Tommaso Di Dio: Caro Domenico, partiamo da un fatto. La tua recente traduzione della poetessa iraniana Forugh Farrokhzad (1934-1967), Io parlo dai confini della notte (Bompiani, 2023), è la prima al mondo a raccogliere tutte le sue poesie edite, con testo a fronte e un commento filologico puntuale. Ti devo confessare che è un’emozione strana sapere che un’autrice di così grande valore, non solo letterario – so che Farrokhzad è un vero e proprio simbolo di emancipazione e liberazione attraverso l’arte della poesia – si avveri nella sua completezza nel mio idioma e in Italia, prima ancora che nella sua patria, dove ancora oggi la sua opera è sottoposta a censura. Cosa significa la poesia di Forugh Farrokhzad nella storia millenaria della poesia iraniana? Cosa ha significato per te lavorare su questo progetto?
Domenico Ingenito: Caro Tommaso, io credo che ogni atto poetico, se annunciato da sé stesso o altro in quanto tale, imponga una ripetizione costante nel corpo di chi ascolta, legge e pronuncia. Si tratta forse di una forma simbolicamente virale che chiede di saltare di corpo in corpo, e quindi di specie linguistica in specie linguistica, perché sopravviva. Questo successo repentino di cui gode oggi la poesia di Farrokhzad in Italia dopo la pubblicazione del volume Bompiani, suggerisce che la carica erotica ed estetica degli originali persiani, pubblicati in Iran negli ‘50 e ‘60, già contenevano la possibilità di essere detti in italiano per realizzare la propria forza vitale, completamente e oltre se stessi. Spinti da casualità assoluta e contingenza irriducibile, questi processi ci fanno riflettere sulla non-linearità dei rapporti tra tempo passato e tempo futuro. In questo senso la poesia di Farrokhzad – assolutamente modernista, provocatoria, sovversiva – rinnova la tradizione lirica medievale persiana scomponendo quasi cubisticamente il rapporto tra amante e amato, soggetto desiderante e soggetto desiderato, giovane imberbe, maschio barbuto e donna idealizzata e al contempo demonizzata. Si tratta di un rimescolamento tanto radicale dei generi e delle direzioni del desiderio che solo oggi, nell’epoca delle riflessioni sul non-binario, possiamo cominciare a comprenderne la portata.
Da un punto di vista personale, lavorare a questo progetto per me ha significato la possibilità di rendere grazie a tutte le iraniane e gli iraniani per l’affetto umano e intellettuale che questa cultura mi ha donato da quando, a vent’anni, decisi di renderla la mia matria adottiva.
TDD: Si avverte subito che la poesia di Forugh Farrokhzad è animata da un’urgenza espressiva potentissima; stupisce che si consumi tutta in una manciata di libri e in una decina d’anni appena. Pur entro un quadro così breve, si percepisce uno sviluppo molto marcato tra le prime raccolte e le ultime: scorre sotto gli occhi del lettore una trasformazione radicale rispetto alla forma della poesia. Cosa ha generato questa metamorfosi nella poesia di Forugh Farrokhzad? In che modo sei riuscito a rendere nella tua traduzione questo percorso formale?
DI: I titoli delle sue cinque raccolte esprimono con eloquenza il senso del suo percorso artistico: Prigioniera, Il muro, Ribellione, Una rinascita e la collezione postuma Crediamo pure all’inizio della stagione fredda. Se le prime due raccolte esprimevano una dialettica tra desiderio (desiderio di rinnovamento, emancipazione, desiderio di condurre al verso tensioni sessuali mai espresse prima) e trauma (elettroshock, pulsione di morte, impossibilità di diventare uno con l’oggetto di desiderio, separazione dal figlio), il viaggio in Italia e Germania, tra il 1956 e il 1957, le offrì la possibilità di rinascere “in un’altra terra” (dal titolo del suo diario di viaggio) come artista che riscopre il mandato internazionale della propria poesia anche tramite la pratica della traduzione (soprattutto dal tedesco). Poi, dopo il 1958, fu l’esperienza del cinema (come assistente di regia, produttrice, attrice e infine regista) a portarla a riflettere sul valore del rapporto tra sperimentazione linguistica e immagine in movimento. Inoltre, sebbene i tempi dello sviluppo poetico siano spesso slegati da dinamiche biografiche prestabilite, ho l’impressione che, una volta giunta sulla soglia dei trent’anni, Farrokhzad avesse cominciato a ripercorrere il senso del suo percorso di vita attraverso la percezione di un moto nostalgico non-lineare. Leggiamo infatti nelle sue ultime poesie, specialmente nel poema lungo Crediamo pure all’inizio della stagione fredda (dove sono presenti chiari riflessi Eliotiani, soprattutto l’Eliot dei Four Quartets) una riflessione autobiografica espansa, in cui la percezione del senso di una fine imminente si sovrappone alla disamina di momenti chiave dell’esperienza.
TDD: Nell’introduzione hai scritto di Forugh Farrokhzad come di un’artista totale. Hai appena ricordato la sua attività come regista (il suo primo e unico film “La casa è nera” è del 1963), ma al di là delle opere che ha realizzato, la sua stessa esistenza è stata percepita come uno scandalo, tanto che è difficilissimo separare la sua biografia dalla sua opera. A volte, sembra quasi che Farrokhzad abbia espresso la sua sessualità e il suo genere come una performance, affinché nella società dell’epoca innescasse un certo peculiare effetto. Quali sono i confini fra vita e arte nella sua opera? Come ti sei districato in questa ragnatela di fili intrecciati?
DI: È in questo senso che tendo a leggere il valore delle sue prime due raccolte, Prigioniera e Il muro, in cui Farrokhzad sembra concedersi a un gioco di specchi che mi fa pensare al paradosso espresso pochi decenni prima di lei da Fernando Pessoa: il poeta è un fingitore, finge così completamente che arriva a fingere che è dolore il dolore che davvero sente. In quanto poeta e intellettuale autodidatta, Farrokhzad non disponeva certo del bagaglio teorico modernista di Duchamp (o di Pessoa stesso). Allo stesso modo, quella che io chiamo “operazione” era forse anche il frutto di un fenomeno “emergente” (come il fenomeno della coscienza che, a detta di neurobiologi e filosofi della mente, “emerge” dal tessuto biologico del sistema nervoso umano, invece che esserne una funzione intrinseca) parzialmente slegato dalle intenzioni creative dell’autrice. Caso e necessità, quindi (e mi piacerebbe investigare a un certo punto le condizioni contestuali di questa “emergenza”), hanno portato Forugh Farrokhzad a concepire la sua prima produzione poetica come sipario del corpo e dell’esperienza.
La tradizione poetica in cui Farrokhzad si ritrovò a innestare la sua voce – non solo quella classica medievale (Rumi, Khayyam, Hafez, etc., per citare i suoi autori preferiti) ma anche quella modernista a lei coeva – rappresentava la donna come soggetto inesistente oppure oggetto desiderato, e mai veramente desiderante.
In mancanza di una lingua che le consentisse di esprimere la forma del desiderio dal punto di vista di un corpo femminile, Farrokhzad fece ricorso alla ricerca di esperienze erotiche socialmente inaccettabili (in quanto donna sposata e giovane madre nella Tehran degli anni ‘50) al fine di stimolare la creazione di immagini e possibilità espressive del sentire del tutto nuove nel panorama letterario persiano. [punto di riferimento in Italia: Pasolini. Perché nessuna poetessa in Italia si è avvicinata a questo limite?] Pertanto, Prigioniera e Il muro, piuttosto che semplice trascrizione biografistica di esperienze erotiche giovanili, sono in realtà il tracciato linguistico di una messa in scena costante del proprio corpo in quanto possibilità di articolazione del desiderio in forma semi-realistica e al contempo semi-fittizia. L’esperienza accade in queste liriche proprio perché sono messa in scena linguistica di desideri da un lato socialmente indecenti e dall’altro prima di allora irrealizzati nella tradizione poetica.
Riconoscere questo sconfinamento imperfetto tra vita e arte ci offre l’occasione di apprezzare la prima Farrokhzad al di là di una retorica semplicistica dell’intimismo pseudofemminista (che purtroppo è forse uno dei principali motivi di trazione di mercato quando la sua poesia comincia a circolare in traduzione) e rileggerla nel contesto di una ricerca di natura sperimentale e allineata fin da subito con la ricerca letteraria del Novecento europeo e americano.
TDD: Molto interessante questa tua prospettiva sulle prime opere di Farrokhzad. È curiosa poi questa tua ricerca di “paralleli imperfetti” nella cultura italiana e mi spinge a chiederti un’altra cosa. So che per tradurre è sempre necessario fare appello alle forze più nascoste della propria lingua; spesso per trovare soluzioni a problemi posti dalla poesia da cui si sta traducendo si va a caccia di forme dentro la propria tradizione, scoprendo inedite e sorprendenti alleanze. A quali autori o autrici italiane hai guardato per tradurre Forugh Farrokhzad? Cosa ti ha aiutato nella tradizione italiana e cosa invece ti ha ostacolato?
DI: Ho riconosciuto aspetti paralleli dello stile di Forugh Farrokhzad nella poesia di due poetesse italiane che sono accomunate da ben poco, se non la disperazione che le portò al suicidio: Antonia Pozzi (1912-1938) e Amelia Rosselli (1930 – 1996). Vedevo nella crepuscolarità rarefatta di Antonia Pozzi, spesso animata da grande vitalità che trascende il rapporto tra ricognizione del proprio corpo e osservazione del paesaggio, elementi affini al percorso di Farrokhzad. La scomposizione ritmica di Pozzi, sempre legata alla sua rielaborazione personalissima dei metri classici della poesia italiana (impegno formale che le valse l’apprezzamento di Eugenio Montale) mi ha aiutato a comprendere in altra forma l’attenzione formale di Farrokhzad alle permutazioni moderniste (e quasi mai in rottura totale con i canoni classici) della lirica persiana classica offerte dai poeti iraniani durante la prima metà del Novecento. Di Rosselli invece mi interessava la cerebralità artificiale delle sue soluzioni ipermetriche. Ho riconosciuto una ricerca simile nelle ultime due raccolte (specialmente nella sua produzione postuma) di Farrokhzad, in cui si trovano espansioni metriche che impongono alla voce una geometria ritmica capace di sfidare i confini del fiato.
Dopo avere riscontrato queste corrispondenze, ho riletto più volte per intero le opere complete di Pozzi e Rosselli, annotando soluzioni che avrei potuto trasferire al mio lavoro di traduzione. Ho cercato poi di dimenticare i miei appunti, al fine di lasciare che la voce di queste due poetesse “consonasse” con la forma dei versi di Farrokhzad in italiano in maniera imprevedibile, come essudato formale che perde traccia della propria origine.
Solo di recente ho cominciato a pensare a Pasolini, Cristina Campo e Giovanni Giudici come altre possibilità di triangolazione con la poesia di Farrokhzad.
TDD: Sei giunto a questo volume dopo un lungo percorso. Il tuo impegno nella poesia di Forugh Farrokhzad è più che decennale. Avevi già pubblicato un libro di traduzioni: La strage dei fiori (Le Ellissi- Orientexpress, 2008). Raccontami quando hai incontrato la sua poesia e soprattutto: chi è Forugh Farrokhzad adesso che l’hai tradotta completamente e chi sei tu? È cambiata la tua percezione del suo lavoro? E del tuo?
DI: Ho incontrato la poesia di Farrokhzad quasi per caso, quando studiavo la lingua persiana a ventitré anni, da autodidatta. Lavorare sull’opera completa di un autore offre al traduttore una fonte inesauribile di possibilità di scoperte presenti e future. Ti impone di cominciare un dialogo serio con la voce dei morti. Scoprire che la loro voce è ancora disposta a rispondere alle nostre domande, spesso in modi del tutto imprevedibili, è un mistero che esalta e sconforta. La poesia di Farrokhzad, poi, in quanto opera totale di una produzione poetica incompleta perché spezzata da morte prematura, ci spinge verso la ricerca del senso del Tutto. I frammenti della sua voce si orientano sempre in modo diverso a seconda di come li si guardi, soprattutto quando li si dispone nel contesto della loro totalità.
Pubblicare questo libro – come ti ho già fatto cenno in privato – ha sbloccato molte cose in me. Si sono aperte camere magmatiche che credevo sigillate da tempo. Ritrovo un desiderio rinnovato di scrittura, emerso dall’ispirazione controllata, spesso modestissima, che è propria del lavoro del tradurre.