Meeting the British di Paul Muldoon


Paul Muldoon è forse il più noto e premiato poeta contemporaneo irlandese, dopo la scomparsa di Seamus Heaney, suo mentore e “grande maestro” (l’appellativo è dello stesso Muldoon, dalla conversazione con Loretto Rafanelli pubblicata su Laboratori Poesia1). Alcuni critici (per es. Broom, 2005) ne evidenziano il carattere postmoderno, còlto e citazionistico, nonché la poderosa inventività compositiva: rime virtuosistiche, tour de force concettuali, giochi di parole, plurilinguismo, ironia. Dal vasto corpus dell’autore, solo in parte edito in Italia (ricordiamo Poesie, Mondadori 2008, traduzione e cura di Luca Guerneri, e Sabbia, Guanda 2009, traduzione e cura di Giovanni Pilonca) ho deciso di esaminare la poesia eponima della raccolta del 1987, Meeting the British. Si tratta di una poesia al tempo stesso enigmatica e discorsivamente limpida, quasi spoglia nella sua traumatica reticenza:

 

Meeting the British
 
We met the British in the dead of winter.
The sky was lavender
 
and the snow lavender-blue.
I could hear, far below,
 
the sound of two streams coming together
(both were frozen over)
 
and, no less strange,
myself calling out in French
 
across that forest-
clearing. Neither General Jeffrey Amherst
 
nor Colonel Henry Bouquet
could stomach our willow-tobacco.
 
As for the unusual
scent when the Colonel shook out his hand-
 
kerchief: C’est la lavande,
une fleur mauve comme le ciel.
 
They gave us six fishhooks
and two blankets embroidered with smallpox.
 
 
 
 
Incontrando gli inglesi
 
Li incontrammo nel mortorio dell’inverno.
Aveva toni di lavanda, il cielo,
 
e di blu lavanda la neve. Molto
più in basso, sentivo il suono
 
di due correnti venirsi incontro
(li copriva l’uno e l’altro il gelo)
 
e, fatto alquanto curioso,
io che mi sgolo in francese dal fondo
 
di quella radura dis-
boscata. Il generale Jeffrey Armhest
 
ed Henry Bouquet, colonnello,
erano nauseati da quel
 
nostro tabacco di salce.
Circa l’insolita fragranza
 
sfuggita al fazzoletto bianco
dal colonnello, che l’agitava:
 
c’est la lavande,
une fleur mauve comme le ciel.

 
Sei ami da pesca ci diedero in dono,
e due coperte ricamate col vaiolo.

 

Ruben Moi, autore di una recente monografia su Muldoon, introduce così questa poesia (trad. mia): “Nove distici in quasi-rima e assonanza, l’ambientazione è quella del continente americano più di 250 anni fa e riguarda l’incontro di diverse popolazioni con gli inglesi. Raccontano, dal punto di vista degli indiani Ottawa, di come gli inglesi abbiano infine schiacciato la ribellione di Pontiac nel decennio del 1760, ricorrendo a quello che il trafiletto [sulla copertina del libro] definisce ‘il primo caso registrato di guerra batteriologica’” (2020, p. 140).

La poesia, scritta dal punto di vista dei nativi d’America che saranno sterminati con l’inganno – con l’iniezione del vaiolo nelle coperte – si presta bene a essere letta alla luce degli studi postcoloniali, dove si discutono i testi che ridanno la voce agli oppressi, rovesciando così la narrazione ufficiale, la versione della storia scritta dai vincitori. Come i nativi d’America, anche gli irlandesi hanno a lungo subito il dominio e l’oppressione britanniche: ecco allora che Meeting the British si configura come un’allegoria, nemmeno tanto obliqua, della sofferenza di un popolo al quale lo stesso poeta appartiene (lo nota anche Moi, p. 142). L’assetto pronominale della poesia – noi e loro – è quello, oppositivo, di altre poesie e canzoni postcoloniali: vengono in mente Requiem for the Croppies, proprio di Seamus Heaney, che narra la ribellione degli irlandesi sulla fine del diciottesimo secolo; o Fiume Sand Creek di Fabrizio De André. Storia e politica sono, per ovvie ragioni, elementi essenziali della poesia irlandese, almeno da Yeats in poi. Credo sia proprio la condizione eccentrica della poesia irlandese a motivarne la maggiore vitalità e ardimento formale rispetto a molta compassata poesia inglese: scrivendo nella stessa lingua dell’oppressore, il corrispettivo formale di una volontà di emancipazione non potrà che collocarsi in un’inventività stilistica più radicale.

Mi pare significativo il fatto che il narratore, un negoziatore amerindo (Moi, p. 141), sia anonimo, a differenza dei perpetratori della strage, chiamati per nome e cognome (vv. 10-11). L’anonimità rispecchia sì lo squilibrio di potere, ma al tempo stesso apre uno spazio de-individuato e quindi passibile di farsi collettivo: il narratore si fa portavoce delle popolazioni native tramite un “noi” che non è universalistico ma situato, offrendo una testimonianza candidamente ingenua (gli indiani non conoscevano il vaiolo) dell’imminente sterminio – che, al contrario, avviene con l’astuzia e l’inganno, come argomenterò più avanti. L’effetto testimoniale è ottenuto con uno stile denotativo (per esempio, grazie al cromatismo preciso del cielo e della neve) ma accorrono a incresparlo alcuni dettagli incongrui, come il narratore che sente gridare sé stesso in francese (v. 8), in quanto deve usare una lingua franca per farsi capire dal colonnello svizzero Bouquet (questa l’interpretazione di Moi, p. 141). Un’ulteriore incongruità sorge dal contrasto fra tali precise notazioni sensoriali e l’indeterminatezza temporale: di quale inverno parliamo? Soltanto attingendo a informazioni extratestuali apprendiamo che si tratta del 1763. Tali incongruità sono perciò stesso disturbanti, come in un sogno che verte veloce verso l’incubo.

L’enigmaticità della poesia va inoltre ricondotta al situarsi del resoconto testimoniale in medias res: gli avvenimenti sono filtrati da una soggettività distante dalla nostra, sia in termini storici che culturali. Va poi notata la scarsa agentività del narratore (e del popolo che rappresenta, per sineddoche): si contano appena due verbi, uno di percezione (could hear, v. 4) e l’altro di comunicazione (calling out, v. 8). Quest’ultimo è inoltre intransitivo e pertanto non seguito da contenuti specifici, a differenza del discorso diretto attribuito al colonnello, il quale – trovandosi in posizione di potere – ha un discorso articolato letteralmente a propria disposizione. Più agentivi sono i verbi ascritti ai conquistatori: shook out (v. 14) e gave (v. 17) non solo indicano delle azioni esterne, ma essendo transitivi hanno anche una finalità, esercitano un impatto sul circostante. Questi rilievi si appoggiano al sistema della transitività sviluppato dal linguista M.A.K Halliday: l’intuizione, poi elevata a sistema con molti tasselli tassonomici, è che i rapporti logici all’interno della frase corrispondano a quelli della realtà esterna. Halliday stesso ha mostrato, in uno studio del 1971, come in The Inheritors (Il destino degli eredi) di William Golding appaiano queste stesse strategie opposte nel caratterizzare i Neanderthal (verbi intransitivi, bassa agentività) e i futuri dominatori, gli appartenenti alla specie Homo Sapiens (verbi transitivi, alta agentività).

Lo sfondo invernale è reso manifesto da varie scelte lessicali (winter, snow, frozen) così come i suoi attributi di spoliazione (forest-clearing), che mi paiono alludere allo sfruttamento delle risorse naturali, alla profanazione colonialista della terra. La genericità dei referenti assolutizzati dall’uso dell’articolo determinativo (the sky, the snow, the sound) echeggia la percezione sacrale ed elementare dei nativi, chiaramente immersi nell’ambiente con cui fanno un tutt’uno: lo suggeriscono i deittici (that forest-/clearing, vv. 9-10) e gli avverbi di luogo (far below). L’espropriazione dei nativi dal loro ambiente si riverbera nella scissione alienante da loro stessi: nella frase I could hear…. myself calling out (vv. 3, 7) lo stesso referente è sia soggetto che oggetto grammaticale.

A livello formale, spicca il contrasto fra una forma tipografica regolare (i distici già descritti da Moi), forse iconici della morsa dei torrenti ghiacciati, e la sintassi sinuosa, che decide pause diverse da quelle di fine verso, alludendo così al caso, all’accidente, al fattore storico e umano. Questo ping-pong fra rigore formale e sintassi serpentina è un tratto che Muldoon eredita da Marianne Moore, la grande poeta modernista sulla quale Muldoon si è soffermato in un suo saggio intitolato The end of the poem. Lo si ritrova in altri importanti sodali di Moore, tra cui William Carlos Williams e Wallace Stevens. L’americanismo formale di Muldoon si può spiegare anche in chiave biografica: il poeta infatti vive negli Stati Uniti da decenni – proprio dal 1987.

Due notazioni ulteriori, in chiusura, ma decisive nel dare una chiave ermeneutica al testo: la prima è l’insistenza sinestetica (visivo-olfattiva) sulla lavanda. Questa ricorre prima come notazione cromatica (vv. 2-3); poi nel cognome del colonnello svizzero Bouquet (di cui fiore e dunque lavanda sono sineddochi: illustrazione cogente dei giochi di parole di Muldoon – ma Bouquet si riferisce anche agli ufficiali svizzeri dell’esercito britannico, come nota Moi, p. 141 –); poi ancora sotto forma di associazione contestuale (unusual / scent, vv. 13-14, che però è coreferenziale a willow tobacco: donde l’ambiguità, a creare le precondizioni ideali per l’inganno); e infine nel corsivo in francese (v. 16), a tradurre, variandolo, il v. 2, e a dare una quasi circolarità al testo, ma slittando la fonte dell’enunciazione dal narratore a un personaggio a questi ostile. La lavanda, insomma, in virtù della propria ossessività ricorsiva, ha un forte potenziale simbolico. Quale? La lavanda emana un profumo che protegge dal cattivo odore: quello del tabacco, in superficie; ma, più sinistramente, l’odore dei morti in decomposizione, come lasciava presagire la catacresi – qui rimotivata, tutt’altro che innocua – dead of the winter nel primo verso (e per la quale mi pare impossibile trovare una soluzione traduttiva adeguata). Anche la neve e il gelo possono allora essere letti come correlativi della morte stessa, e la deforestazione come rastrellamento di uomini e declinazione del topos foglie-morte.

L’altra notazione concerne la futilità di ricevere degli ami da pesca (fishooks, v. 17) quando le correnti sono ghiacciate (v. 6)2. Il dono degli inglesi ai nativi è insultante, derisorio, e porta in sé la prepotenza del più forte. Le lenzuola ricamate di vaiolo (blankets embroidered with smallpox, v. 18) potrebbero riparare dal freddo, ma sono più verosimilmente quelle con cui si coprono i morti della guerra batteriologica. La conclusione? L’incontro non è affatto un incontro: la stessa parola meeting è un eufemismo per sterminio e genocidio. Lo lasciava presagire un’ambiguità strutturale del passaggio shook out his hand- / herchief (vv. 14-15; intraducibile in italiano): l’ambiguità è tale in quanto contiene la lettura ombra dello stringere la mano (segno di pace, o almeno di accordo raggiunto); ma poi, procedendo in controluce al verso successivo, si rivela essere un convenzionale segnale di resa – l’agitare il fazzoletto. In inglese queste ambiguità si chiamano garden path, sentiero del giardino, e recano risonanze d’inganno: l’espressione idiomatica to be led down the garden path significa proprio “ingannare”. I nativi sono ingannati perché i conquistatori, nel loro disegno genocidario (Moi, p. 141), fingono di onorare la cultura amerinda del dono, in realtà stravolgendola – novelli Ulisse con il cavallo di Troia del vaiolo.

Davide Castiglione
2013-20243

 
 
 
 
Bibliografia
 
Broom, Sarah (2005). Contemporary British and Irish Poetry, Palgrave.

Halliday, M. A. K. (1971) ‘Linguistic Function and Literary Style: An Inquiry into William Golding’s The Inheritors’. In S. Chatman (ed.), Literary Style: A Symposium, pp. 362–400. Oxford University Press, New York.
Moi, Ruben (2020). Paul Muldoon and the Language of Poetry, Brill Rodopi.
Muldoon, Paul (1987). Meeting the British, Faber & Faber, Londra.
Muldoon, Paul (2008). Poesie, Mondadori, Milano (trad. e cura di Luca Guerneri).
Muldoon, Paul (2009). Sabbia. Guanda, Milano (trad. e cura di Giovanni Pilonca)

 
 
 
 

1 Conversazione con Paul Muldoon in occasione della consegna del Premio di Poesia “Città di Pescara – Sinestetica” 2024 uscito in contemporanea a questo articolo (QUI).

2 Devo questa osservazione all’ex collega di studi Louise Nuttall, che ringrazio.

3 Una prima versione di questo articolo è apparsa il 3 giugno 2013 su davidecastiglionecritica.wordpress.com. Qui si presenta completamente rinnovata e aggiornata.