Joe Cooper, all’interno di un buco nero conformato a mo’ di tesseratto di eventi (occorsi e futuri), al centro della singolarità cosmica, osserva la propria vita e, in essa, frutto luminoso, sua figlia, con cui cerca di mettersi in contatto per avvertirla del modo onde poter salvare il loro (e nostro) pianeta. È una delle scene culminanti di Interstellar, film di Christopher Nolan di ormai dieci anni fa, la cui trama ricalca il motivo/pretesto di Nuovo inizio, l’ultimo libro scritto da Gianluca D’Andrea e pubblicato da L’Arcolaio nel 2023. Anche in questo libro come nel film di Nolan, un individuo si trova all’interno di una “capsula” spaziale, dopo essere fuggito da un’ apocalisse planetaria la cui natura non viene svelata (al contrario nel film viene specificato trattarsi di una carestia dovuta a un’inarrestabile epidemia di peronospera, un parassita del granoturco, a distruggere irreparabilmente e progressivamente sempre più piantagioni, campi e derrate cerealicole), ma oltre cui è facile scorgere l’ombra dell’ultima pandemia virale da COVID-19, periodo durante il quale è stato composto il libro.
Iniziamo in medias res, all’interno della capsula dove l’io lirico che meno lirico non potrebbe essere, e dunque designeremo coll’appellativo solitamente confinato al campo narrativo (ma, poiché narrativo è l’andamento di questo poema/poemetto, ci sentiamo autorizzati all’utilizzo) di “protagonista”, si trova in una fuga dall’apocalisse ormai compiuta. Inizia con l’aria di una filastrocca, in rima quasi baciata, facile, cantabile, come a dire che il mondo che credevamo finire con fragore, può anche finire col ritmo giambico di una farsa comica (e d’altronde clown sono spesso i personaggi beckettiani). Però la riflessione esige la precisione della prosa, e immediatamente, veniamo fatti parte del motivo che spinge il protagonista alla catalogazione delle proprie e altrui vicende esistenziali:
“Più le condizioni sono critiche, più abbiamo bisogno che il vissuto sgorghi, irradiando verosimiglianza”.
Flashes, spots, illuminazioni, brevi reels della memoria digitale, transitano sullo schermo della mente episodi storici, eventi sportivi, accadimenti (Carl Lewis e Ben Johnson alle olimpiadi dell’88, la dittatura argentina, l’avvento dei fast food), nella solitudine del protagonista. È, in fondo, anche un grande romanzo sulla solitudine, sull’egocentrismo, in cui l’io si dispone contro il mondo, a ricreare un non-mondo, un romanzo fichtiano, in cui la storia non entra mai in contraddizione, semmai si pone di lato, già tutti i conflitti superati in maniera temporale, non valgono più, non servono più a nulla, dialetticamente non risolti. Tutto è pacificato perché ormai, avvenuta la fine della Storia, non conta più stabilire la ragione e il torto. Nel flusso lineare del progresso, il nichilismo occidentale esalta il mito della fine e dell’inizio, non è consentito il ritorno se non come amarcord disarmato. La solitudine è anche alienazione del sé dalla Storia e dal mondo. Krapp che riavvolge il nastro della propria vicenda esistenziale, il protagonista non può fare altro che inventariare le tacche della propria (occidentale) filosofia della storia (su cui tutto sovrasta l’occhio terrorizzato dell’Angelus Novus benjaminiano, esplicitamente richiamato nel testo).
D’Andrea compone con Nuovo Inizio la seconda parte di un dittico iniziato con Nella spirale, ma dove là il passaggio attraverso la crisi finale era affrontato con le armi dell’esubero formale, con un’ efflorescenza neo-barocca, tanto qui prevale la trattazione scientifica, asettica:
“Anche supponendo che l’opera non abbia senso in quanto unicum, l’accozzaglia di frammenti vela una motivazione: l’artefice in ogni elaborazione risponde a un consenso virtuale, a una pulsione intima e necessaria di trasformazione del percepibile. Per questo è sempre in gioco la virtualità del reale, che si vuole effettivo attraverso un percorso di conoscenza”.
Catastrofismo distopico ballardiano, poetica delle rovine di Kiefer, i frammenti evocati rispondono a un vissuto impersonale: un “si dice”, “si è fatto” in cui la particella heideggeriana “si” vela l’io lirico che sfuma tra i paesaggi cosmici e gli spezzoni video da teca Rai. Nulla consente di risalire alla personalità del protagonista (tale per cui si potrebbe dubitare della sua concreta esistenza):
“Il vero scopo di questo gioco a nascondere sembrava risiedere in una volontà passiva che non cercava indizi e non credeva in alcun mistero”.
Uno, nessuno e centomila, chi scrive potrebbe essere chiunque e, dunque, nessuno. Un No-man che, come l’Angelus novus, volta le spalle a un futuro inesistente e si ripiega (nostalgico più che orripilato) sul passato mediaticamente documentato (che solo se filmato o registrato in audio/video esiste). L’uomo ridotto alla propria nuda vita continua nell’impossibilità di continuare, un po’ per istinto di sopravvivenza nonostante tutto, un po’ per entomologica curiosità di come la fine si svolga (in un alternarsi di scene giovannee); ma tale fine mai giunge essendo anche la fine stessa una sorta di prodotto commerciale da consumarsi in uno stato di eccitazione indotto.
Quanto la prima sezione è avara di appigli al privato del protagonista, tanto la seconda sezione si apre su termini familiari: “casa”, “infanzia” e “zona intima” di un rifugio personale (costituito da coniuge e figli) ritrovato. Un attraversamento della soglia logora attraverso cui il passaggio degli affetti scandisce il trascorrere del tempo. Eppure, anche in questo ritrovato nido, l’io è pur sempre solo, combattuto tra la noia di un confinamento tra le pareti della propria casa e il dolore vivo di visioni di un impossibile contatto con l’altro (se non per immagini splatter di un massacro onirico e reale, reale proprio perché profetizzato dal sogno):
“non mi interessa il dolore che attiva la vita tra la noia e il nulla, tollero ogni presenza, amo la solitudine che si prolunga fino all’apparizione dell’altro che avevo dimenticato e che per questo mi sorprende”.
Ed è proprio all’interno del paradiso ritrovato delle relazioni intime che si apre la voragine di un universo distopico e post-apocalittico, in cui, come per il padre de La strada di McCarthy, ciò che conta è solo l’affetto familiare del figlio, della persona amata, da preservare e far durare. Nell’alternarsi tra veglia e sonno (di un delirio prodotto da una febbre reale e metaforica, da congestione del subconscio) in cui, come per il narratore della Recherche o il protagonista di Ferito a morte di La Capria, la concretezza dell’ambito domestico sfuma in un dormiveglia più reale del reale, dove anche le notizie di cronaca (“uomini sequestrati su una nave,/ il microcosmo della necessità/ che aspetta di rompere il guscio,/ la sfera si richiude/ sul mondo dell’individuo”) vengono respinte dalla sproporzione di un Io (reale) contrapposto al Mondo (dai contorni di “fake news”). Un viaggio attorno alla propria stanza (e giù lungo l’inferno della propria commedia) in cui è impossibile stabilire la realtà della stanza stessa, un cervello pensante la propria vasca ma che non riesce a stabilire la veridicità della vasca stessa. In cui ciò che conta è il senso della propria fine, la consapevolezza della propria finitezza. L’uomo nichilista che ritrova il senso del proprio andare, del proprio cammino (#incammino è l’hashtag delle foto che D’Andrea viene pubblicando in questi anni) nella necessità della preservazione del mondo (reale e fittizio che sia) come una condizione di esistenza della propria discendenza, come un malato che, sul punto di morte, dopo una notte di delirio, si sleghi le bende e riscopra la luce del sole tra i rami degli alberi del mattino nuovo. Un nuovo inizio, dunque, ma non privo di responsabilità verso il futuro che, a sua volta, dietro l’immagine delle nuove generazioni (Greta Thunberg metamorfosata), viene a chiederci conto delle nostre responsabilità. Una quest cavalleresca, una migrazione verso la luce, alla fine di cui una figura celestiale ci elenchi le nostre colpe. Non c’è redenzione se non nell’affetto dell’altro da cui siamo salvati nella stessa misura in cui ci siamo mossi per salvare:
“magnetismo di frammenti d’esistenza che attraversano tasselli dell’altro nel buio che tutto abbraccia”
solo questo alla fine dei nostri giorni conterà. In un universo minaccioso e insidioso, nella prossimità della distruzione della propria casa e delle stesse condizioni di esistenza, l’unico attimo luminoso, in grado di riscattare la propria perdizione all’interno dell’infinità di eventi occorsi e occorrenti, è l’immagine della propria figlia, cui Joe Cooper si affida, pur soffrendo per l’impossibile contatto, proprio come il protagonista di Nuovo inizio che, al termine della salita, è pronto a recuperare il masso precipitato in fondo, affinché il proprio bene possa proseguire il cammino.
Daniele Orso
Era sempre più difficile ristabilire un contatto, era come se la crepa avesse ridestato altri luoghi e memoria e percezione si fossero confuse. Era in casa e vedeva un percorso. Tra le soglie era riuscito a percepire un accesso. Pensò al viaggio precedente, alla capsula e alle visioni aperte, ai cunicoli che costruivano il racconto, addensando il passato e il presente. E ora? La realtà crepata presentava altri cunicoli dai quali scaturivano i sogni. Forse era da sempre un congegno che riceveva informazioni reinterpretandole mentre le accumulava. La continuità relazionale tra l’organismo e gli strumenti era conformata all’inconsistenza del luogo. Per questo, le immagini dell’esperienza onirica nella capsula si sovrapponevano ai ricordi del passato e lui era l’interfaccia di accumulo e ritrasmissione delle informazioni. Il mondo interiore era un mondo d’immagini.
Tutto era nuovo nel cammino.
Smise di nevicare. Un sottile strato bianco coprì la vegetazione.
Tra i cembri, nuove piante oltrepassavano la pellicola bianca. Ogni confine era una crepa distante. Fuoriconfine la sorpresa della contemplazione.
Coi propri passi afferrava la visione e a breve distanza la presenza di chi arriva, si accosta, accompagna, riparte.