“la notte ch’i’ passai con tanta pieta”
I canto, Inferno
I
“Noli me tangere” di Tiziano al National Gallery e quello molto più sinuoso e mosso del Bronzino che si trova al Louvre, la vicenda a cui si riferiscono è la stessa: Gesú risorto che incontra Maddalena appena fuori dal luogo del sepolcro. La donna vi si è appena recata e ha trovato che il corpo che giaceva è scomparso. Chiede a un uomo, che scambia per il custode del giardino, se per caso ne sappia qualcosa. A questo punto Gesù la chiama per nome – Mariam! -, lei lo riconosce e gli risponde: Rabbuni, «maestro». L’avvenimento, descritto nel Vangelo di Giovanni, ha varie interpretazioni. Allo slancio di Mariam, la risposta di Gesú che dà il titolo al quadro, ha a che fare con la sua nuova natura di risorto, un corpo che è stato trasformato. Non è chiaro perché non debba essere toccato, al punto che, come è rappresentato in un dipinto di Cano Alonso che si trova a Budapest, Gesú impedisce il gesto allungando una mano a sfiorare la fronte di Mariam. Sappiamo che, al cospetto del discepolo Tommaso, incredulo che la persona che ha di fronte possa essere la stessa che sapeva morta, vuole invece che questi metta il dito nelle sue piaghe, ricevute durante la tortura della croce.
Ecco uno dei cambiamenti più grandi della letteratura. Non più la scrittura come ricerca incessante, un tentare di giungere a qualcosa di impossibile con i propri mezzi, piuttosto il gesto del discepolo Tommaso, riguardante quella crepa nel concetto di invisibile. Se la letteratura riguardava anche una ricerca costante della realtà che vi sta dietro e che non si limita solo al mondo materiale e naturale, ma anche tutto l’invisibile che si manifesta nella storia e nella quotidianità, ora il compito è quello particolarissimo e tutto novecentesco di mettere il dito nella piaga, indicare quello che nella società non sta funzionando. La prospettiva del gesto della scrittura è completamente capovolta. Se ci proiettiamo nel passato, per millenni non troviamo alcuna civiltà di cui abbiamo resti, tracce, lasciti che non si sia occupata in maniera quotidiana e pervasiva di allargare i propri orizzonti al di là dell’immediato fruibile ed esperibile e la scrittura è stata parte integrante di questo processo. Uno dei ruoli che ha sempre avuto la poesia, dialogare e modellare le cause del reale – la poesia organizza il sensibile attraverso ciò che non fa parte del sensibile, intensifica la realtà – si è ora spostata, nella nostra società, a dare voce agli effetti, ovvero sentire, per usare la stessa metafora, il dolore della piaga. Questo spostamento non avviene senza un foglietto con le controindicazioni. Se nell’idea di esperienza è sempre stato presente un tipo di estensione della realtà, che accompagna e sostanzia il qui e ora, e la scrittura è parte di questa estensione, la nostra società è l’unica che si nega la facoltà di espandere il reale, frutto di una menomazione, come se avesse deciso di vivere in un quadro dell’adesso impoverito di tutte le influenze. Insieme a questo cambiamento il ruolo della poesia, della nostra generazione e di quella precedente a noi, è quello di dare voce alla piaga, al dolore e al malessere. Arrivati a saturazione, perché questo processo è estensibile all’infinito, se vogliamo smettere di essere solo la voce degli effetti, bisogna allora prendere atto degli effetti, constatarne l’importanza e rivolgere lo sguardo verso le cause. D’altronde, è questo quello che il mio medico consiglia.
II
Mi rendo conto scrivendo che non ho molto da dire oltre la mia poesia. Esistono due tipologie di poeti. Poeti che estremizzano uno degli aspetti dell’umano, Magrelli riprendendo Sanguineti parlava di rendere più amaro il sangue durante la scrittura, e poeti che cercano di abbracciarne la totalità. Forse è il dato biografico, il senno di Orlando si trova nella distanza, l’essere fra due continenti, guardarsi dalla distanza ha sempre voluto dire ritrovare la propria posizione nel mondo. Il vicino e il distante sono due aspetti della nostra vita. Materia inesprimibile è questo legame – vivere intensamente e guardarsi vivere. Questo è stato, nel mio caso, l’inizio della poesia. Se il prossimo e il distante sono due stati correlati fin dall’antichità, la vicinanza degli opposti è materia empedoclea, la modernità della scienza ritrova questo legame. Ecco un altro degli aspetti della poesia, trovare il legame tra l’antico e il contemporaneo. Tutto questo non è altro che ritrovare la linea della metamorfosi. Lo sguardo del poeta è unire ciò che è separato. L’enormità dell’invisibile, il passato, le azioni dei nostri padri, le nostre aspirazioni, il futuro, è parte integrante della nostro qui e ora. Niente è un semplice frammento. Tutta la buona poesia è azione e contemplazione nello stesso istante. Nel “Cratilo” di Platone, all’obbiezione del discepolo di Eraclito – la lingua affermando separa un significato dalla materia indistinta degli accadimenti – Socrate risponde in negativo: l’unica alternativa al linguaggio sarebbe indicare lo scorrere degli eventi. La poesia vive di questa dualità. È linguaggio, e quindi separa, è musica e quindi unisce. Il rumore della pioggia scrive Baudelaire nei suoi diari è ciò a cui riporta la poesia. Essa ci indica qualcosa, non solo sulla piaga, ma anche sulla causa, uno spostamento dell’animo, un fatto accaduto e nello stesso tempo la separa dall’accadimento. Attraverso questa natura ambigua la poesia è politica, biologica e umana, se è praticata consapevolmente. Nessun filo è separato. Muoverne uno vuol dire toccare in qualche punto l’estremità dell’altro. Cambia il punto di accesso. Ciò che è direttamente umano, e indirettamente politico e viceversa.
Horus il dio del sole nell’antico Egitto, attraversa il cielo una volta al giorno sopra il paese degli uomini. Ogni volta che Horus tramonta muore per rinascere dalle tenebre. Così il sole che tramonta nel paese dell’uomo diventa metafora di morte. La costruzione delle figure della poesia attraverso la sostituzione degli elementi naturali con quegli umani significa vicinanza, intercambiabilità fra umano e non umano. La phisys è parte della poesia fin dagli inizi, è l’intrinseca capacità formale del poeta nella costruzione del verso, sono le sue similitudini, le metafore a farci sentire vicino ciò che potrebbe essere lontano. Permettetemi con un certo grado di divertimento, innegabile dire che la letteratura sia anche questo, usare il sistema planetario come griglia degli accadimenti contemporanei. Di fronte alla globalità, la nostra inermità e inettitudine, la cui voce è il nostro tema della disillusione e del disincanto, risultano fattori circoscritti alle coordinate spazio-temporali. L’antico legame tra destino umano e movimento planetario paragona il sole al dolore umano: “arrivando alla fine in questo emisfero nell’altro inizia.” Se qui il nostro destino ha il sapore di maneggiare la crisi, in oriente il sole sta iniziando a sorgere e questo equivale a dire che il ruolo della letteratura è diametralmente opposto. In un’epoca in cui la nostra territorialità è messa in discussione, quando qualsiasi forma di radici e punti sicuri di collocazione sono compromessa, in un tempo quando uno dei poeti maggiori di lingua inglese, Derek Walcott, scrive da un’altra parte del mondo rispetto all’Inghilterra, verrebbe naturale pensare che dovremmo mettere in relazione ciò che sta accadendo nel qui e ora con ciò che è il distante.
III
Ammetto che non sono molte le cose in cui riporre le nostre speranze, poiché in questa parte dell’emisfero tutto sembra essere condannato a fallire in un modo o nell’altro. Il disfacimento culturale, economico, il surriscaldamento del pianeta, il ritorno dei grandi conflitti, la fine della politica – persino Benjamin pensava che alla fine della caduta di tutti i valori l’ultimo rimasto sarebbe stato la politica – sono troppi i campanelli d’allarme che stanno suonando. Nella nostra casa, a fronte del nostro riposo e degli impegni quotidiani, al ripetuto suonare dell’allarme, il fastidio che ne deriva è semplicemente la reazione, il ricordarci la nostra inaccettabile inermità. Ci disturba senza che ci sia una possibilità di miglioramento e questa condizione, famosa per la sofferenza che comporta, dovrebbe essere conosciuta anche per il suo infinito potere anestetizzante, per la smemoratezza che infonde, per il suo distacco, per la sua indifferenza. L’unica via per non cadere nel panorama terrificante degli accadimenti è un certo grado di anestesia, per cui l’effetto è opposto a quello desiderato. Probabile che sia un altro ridimensionamento, a cui bisogna trovare la propria posizione. La caduta di ogni possibile valore nell’azione del singolo e dell’organizzazione collettiva, inversamente proporzionata alla potenza tecnologica che può sovvertire i limiti dell’uomo, sono fattori che aumentano la difficoltà nel trovare l’equilibrio. Dare continuità a ciò che è terminato. Ho sempre pensato che questo fosse il compito del nostro tempo.
La potenza del morso della tigre è almeno il doppio di quella del lupo, quadruplo del morso del cane, almeno sette volte quella dell’essere umano. Per tutti questi anni ho pensato che chiamare tigre la tigre, ne avrebbe smussato i denti. Non è così. I denti affondano comunque. Molte sono le rinunce che il poeta ha dovuto compiere in questo ultimo secolo per continuare il suo operato. La scomparsa dell’aureola, la caduta dal piedistallo sono solo alcune delle metafore che possiamo trovare in qualsiasi testo ed è giusto che sia così. In un certo senso tutti noi lavoriamo per un dizionario. Perché la letteratura è un dizionario, “un compendio di significati per questo o quel destino umano, per questa o quella esperienza. È un dizionario nella quale la vita parla all’uomo.” La vita è qualcosa di infinitamente più ampio dell’idea di realtà, tranne se questa non venga ampliata. Quello che stiamo facendo è introdurre nuovi termini nel dizionario, termini tecnici, termini che non erano in uso. Va però ricordato che la funzione di questa lingua è quella, come ha scritto un altro poeta esule, “di salvare il prossimo uomo, un nuovo venuto, dal pericolo di cadere in una vecchia trappola, o di aiutarlo a capire, se mai dovesse cadere comunque in quella trappola, che è stato colpito da una tautologia.” E questo aiuto possiamo darlo una volta entrati in risonanza con il suo destino. Abbandonare il piedistallo, non vuol dire, come unica soluzione, quella di condividere il malessere. Abbandonare il piedistallo può voler dire, mettersi accanto, alla pari, e cercare con le proprie forze di offrire, avvertire o qualsiasi altra azione, purché il nuovo venuto non commetta i nostri stessi errori, o almeno, possa comprendere meglio l’ironia che governa i nostri destini. Per fare questo dobbiamo porci fra le cause e non solo essere la voce degli effetti. Dobbiamo essere capaci di accettare che la colpa per cui siamo stati sconfitti, tutto ciò che è avvenuto e che avviene sono la condizione dentro cui operiamo, come qualsiasi altro animale è dentro le condizioni in cui deve sopravvivere. Essere libero, vuol dire quando si è sconfitti o quando le condizioni sono avverse, non dare la colpa a qualcuno, tanto meno alla società, al mondo, alla persona di turno, questo sarebbe un continuare a dare voce agli effetti, ma cercare di non lamentarsi, di comprendere e correggere i motivi, se non funzioneranno per noi, almeno chi verrà avrà una prospettiva più chiara.
Quattro testi sono stati importanti per questo articolo: Brodski J., Dall’esilio, Adelphi; La Cecla F., Convincere Dio, Einaudi; Milosz J., Abbeccedario, Adelphi; e Lerner B., Odiare la poesia, Sellerio.