L’essere altrove – Adriano Pessina


Altrove. Termine evocativo che, da subito, sposta sguardo e attenzione da una parte diversa rispetto a quella in cui siamo e, in effetti, stando alla sua etimologia, questo avverbio significa “in altro luogo”; ma abitare uno spazio differente rispetto a quello nel quale ci troviamo comporta confrontarsi anche con un altro tempo e paradigmi mutati, implica essere disposti ad assumere una visione alternativa.

Prima dell’avvento dell’era digitale, l’altrove prendeva per lo più le sembianze di un luogo ameno, nel quale immaginario e immaginazione finivano per coincidere e creavano un pertugio per la fuga dalla realtà quotidiana; oggi, nell’era del predominio indiscusso della tecnologia, l’altrove, che pure continua a essere uno spazio fisicamente distante da quello da noi occupato, diventa prossimo, vicinissimo e viene erroneamente gestito, in nome di questa illusoria continuità, con l’applicazione delle norme che regolano l’al di qua.

Il filosofo Adriano Pessina, nel suo saggio uscito l’anno scorso per Mimesis e intitolato L’essere altrove. L’esperienza umana nell’epoca dell’intelligenza artificiale, mette in guardia da questa valutazione procedente per somiglianza e non per differenza; se è vero che la dimensione online e quella offline stanno in una relazione di continuità permeabile e non di separazione dicotomica – e il concetto di onlife, teorizzato dapprima da Luciano Floridi, designa chiaramente questo rapporto – è altrettanto doveroso evidenziare come si basino su aspetti strutturali profondamente differenti, in primis la grande assenza del corpo che, nella dimensione virtuale, si cerca continuamente di sopperire.

Superata, quindi, la distinzione tra reale e virtuale, dove quest’ultimo era considerato come un paesaggio artificiale che riproduceva in maniera imperfetta il primo, sostenuta tra gli altri da Nicholas Mirzoeff, il virtuale diventa, con Pierre Levy, parte costitutiva del reale insieme all’attuale: il virtuale, oggi prevalente, è il reale che rimane in perenne potenza, che tiene aperte tutte le possibilità, mentre l’attuale è il reale che prende forma, che si concretizza nell’unum. Il rapidissimo sviluppo delle tecnologie e il progressivo perfezionamento dell’intelligenza artificiale, però, ha fatto sì che il virtuale fosse sempre più simile al reale-attuale, diventandone un’alternativa contigua; a tale proposito, Simone Arcagni lo definisce in qualità di doppio visivo, esistente accanto al reale e ugualmente abitabile, ma dotato di caratteristiche proprie e peculiari. Occorre, dunque, essere vigili su quanto affermato da Pessina e cioè che questo altrove non è propriamente un prolungamento della vita sociale, quanto piuttosto uno stravolgimento, poiché «sono implicate delle libertà de-situate, smaterializzate ed enfatizzate psicologicamente». Benché questo spazio goda di quello che Roland Barthes aveva chiamato “effetto realtà”, in esso si verifica il crime parfait che Jean Baudrillard descrive come l’uccisione del reale da parte dell’eccesso di realtà.

Le evoluzioni dell’IA costringono ad ammettere che l’ambiente tecnologico è ben lontano dall’essere l’habitat di una società antidrammaturgica e libera che la Rete aveva promesso di realizzare, dal momento che al suo interno permangono ruoli e parti, così come Erving Goffman aveva rimarcato per un contesto ben diverso da quello odierno, sottolineando l’urgenza di una lettura critica di ciò che sta accadendo al concetto di identità, alle relazioni e alle dinamiche di spazio-tempo. In altre parole, accanto al fervente dibattito su cosa e come possa essere adoperata l’IA, in che modo vada gestita o limitata o integrata e in che misura essa possa coadiuvare oppure sostituire il lavoro umano, compreso quello creativo, è indispensabile partire da una rivalutazione del processo di addomesticamento tecnologico nel quale siamo immersi e su cui Pessina pone particolare attenzione: la macchina, anche nella sua forma più evoluta, è un prodotto dell’uomo e il suo utilizzo dovrebbe permanere nel recinto di tale rapporto di subalternità; eppure, già Günther Anders aveva ribadito il distaccamento totale dell’oggetto dal suo soggetto creatore. L’artefatto inanimato prende vita e la sua perfezione genera nell’essere umano che l’ha prodotto un senso di profonda inferiorità, la cosiddetta vergogna prometeica; l’uomo dimentica di avere costruito, la macchina diventa la nuova divinità.

In un mondo basato su questo ribaltamento, potremo ancora essere gli stessi? La domanda resta aperta, ma la risposta, anche plurima, non può cadere troppo lontana da ciò che Pessina ribadisce e che, difficilmente, può non trovarci d’accordo: «cercare nella rete ciò che non possiamo trovare nella realtà e viceversa, modulare la realtà in funzione della rete e delle nuove tecnologie, comporta decisamente una perdita di realismo. Ma anche una perdita di carne e di incanto, e forse di umanità.».