astratta, ma subito invece si connette a un plesso di pratiche molto concrete. Dietro un paravento di innocenza, nasconde un dispositivo di messa a giudizio della vita e del linguaggio.

Se penso alla parola “autentico”, infatti, mi si affaccia alla mente, prima di tutto, un dispositivo giuridico. Dietro la parola si nasconde un comando (“sii autentico”) e un ricatto: “se non sei autentico, la tua parola non ha valore”. Dal punto di vista legale, “autentico” è un documento o un atto che è stato soggetto a vidimazione: che un ente di garanzia ha statuito essere conforme. Indipendentemente dal suo contenuto, un’opera, un’azione, una vita è “autentica” se risponde a una precisa strategia formale che ne pre-indica la validità giuridica e quindi la sua operatività sociale. “Autenticare”, “autenticato”, “autenticità”: sono tutte attribuzioni (a posteriori) che indicano come un’azione, un documento, una vita siano stati (a priori) conformi a un modello che è il solo a cui si attribuisca valore. C’è dunque un’asimmetria di potere dietro il termine “autentico”: non c’è un’autenticità che sia priva di un tribunale che ne confermi lo status. C’è un giudicato (un’opera, un’azione, una vita) e un giudicante: qualcuno è stato autorizzato a concedere con autorità l’autorevolezza dell’autenticità e qualcun altro desidera essere portato in giudizio. Anche quando si usi questa parola in termini più sfumati e metaforici (come per es. nell’espressione: “vorrei vivere una vita più autentica”), è come se si sottintendesse che possa esistere un tribunale interiore che, dentro ciascuno di noi, metta a giudizio ciò che è stato compiuto. È come se si dicesse: “se vuoi essere autentico, sarai tu il tribunale di te stesso”, in quanto ciascuno avrà interiorizzato il sistema di vidimazione implicito nel dispositivo dell’autenticità.

Il contrario del termine “autentico” è a questo proposito molto significativo. Un’opera inautentica o priva di autenticità sarebbe una opera contraffatta, che pretende di essere altro da ciò che è: magari del tutto simile, forse anche capace degli stessi effetti, ma fallata sin dal principio, perché appunto non conforme. Autentico è infatti solo ciò che risponde in maniera affermativa a un dispositivo preciso di attribuzione prima di originalità, poi di valore. Il termine “autentico” presuppone non solo un’origine, ma – diciamo – un culto giuridico dell’origine: per stabilire che un’opera sia o non sia autentica, è necessario, nelle condizioni ottimali, avere la possibilità di indicarne l’autore e, almeno, stabilire con la massima precisione possibile la responsabilità materiale nel processo di costituzione di un’opera. In questo senso, è chiaro come “autenticare” significa attribuire a un’opera una dimensione non tanto storica e di contesto (dove e quando è stata creata), ma puntuale: al limite, significa non solo individuare ma sancire chi ha commesso il “reato” dell’opera.

È secondo questa prospettiva che mi sembra interessante il legame fra confessione e autenticità: non c’è nulla di “autentico” senza linguaggio, cioè senza un “dire” condiviso e pubblico (il “cum” di “confiteor”) che possa attribuire e attribuirsi apertamente una colpa: la colpa dell’opera. Ma non è solo questo: autentico non è solo sinonimo di autorialità. “Autentica” non è solo l’opera di cui è possibile indicare una soggettività (e quindi un corpo) che è stato il supporto materiale responsabile di ciò che è stato compiuto (il corpo colpevole), ma autentica è l’opera attraverso la quale possiamo dire che è stata intenzione dell’autore stabilire continuativamente questo rapporto in maniera conforme: è questa volontà a dare ragione del suo specifico valore. In questo senso possiamo attribuire autenticità anche a delle copie: pur mutando tutta la materia, è la persistenza di una volontà conforme a rendere equipollenti nel valore quelle che sarebbero semplicemente delle riproduzioni.

Quando diciamo “autenticità” per parlare del gesto artistico, riattiviamo implicitamente tutto questo dispositivo di messa in giudizio che è radicato nel profondo della nostra vita culturale. È interessante ragionarci, perché per lo più lo attraversiamo inconsapevolmente. L’autenticità è un meccanismo sdoppiante: presuppone un modello a cui l’opera dovrà conformarsi per diventare autentica. Dal punto di vista dell’arte del discorso, “autentica” sarà allora la parola di chi si attribuisce esplicitamente la colpa della pronuncia e fa di questa auto-attribuzione pubblica, secondo un modello conforme, una dimensione rilevante della propria pratica poetica: il modello evocato e l’implicita richiesta di giudizio diventano parte dell’opera. Il poeta che chiama gli altri a verificare se, nel corpo stesso della lingua, è in grado di ricordare l’essere conformemente responsabile di ciò che dice (in quanto risponde a un modello conforme), è un poeta autentico.

Tenere a mente questa dimensione “responsoriale” della parola poetica, sempre dialogica e corporale, mi sembra un aspetto importante, di fronte soprattutto a una parola poetica che pensa l’atto estetico spesso del tutto irresponsabilmente, come assoluto, sia rispetto a una collettività sia di fronte al proprio corpo: come se la parola d’arte potesse essere del tutto singolare (senza modello), intellettualizzata (senza esecuzione) e smaterializzata (senza corpo), solo un’operazione di linguaggio. Ricordare la colpa del testo e il desiderio che la anima mi sembra un buono modo per sfuggire a una scrittura ingenua.

 

L’autenticità sembra distinguersi dalla verità: la prima partirebbe da una spinta interiore, dalla necessità individuale di poter esistere e agire secondo il proprio sé, mentre la seconda sarebbe legata a un orizzonte esterno, dal momento che il discorso della verità deve comunque poter essere condiviso. Seguendo, però, le riflessioni che abbiamo ereditato da Jacques Lacan, il desiderio presenterebbe un duplice volto, ovvero giungerebbe sempre dall’altro (il Grande altro), ma manterrebbe anche delle sue caratteristiche intrinseche (il desiderio è anche mio, e di nessun altro). Che rapporto c’è fra desiderio e autenticità?

Mi sembra che il dire autentico non sia tanto un dire “altro”, ma un dire “l’altro”: è una nozione asimmetrica che non può non richiamare, per quanto fantasmatica e interiorizzata, una presenza esterna, un’alterità che vidimi la mia azione. In questo senso è significativa la differenza fra autenticità e verità: il termine “autentico” richiama una duplicità che non c’è nella parola “verità”. Nella parola “autentico” – fin dal suo essere una parola composta – c’è uno sdoppiamento e una messa a distanza: c’è spazio per l’altro e per il desiderio di conformarsi a un ordine stabilito. Essere autentico significa che colui che agisce si dà secondo la norma di un altro che gli dia autorevolezza: e lo fa volontariamente. Nella parola “verità” non c’è questa sfumatura: vero è ciò che è imposto come tale, al di là della volontà o del desiderio di chi si dia come vero. Nella parola verità la sfumatura soggettiva è semplicemente obliterata. Si può dire vera un’opera, un’azione, una vita, anche al di là delle intenzioni con cui essa è stata compiuta. Anzi, una vita può dirsi “vera” solo quando è terminata: quando la sua volontà e la sua processualità si arrestano. La morte avvera la vita, nel senso più pregnante: la cosalizza, la verifica. Il vero accade mediante un processo di obiettivazione che si impone per forza maggiore, mentre l’autentico no: presuppone sempre una pluralità di soggetti e una tensione che si anima fra loro. Possiamo quasi dire: una vita può essere autentica, ma non può essere “vera”; vera può essere solo una vita morta. Il termine autentico presuppone che chi fa desideri essere riconosciuto come tale e che chi fruisce proietti sull’opera il suo desiderio di vidimare. Autentico è il desiderio di inglobare nel proprio fare il pre-giudizio dell’altro, la sua norma, il suo tribunale: l’altro è già qui, nel fare autentico. Il fare autentico lo convoca e lo pretende: lo chiama a guardare, a prendere una posizione in merito al giudizio, a non restare indifferente a ciò che fa. Ma è anche vero il contrario: da qui il ricatto potentissimo di un’arte che si espone come autentica. Essa pretende che tu la giudichi tale, conformemente; e così facendo ti chiama in giudizio e giudica il tuo giudizio. In questo senso un’arte autentica è un’arte che cattura lo spettatore o il lettore in un gioco di servitù\dominio dall’altissimo potenziale erotico. Un’opera che si pretende autentica non solo si sottomette a una norma di giudizio mediante cui chiede di essere giudicata conformemente, ma anche sottomette chi dovrà giudicare: chi giudica sarà a sua volta giudicato dall’intenzione che pretende l’opera autentica e così fornisce coattamente la norma con cui giudicarlo. In questo senso, l’autenticità si svincola dal giudizio di gusto (non è ha senso parlare di bello o brutto in un’opera autentica) e da ogni altro criterio di valore: l’autenticità è un dispositivo autoritario di esautorazione. L’opera che si dà come autentica pretende che la sola norma con cui la si giudichi sia l’autenticità.

 

Utilizzando il filtro problematico dell’autenticità, credi che le dicotomie che riguardano la postura del soggetto in poesia possano essere ripensate o ristrutturate?

Se seguiamo il filo dei ragionamenti (tutt’altro che definitivi) che sto provando qui a dispiegare, il termine autenticità può subire un ampliamento e coprire una pluralità di forme che solitamente non consideriamo legate a questo termine. Di solito consideriamo questo termine connesso a una definizione pigra di poesia lirica: un testo in cui un io storico, in carne e ossa, dice di sé cose che il supposto lettore accoglie come sincere perché corrispondenti alla rivelazione di un sé che sarebbe più profondo e segreto di quello feriale. Per il secondo Novecento, vengono in mente, semplificando malamente, la ricezione impressionistica di poeti come Pier Paolo Pasolini o Dario Bellezza o anche di Vittorio Sereni. Se invece pensiamo l’autenticità come dimensione di interiorizzazione dell’altro e desiderio della sua presenza vidimante nel testo, possiamo considerare “autentica” non solo una scrittura che esibisce elementi di dialogicità nel tessuto linguistico, ma anche quel testo che esibisce l’adesione a una norma formale. L’istituto metrico, per esempio, e, in generale, la ricerca di una forma del testo che sia riconoscibile come tale dal lettore, diventerebbe il dispositivo più potente di autenticità: per esempio potremmo definire “autentici” autori come Andrea Zanzotto, Patrizia Valduga o Giuliano Mesa, proprio perché accumunati dalla ricerca di una forma che sia avvertita come tale dal lettore e che in questo presupponga un desiderio e un dialogo (e un giudizio) che non può mai venire meno nella lettura, anche quando l’istituzione formale è deformata manieristicamente (Zanzotto), desacralizzata (Valduga) o re-inventata (Mesa). Inautentiche (ma non per questo meno interessanti) saranno così le scritture dove l’adesione alla norma è priva di desiderio e tensione: è meccanica. Mi rendo conto che è un uso controintuitivo del termine autentico; ma forse, nella sua stranezza, può riattivare un discorso critico che sveli proprio il desiderio di approvazione che di solito è taciuto nelle pieghe del termine “autentico”, termine che troppo spesso è usato in maniera anodina, come pallido sinonimo di sincerità (intesa come semplice adequatio fra dati anagrafici e dati poetici).

Mi sembra che il termine “autentico” possa tornare a essere uno strumento critico solo a patto di contrastare un uso stereotipato del termine e che porti a sovvertire gli impliciti conversazionali a cui siamo abituati. Fra queste, senz’altro il fatto che l’esibizione di una soggettività lirica forte sia legata al termine autenticità. Questa associazione va abbandonata, perché non sta nella realtà della cosa: produrre un dire autentico non implica produrre un discorso con un io (che può essere, se meccanico e stereotipo, del tutto inautentico), ma significa accendere un dispositivo erotico di responsabilità e dialogo. È senz’altro possibile adoperare il vettore di altri pronomi o produrre conformazioni autentiche di scritture non liriche, a patto che si inglobi il dispositivo erotico-giudicante di dialogo con un modello che l’autenticità sempre presuppone.

 

Quando scrivi, nel momento in cui prende spazio l’elaborazione del testo, hai di fronte queste prospettive? E se sì, in che modo influenzano il tuo lavoro?

Devo dire che, da un certo punto di vista, è impossibile non sottostare al paradosso dell’autenticità. Come non aver presente lo sguardo normativo dell’altro nel momento in cui si adopera la lingua della poesia? Ma è anche vero che non ho mai scritto all’interno del desiderio esplicito di essere autentico né nella volontà di esserlo. Scrivere per me è qualcosa di più simile a un’attività fisiologica: una cattiva abitudine che ormai è diventata “naturale”. Da un certo punto di vista, anzi, cerco il più possibile di disattivare dal mio orizzonte il ricatto formale dello sguardo altrui: cerco di stupirmi, di sorprendermi, di farmi portare dalla scrittura verso zone di indeterminatezza e anomia di cui non sono neanche sicuro di essere l’autore. Cerco di dare spazio attraverso la mia scrittura a ciò che sento essere intenso, ma magari non è mio: forze, violenze, gioie e disperazioni che percepisco come significative accanto a me, che passano attraverso di me, ma di cui non sono né pretendo di essere l’autore. Per quanto credo di capire, molto della mia scrittura si situa al di là e al di qua della dimensione dell’autenticità. In una zona del represso e anonima di cui faccio fatica a tracciare l’origine. Riflettendoci meglio, però, penso che “autentico” possa essere per me come una sorta di strumento che interviene nella revisione del testo: a posteriori. Autentico infatti richiama sempre una zona di accensione dialogica che credo sia interessante mantenere attiva. Le zone inautentiche, nel senso di meccaniche e inerti, che pertengono al neutro o al suo opposto all’idioletto, sento che non appartengono alla mia scrittura.

 

Il questionario completo
QUI

 

Tutti gli interventi di Autenticità e poesia contemporanea:
1. Roberto Cescon su Le Parole e Le cose
2. Tommaso Di Dio su pordenoneleggepoesia.it
3. Marilena Renda su Nazione Indiana
 
 
 
 
In copertina: foto di Dino Ignani