Continua lo Speciale di pordenoneleggepoesia.it dedicato ai Vent’anni di Umana Gloria. Partito dall’evento tenutosi il 1 ottobre ai martedìpoesia con Francesco Brancati e Marta Celio (QUI), il primo articolo ha visto l’introduzione di Roberto Cescon e Tommaso Di Dio e a seguire Riccardo Socci con «Come dire questa fragilità che è guardarti»: appunti per un’analisi di A D. (QUI). Il secondo approfondimento invece è stato a cura di Cristiano Poletti dal titolo Mario Benedetti e la pittura (QUI). Il terzo è stato a cura di Gian Mario Villalta dal titolo Una poesia di Mario Benedetti, una lettura (QUI). Il quarto è stato a cura di Luigi Fasciana dal titolo La corsa, la fine. Su una poesia di Umana Gloria (QUI).
Abitare il mondo con il corpo
Note sulla poesia di Mario Benedetti
di Gabriela Fantato
Di fronte alla poesia di Mario Benedetti si resta spiazzati, scossi e persino turbati, non ci si trova infatti davanti a testi riconducibili a poetiche precise della tradizione; non sono versi connotati dal realismo, inteso come riproposizione mimetica della realtà quotidiana, né poesia neo-orfica, seppure diffusa negli anni ‘70 e inizio ’80, quando Mario iniziava a scrivere, ma neppure si coglie l’esperienza della Neo-Avanguardia, infine, non si tratta neanche di poesie strettamente intimistiche. Il dire di Benedetti, seppure con mutamenti ed evoluzioni nel corso degli anni, è di fedeltà all’esperienza, come è stato più volte notato, in testi scabri ed essenziali, per nulla psicologici e che, talvolta, paiono a un passo dalla prosa, anche in parte caratterizzati da balzi logici e sottrazioni; testi forse impervi, per chi ne cerca un’immediata comprensione. Sono poesie poco colloquiali eppure sempre implicanti l’altro, poiché la parola del poeta friulano è fortemente coinvolta nella vita, immersa nel mondo e toccata da ciò che accade. Ci sono anche testi in cui compaiono barlumi di gioia, in attimi in cui l’infanzia irrompe nel presente, un’infanzia intesa come condizione esistenziale che accomuna tutti, come si legge in questi versi del 2004, di Umana gloria, dove in un paesaggio industrializzato, quasi svuotato di senso e, nella grande attenzione ai dettagli, compare improvvisamente un’immagine: le «manine che avevamo» e questo elemento introduce una frattura, un balzo logico nella consapevolezza che è stato quello il vivere, ingenui e immersi nel flusso vitale, un vivere che era adesione al ritmo del tutto:
Come in un volo la corriera mi ha dato lo spiazzo con la facciata.
Era bello, i calzoni che cadevano larghi sulle scarpe grosse,
stare in mezzo alle foglie qua e là.
Macchine senza sapere di essere in un posto, dentro una vita
che sta sempre lì e ha la fabbrica di alluminio, i campi.
Si muove il bancone quando si parla,
le finestre con i vasi, le tende minutamente ricamate.
Fuori cortili corrono piano, le foglie vanno piano sotto le mucche.
Il cielo gira verso Cividale, gira la bella luce
sulle manine che avevamo, che è stata la vita essere vivi così.
Nell’adesione all’attimo vissuto che sempre compare nei versi, c’è però anche l’avvertimento di un altro piano che afferisce alle ombre, alla presenza dei morti, all’affiorare dal buio di scene del passato, come in questo finale: «Corro nell’acqua increspata, cosa c’è / in questa musica visi, fisarmoniche e il volere andare, / e dopo il pianto grande la voce così bella / sai, dice, vieni, sono tutta nel sogno e tu? / Io, le mie scarpe le risa le travi dove? / Sono qui i morti? Sono qui?», L’esperienza è per Benedetti intreccio di presente e passato, costruzione poliedrica che si dà a balzi e a frammenti ed è fondamentale, pur nella generale precarietà e fragilità che segna l’esistenza intera, dal piano esperienziale si trae il senso del vivere stesso. Certamente, la percezione dell’umana fragilità, così come di tutto l’esistente e persino degli oggetti, deriva anche dall’esperienza vissuta, dalla malattia che ha segnato il poeta fin dalla giovane età, ma ciò che conta è che il poeta la inserisce in una visione ampio respiro, dove si innesta ogni evento e ogni dettaglio esperito, così che ogni testo ci propone un orizzonte totale. Poesia dell’umano “esserci”, potremmo dire, testimonianza del nostro abitare la vita tra presenza e mancanza, tanto che ogni esistenza è in bilico, appunto, e a volte Benedetti intuisce che è il nulla che ci attende, ma solo raramente tale percezione approda a una sottile angoscia, sovente invece l’umano destino di sparizione viene accolto, persino invocato: «[…] Sai l’odore, / dove richiamata corri. Sempre. // Infinite mattine, infinite notti./ Va dolce il nulla,// il dolcissimo nulla.[…]» .
Nell’esperienza, ribadiamolo, si formula la parola del poeta friulano, un’esperienza che è relazione tra Io e mondo: nei versi c’è un Soggetto che si conosce solo entro tale relazione, senza connotazioni psicologiche, e anche la conoscenza che si ha della realtà nasce nella relazione, infatti, i versi di Mario Benedetti danno credito ai fenomeni esperiti, come si diceva, testimoniando la centralità del percepito e ponendolo a fondamento dell’esperienza individuale. Nella centralità della relazione Io e mondo si supera il dualismo corpo/ mente; ragione/esperienza ed anche interiorità e mondo esterno, rimettendo così in discussione un fondamento del processo conoscitivo che caratterizza l’Occidente. Il discorso poetico, già a partire da Platone come si sa, è stato visto dalla filosofia come inganno soggettivo, come voce dell’apparenza, qualcosa di illusorio o troppo personale per avvicinarci al vero, ma l’importante non è contrapporre una “verità della poesia” a una verità degli ambiti logico razionali, come la scienza, per esempio. Non si può negare il rapporto che la poesia ha con la dimensione esperienziale e, anzi, la poesia di Benedetti proprio partendo dall’esperienza mostra nuove prospettive conoscitive, a mio avviso, svelando così una possibile vicinanza tra poesia e filosofia, proprio come accade nel pensiero “obliquo” di un filosofo come Merleau-Ponty. Nell’impostazione del filosofo francese, infatti, la percezione è fondamento del nostro conoscere il reale e noi stessi, poiché nella percezione si attua la relazione chiasmatica tra Soggetto e mondo: il rapporto del Soggetto con la realtà è sempre un “doppio movimento”, un chiasmo. Proprio “nell’apertura” dell’Io al mondo si colloca l’esperienza, da cui scaturisce la nostra conoscenza di noi stessi e del reale, una conoscenza mai assoluta, ma simile a un mosaico che si crea via via che procede l’esperienza. Abitare il mondo è relazione in divenire, così come la nostra conoscenza del mondo è sempre una costruzione esperienziale.
In questa prospettiva fenomenologica di Merleau-Ponty, a mio avviso, si colloca anche la portata innovativa del dire di Benedetti che colloca l’Io nel mondo e sempre dà credito alla percezione, tanto che l’esperienza si dà parziale, ma mai illusoria nei suoi versi; precaria, mai fallace, il che lo allontana da una posizione nichilista di certo Esistenzialismo. Inoltre, va sottolineato che per il poeta friulano l’esperienza è sempre un rapporto concreto-carnale con il mondo, da cui sorge la consapevolezza di sé – per questo nei versi del poeta friulano non ci sono connotazioni psicologiche – e si ha conoscenza della realtà nella relazione dinamica con il mondo, per questo nei versi non c’è alcuna concezione mimetica. Anche per il filosofo francese l’esperienza si delinea proprio nel rapporto carnale tra Soggetto e mondo, così come emerge nei versi di Benedetti, ed è nella relazione con il mondo che si costruisce “la verità” a cui la poesia dà voce e su cui si interroga la filosofia. Vediamo un testo dove l’insipienza e la parzialità dell’esperienza emergono chiari, così come il procedere “a tastoni”, ma si afferma anche la consapevolezza che il mondo “fuori” è materia, e noi stessi siamo materia: un corpo in relazione con il corpo del mondo, potremmo dire parafrasando Merleau-Ponty, seppure talvolta l’inconsapevolezza, nota il poeta, ci rende simili a un «sonnambulo» :
Presto, ogni mattina.
Metti il sonnambolo, sulla maglia.
Quello. Per lo sguardo
di tutti. Ma non sappiamo.
Metà, hanno raccontato.
E l’incanto, il chiarore.
Quanto posto da dire, da pensare
a tastoni. A stento. Nulla
esausto. Fuori materia.
Cosciente materia. Metà estasi.
Tutta la poesia di Benedetti dà voce e parola al corpo nel mondo, e la centralità del corpo viene ribadita in moltissimi testi. C’è un corpo nominato anche nelle sue parti, tra cui le mani, origine dell’ esperienza concreta, mani che tanto ritornano nei versi, sin dai testi degli anni ’70: «[…] C’è il grembiule sporco delle piastrelle e ruvido, che uno si guarda / o come una pittura, con del marrone e una mano che lo tocca.», ma anche gli occhi sono molto presenti, occhi fonte di consapevolezza di sé e di conoscenza del mondo: «[…] Abbiamo imparato nelle nostre case il modo di mangiare i tetti quei tetti mi dicevano che io ero ai miei occhi e non altri. […]», poi sempre nello stesso testo, alcuni versi oltre, leggiamo: «Servirebbe guardare da lontano pensare che si guarda.». Ancora, possiamo leggere un testo da Pitture nere su carta: «I corpi vestiti. Pianura. / boschine. L’industriale terra. // E il parco, a nascondimenti. / Il viso, sì. // I muscoli delle spalle. / Io. Uno. Tu. / È presenza. / Ricordo. Dormi , sognante // primavera estate e autunno, / da questi lunghi secoli.». Come ultimo esempio, ma moltissimi altri ce ne sarebbero, il testo mummia, nel quale il corpo viene presentato nelle singole parti, nel suo essere cellule e porosità, con uno sguardo preciso e quasi da anatomopatologo: «Nella teca, il disseccamento naturale. / Un vento e l’asciuttezza, il congelamento. // Raggrinzito viso, rinsecchito. Cartonata pelle. // Testa dell’omero. Buchi, celle di porosità. / Carpo, ulna, radio. Fratture. Cartonata pelle. // Abrasioni, usura, carie, nelle corone. / Sullo smalto dei denti, nel cristallo dei denti.». La centralità del corpo, ribadita in moltissimi testi di Benedetti come si è detto, si fonda nel rapporto carnale dell’Io con il mondo e l’esperienza è proprio una relazione dinamica, dove interiorità e mondo esterno si intrecciano, si modificano; dove corpo e mente si “contaminano”, potremmo dire, come scriveva il filosofo Merleau-Ponty.
Entrambi gli autori, pur in ambiti così diversi di ricerca, a mio avviso, mettono in discussione nel loro operare l’approccio consueto sia del dire poetico che del procedere filosofico: il dualismo, infatti, segna l’impostazione della cultura occidentale; entrambi, pur affermando la parzialità del nostro conoscere e la fragilità del nostro essere al mondo, superano il nichilismo tanto diffuso, indicando una via obliqua che potremmo iniziare a seguire.
1 G. Bataille, Manet, Abscondita, Milano, 2013, pp. 38-41.
2 M. Benedetti, Maurizio Chiaruttini a colloquio con Mario Benedetti, in «Nuovi Argomenti», 5, settembre-dicembre 2020, p. 105.
3 A. Afribo, Poesia contemporanea dal 1980 a oggi: storia linguistica italiana, Carocci, Roma, 2007, p. 206.</span
4 M. Benedetti, Materiali di un’identità, Transeuropa, Massa, 2010, p. 26.
5 Ivi, p. 27.