Dialogo con José Maria Brialdi (Esordi 2024)

Maria José Brialdi è nata a Genova 25 anni fa, ma il suo nome viene dall’Ecuador, paese d’origine di sua madre. Laureata in Beni Culturali e iscritta alla magistrale di Storia e critica dell’arte, è stata una dei tre Esordi 2024 con la raccolta Sacro Bosco Dolce, una serie di poesie visionarie caratterizzate da un immaginario originale in bilico tra l’infanzia e il sogno. Quello che questi testi propongono è un viaggio attraverso una selva metaforica, non propriamente dantesca, ma popolata da creature misteriose, segni di un mondo magico accanto al nostro: un cavallo bianco, leprotti, topi, serpi, pecore – presentati inizialmente non solo a parole ma tramite un intarsio di miniature medievali rielaborate graficamente dall’autrice. Si può dunque parlare in qualche modo di iconotesto, che richiama sia gli antichi brani miniati che i libri illustrati dell’infanzia. Gli animali sono in questo mondo di Brialdi con regole loro proprie, che sembrano precluse all’umano, il quale sogna il bosco come un luogo mitologico, ma presto si rende conto di non farne del tutto parte, di essere in qualche modo sempre estraneo. La similitudine potrebbe essere in parte con il poeta, ma si allarga facilmente a chiunque non di senta ‘propriamente di casa / nel mondo interpretato’ come scriveva Rilke.

Per giungere alla raccolta presentata nell’ebook (insieme alle sillogi di Andrea Barone e Alessia Giordano, scaricabile QUI), è stato operato un lavoro di asciugatura e scrematura del verso, inizialmente a tratti poco governato: questa operazione, di concerto con uno dei giurati del Premio Esordi, è una delle caratteristiche forse più pregnanti del premio stesso, in cui il lavoro sulla poesia si presenta come un’opera dialogica, di lettura condivisa e riscrittura. 

 
 

Azzurra D’AgostinoCos’è per te un Bosco sacro?

Maria José Brialdi – Bosco sacro è casa mia ed è un luogo che non potrò mai abitare. Riflette il senso di appartenenza e alienazione, la sensazione di avere delle radici, di sentirsele crescere sotto ai piedi, e al contempo il timore che non siano davvero mie, di essere un parassita anziché un albero. Il viaggio descritto in questa raccolta è una storia d’amore: si entra nel bosco con freschezza, leggerezza, emozione e fiducia, per cercare un luogo dove vivere e crescere insieme a un’altra persona, o forse insieme a sé stessi. Il bosco ricambia lo slancio iniziale: accoglie, nutre, promette, inebria e si mostra pieno di vita, come un innamorato al principio di una relazione, ma le paure emergono in fretta. Appena si mette in discussione la propria appartenenza al bosco e al reame dei suoi abitanti non sentendosi degni di dello splendore e dell’abbondanza, ci si perde. Questo momento di svolta drammatica e disillusa è raccontato nella poesia sul cavallo bianco, ambientata in una radura idealmente al centro del bosco. Il cavallo bianco, in tutta la sua nobiltà e purezza, non viene accettato nel regno dei cieli alla sua morte e non ha altra scelta se non continuare a vivere e morire ancora, sperando. Io penso che questa sia la tragedia umana: appartenere alla natura, non poter sfuggire alle sue leggi e allo stesso tempo sentirsi altro da essa. Da una declinazione megalomane di questo sentirsi “altro” derivano tutte le difficoltà della condizione reale dell’uomo contemporaneo, che desidera controllare e manipolare la natura, soggiogarla, in una deformazione spirituale che porta anche ad alienarsi dal resto della società umana e degenera in un individualismo ottuso per cui il singolo si pensa migliore degli altri. Quando questo terribile e triste errore di valutazione si esaurisce in un fallimento, però, e sopraggiunge inevitabilmente la morte uguale per tutti, cosa rimane?

In bosco sacro questa auto-alienazione non si risolve in un sentirsi superiore, ma inadeguati alla natura, rifiutati dalla sua bellezza e dalla comunione con gli altri esseri, umani e animali, e inadatti all’amore. Il bosco non è mai crudele con me, ma se io non lo riconosco più come luogo ameno e familiare cerco rifugio da esso, mi sento smarrita, voglio lasciarlo. Come quando mi innamoro della persona sbagliata e poi mi accorgo che la sua versione ideale e quella reale non coincidono, che ho fantasticato troppo e rimango amareggiata e sola. 

La conclusione del viaggio non ha una connotazione precisamente positiva o negativa. Un cane da pastore mi trova e mi riporta a casa, alla tranquillità della routine, del lavoro, della vita strutturata della città, una profana giungla di cemento, e alla sicurezza della solitudine. Certamente bosco sacro è un luogo meraviglioso, di introspezione, gioia e grandi rivelazioni, ma anche di disperazione e fatica. Rappresenta il vigore feroce e incontenibile della spensieratezza che si prova da bambini e il dolore della consapevolezza di non poter più tornare all’infanzia; la bellezza della fede religiosa e la sofferenza del dubbio riguardo all’esistenza, o alla bontà, di Dio; il mio cuore e la mia anima e la difficoltà di comprenderli ed esprimerli appieno. Ogni tanto mi fa bene perdermici, lo visito con entusiasmo se sono innamorata, ma non posso permettermi di viverci. 

 

A.DAQuali sono i referenti che senti tuoi per la costruzione del tuo immaginario (relazione con la fiaba? Relazione con poesia metaforica vedi Averno di Glück? Per ipotizzare due esempi)

M.J.B – Sicuramente sono molto legata alle fiabe e ai racconti per bambini. Due storie in particolare hanno segnato la mia infanzia e ritrovo in Sacro Bosco Dolce: riccioli d’oro e Alice nel paese delle meraviglie. Nella prima, la protagonista si perde in un bosco e si confronta con i suoi desideri, cercando nella casa di altri un luogo adatto a lei. Alla fine, nella sua semplicità, è una storia di crescita, di ricerca del familiare nell’estraneo, in cui ritrovo la dicotomia tra senso di inadeguatezza e appartenenza. Non mi stancavo mai di farmela raccontare da mia mamma, è un ricordo molto tenero. Carrol invece mi ha insegnato moltissimo riguardo alla saggezza dei bambini, all’importanza di sapersi meravigliare e abbracciare l’assurdo nel proprio percorso di crescita. Anche sul piano linguistico, di sperimentazione e legame con la filastrocca, mi sento influenzata da questo lavoro. 

Negli anni della pre-adolescenza ho vissuto un grande amore con Zanna Bianca di London, sicuramente il libro che ho letto più volte in vita mia. Ricordo di averlo scoperto intorno ai 10 o 11 anni, che avevo una piccola torcia e stavo sveglia la notte per leggerlo sotto le coperte, tirandolo fuori appena sentivo il respiro dei miei genitori farsi pesante nella loro stanza. Lo finivo e lo ricominciavo, era veramente un’ossessione. Ero catturata dal punto di vista animale sul mondo e sulla natura e penso che in ciò che scrivo emergano certe sfaccettature della complicata relazione con il selvaggio tipica dei romanzi di London. 

Anche i libri di Stefano Benni, con la loro irriverenza spensierata, hanno ricoperto un ruolo importante nella definizione del mio linguaggio, in particolare Margherita Dolcevita. Per quanto riguarda questo lavoro nello specifico, invece, tra le influenze non posso non citare l’ultimo romanzo di Otessa Moshfegh: Lapvona, ambientato in un villaggio medievale abitato da un circo magistralmente costruito di personaggi tra il sacro e il grottesco. 

Io vengo dalla narrativa, nei confronti della poesia ho sempre provato una sorta di timore reverenziale, non mi sentivo all’altezza di lei; solo nell’ultimo anno, dopo decenni di vagiti occasionali, si è imposta nella mia vita con prepotenza. Detto ciò, adesso mi sento molto vicina a Chandra Livia Candiani. Forse più per tematiche che per lo stile, per la forte delicatezza delle immagini, il legame con il mondo animale e quello dell’infanzia e il senso della meraviglia. Quando leggo le sue poesie penso: “da grande vorrei scrivere così”.

 

A.DACome hai lavorato per definire la silloge per esordi, hai fatto editing – c’è qualcosa in questa pratica che ti ha dato strumenti nuovi?

M.J.B – Per sistemare la raccolta ho lavorato con Azzurra D’Agostino, a cui sono molto grata per aver scelto di credere in Sacro bosco dolce e avermi affiancato in ogni passo di questo bellissimo viaggio. Le mie difficoltà nella scrittura sono le stesse da sempre e sono emerse anche questa volta, ma grazie a un punto di vista esterno di cui ho sentito subito di potermi fidare sono riuscita a correggere il tiro velocemente. Sono soddisfatta della versione “aggiustata” delle poesie, era un lavoro che sicuramente andava fatto, anche perché io faccio parte di quella categoria di persone per cui nulla è mai davvero concluso e soddisfacente e sottopongo ogni cosa che scrivo a revisioni e trasformazioni continue. 

Questa volta, però, aver avuto qualcuno con cui confrontarmi mi rende molto più sicura e tranquilla riguardo al risultato finale.

 
 

Foto di copertina di Chiara Glionna