Dialogo con Paolo Febbraro – da Martedìpoesia

Un’intervista di Maria Luisa Calabretto a Paolo Febbraro, ospite dei martedìpoesia di Pordenonelegge il 5 novembre 2024 (incontro curato dalla PordenonePoesia Community).

 
 

Maria Luisa Calabretto: I martedìpoesia, incontri promossi da Fondazione Pordenonelegge e curati da Roberto Cescon con Alessandro Canzian di Samuele Editore, sono appuntamenti irrinunciabili per chi è interessato alla poesia. L’incontro del 5 novembre 2024 è stato organizzato dalla PordenonePoesiaCommunity, associazione pordenonese di persone appassionate. Il titolo proposto: “Il poeta interrogato”, richiama la formula che la Community adotta da sempre con i poeti importanti che invita per un incontro pubblico, evento preceduto da un laboratorio privato con il poeta, un lavoro di analisi e critica sui testi dei poeti membri della Community. L’ospite del 5 novembre 2024, arrivato direttamente da Roma, è Paolo Febbraro, uno dei poeti più conosciuti e stimati del panorama contemporaneo, inoltre saggista, critico militante, traduttore e insegnante.

Paolo, la domanda, anche scontata, retorica, quasi banale, che spesso si fa a un poeta: cos’è la poesia? In un’intervista di alcuni anni fa ti ho sentito affermare che la poesia non è una forma di espressione, è un’arte.

Paolo Febbraro: Sì, nella poesia confluiscono istinto e sapienza. Bisogna aver osservato molto, pensato, sentito… ma poi tutto questo deve concentrarsi in un momento fortunato, in una coincidenza distratta. A un tratto, ciò che ci sembrava fluire disordinatamente si ordina in una sequenza di parole, gravita e si deposita in un bell’organismo verbale, in cui stranamente ci riconosciamo.

 

M.L.C.: Lo scorso anno sei stato qui per Pordenonelegge a parlare di un grande poeta irlandese, Seamus Heaney, Premio Nobel 1995, che tu hai conosciuto e di cui sei diventato amico. Hai scritto su di lui un testo bellissimo, Leggere Seamus Heaney, del 2015 , poi un articolo nella rivista “Laboratori critici”1 del 2023 e altro. È importante l’amicizia, in assoluto, e l’amicizia tra poeti in particolare, vero? Ci parli un po’ di questa amicizia?
Tu hai condiretto una collana di poesia italiana tradotta in lingua spagnola per l’Asociacion Zibaldone di Valencia. Quale contributo può dare al fare poesia l’esperienza collettiva?

P.F.: L’amicizia rischiara la mia vita, quasi come l’amore per mia moglie. Quando scrivo qualcosa che spero valga la pena di leggere, penso ai miei amici poeti, o a coloro che amano e sentono la poesia. È fondamentale, imprescindibile. È come se in qualche stadio della creazione tutti loro entrassero a far parte del processo, se lo risalissero fin quasi alla fonte, co-determinandone l’esito. Nessuno scrive da solo, e quando si tiene un libro nel cassetto è per farlo leggere al sé stesso di un altro tempo.
Seamus Heaney, nei brevi anni in cui ho potuto incontrarlo, è stato un amico imprevisto. Ho dovuto imparare quel po’ di inglese che so per parlare con lui, per godermi la sua simpatia, la sua intelligenza sorniona e la sua disponibilità all’incontro. Ancora oggi, non so cosa abbia visto in me, e questo mi fa piacere, perché evidentemente dev’esserci qualcosa di buono! Questa bella incertezza vale d’altronde anche per gli altri amici. Con Seamus eravamo molto diversi, per lingua, fama, età. Però avevamo entrambi la sensazione di fare il nostro lavoro con piena serietà, con impegno strenuo e felice. Traducendolo, ho scritto delle gran belle poesie, e gli sono grato anche per questo.

 

M.L.C.: Nel tuo testo poetico molto particolare e interessante, Il Diario di Kaspar Hauser, premiato e tradotto in diverse lingue, scrivi: «la vicenda di Kaspar Hauser suggerisce che la poesia è allo stesso tempo una lingua naturale e un caso psichiatrico; che nel mondo essa soccombe, ma che nel proprio per questo essa ci induce al suo salvataggio». Puoi parlarci di questa tua opera e chiarire questo punto particolare? La poesia è materia di parola, è clinica, perché interroga le grandi questioni dell’uomo e la materia di parola è “psicotica”, cioè non incasellabile. Anche Seamus Heaney scriveva: «la poesia scaturisce da una doppia tensione: conscia e inconscia…. due sono le modalità della conoscenza: illetterata inconscia e letterata conscia e l’intento del poeta è trovare un guado fra le due».
Una delle poesie che mi ha più colpito, il primo verso in particolare, è a pagina 30. È brevissima, dice:«Ascoltare con gli occhi…». Questo è molto interessante, gli occhi consentono ascolto, ακούω, al di là della visione si ascolta quello che si vede, l’immagine va ascoltata. È molto bello e preciso questo.

P.F.: Molte delle mie poesie sono fra virgolette, e questo avviene perché spesso cerco di captare ciò che dei personaggi storici o del mito dicono alla mia mente di oggi. Li faccio esprimere nel teatro della poesia, do loro questa possibilità, o potenza, o latenza. Con Kaspar Hauser ho fatto lo stesso, però più a lungo e con più attesa. Com’è avvenuto? Forse in lui ho ritrovato la mia stessa infanzia, quella sorta di saggia fragilità che mi è toccato vivere da piccolo. In Kaspar ho trovato anche la via per dire la mia diffidenza per gli automatismi percettivi e le verità indiscusse; quella che in una poesia ho chiamato «selvaggia mitezza». Si tratta di una devianza psicologica o di una forma di salvezza da ciò che quasi tutti accettano a priori? Questo è il vero tema. Quanto all’«ascoltare con gli occhi», è un modo per dire la sinestesia in cui siamo immersi vivendo. Quando leggiamo sentiamo suoni che non stiamo percependo, alluciniamo una musica che stiamo eseguendo su spartito altrui.

 

M.L.C.: Tu affermi che una poesia non è interessante se esplicitamente sentimentale, se gira unicamente intorno al proprio io di chi la scrive. Puoi parlarci di come viene trasposto simbolicamente il dato personale in poesia?

P.F.: È bene oscillare di continuo fra due consapevolezze: i sentimenti umani sono sempre gli stessi da millenni, e ognuno di noi li declina in modi inediti. Solo così si può avere il coraggio di scrivere una poesia, o di fare letteratura in generale. Ogni lingua, ogni immagine è un patrimonio condiviso che si attiva, però, solo nell’atto individuale, collocato nello spazio-tempo. Dobbiamo restituire quella flessuosa comunità e insieme il taglio individuale che la rende viva.

 

M.L.C.: Sei poeta e critico, hai fatto addirittura il critico di te stesso. Quali sono secondo te i parametri, i criteri, per dare un giudizio su un testo poetico?

P.F.: Poco fa parlavo di momenti fortunati, quelli della creazione. Ma non tutti i momenti sono fortunati nello stesso modo. Siamo difettosi e attraversati da tante esigenze. Tutti noi abbiamo bocca, gola e polmoni, ma solo alcuni sanno farne una canzone. E quei tutti, non sempre! Fare il critico significa esercitare l’intelligenza e il gusto nel valutare la congruità di una creazione, il suo spessore umano. Quando una poesia ci sorprende eppure ci conferma in qualcosa che abbiamo intuito, o che avremmo potuto intuire, allora è bella e rilevante per la nostra vita. Spesso, invece, troviamo nei testi poetici povertà di immaginazione, di sfida, di gioia conoscitiva. E se leggiamo quei testi poetici vuol dire che qualcuno li ha pubblicati. Ebbene, quel qualcuno non ha saputo riconoscere in essi i difetti che hanno, li ha proposti per superficialità, troppa fiducia in sé stesso o sfiducia nella poesia.
La mia poesia ideale sarebbe questa: un ampio divertimento capace di toccare molti dei nostri punti sensibili, con economia di risorse, senza sprechi, senza verbosi narcisismi.

 

M.L.C.: Ricordi e memoria… interessante quando annoti che la memoria è l’insieme di tutte le cose che abbiamo dimenticato e che “risorgono” quando trovano un piccolo aggancio, un amo.
Ecco, è proprio così, noi scriviamo con la dimenticanza, col sogno e la dimenticanza, cioè con la memoria, e così siamo autentici, incisivi, nel distacco, quindi senza sentimentalismo. Sei d’accordo?

P.F.: La memoria è una facoltà creativa, connettiva. I ricordi si assiepano, s’ispessiscono, precipitano l’uno sull’altro, creando un tessuto in cui i fatti originari (ammesso che esitano nella loro oggettività) si compongono, si tradiscono, assumono senso. Così funziona la nostra mente. Per questo non sono mai stato d’accordo con le teorie novecentesche secondo cui la poesia sarebbe “lo scarto dalla norma linguistica”. Non è uno scarto dalla norma, ma è la norma stessa. Noi umani componiamo il mondo così, con associazioni, oblii, risorgimenti. Abbiamo la logica della veglia e la logica del sogno, e siamo lì in mezzo a negoziare fra esse.

 

M.L.C.: In un recente articolo dal titolo Tutti poeti, nessun poeta (QUI) affronti il tema delicato e difficile della direzione che sta prendendo la poesia oggi, della presenza a volte autopropagandistica sui social e della possibilità di costruire poesie utilizzando la IA, della rottura del legame fra lingua e poesia. Vuoi dirci qualcosa in merito a tutto questo?

P.F.: Non credo in un progresso lineare e indefinito. Se si guadagna qualcosa si perde qualcos’altro. In più, non credo che sia necessario fare tutto ciò che è possibile fare. Sottrarre al lavoro il cosiddetto “tempo libero”, ad esempio, è stato un progresso, ma ha consegnato ore e ore della nostra giornata ai venditori di intrattenimento. È come se fossimo così spaventati dal passare del tempo da doverlo disperdere, o venderlo agli astuti spacciatori di apparenze. Ora la nuova frontiera è l’Intelligenza Artificiale. Ma di nuove frontiere ne abbiamo viste parecchie. La penultima è stata l’informatica, che aveva promesso di facilitare le nostre vite, di farci risparmiare tempo e fatica. Senonché, l’informatica è solo un altro linguaggio da imparare, e che una volta imparato modifica la nostra capacità di usare i precedenti: linguaggi più sfumati, più ricchi, meno conseguenti, persino perdenti. Peccato: l’uomo europeo e nordamericano (insomma, l’uomo occidentale) ha un grande amore per le novità, si aliena volentieri in esse. Aveva ragione Nietzsche, dopo la morte di Dio l’essere umano ha tutte le responsabilità, ma non le sopporta. La delega in bianco che stiamo firmando all’Intelligenza Artificiale è l’ennesimo episodio di questa dismissione, e potrebbe essere l’ultimo. L’IA può anche riuscire a scrivere una poesia, ma ci riesce risolvendo un problema computazionale. A me non interessa leggerla, perché lì dentro non c’è nessuno.

In generale, metterei l’accento su questo: l’Italia del XXI secolo è una nazione morente, dal punto di vista demografico e culturale. Gli Italiani fanno pochissimi figli, entro qualche decennio diventeranno la metà di oggi e avranno accanto milioni di immigrati non italiani. Forse come “Stato” la Repubblica italiana resisterà, ma come nazione è molto difficile. È arduo fin d’ora trovare un quarantenne che sappia comprendere Boccaccio, men che meno Dante o Montale. E pensiamo a fra trent’anni, quando la tecnica e lo spopolamento avranno drenato ulteriormente gli antichi fondali delle nostre tradizioni. Molti nuovi residenti in Italia non avranno idea di cosa sia un sonetto o una pieve romanica, mentre sapranno tutto di come si fa una pizza capricciosa o si fa andare una Maserati. Questo a me appare molto triste, e chissà, forse non lo è: forse è un problema mio e di altre diecimila persone. Da poeta italiano sessantenne so benissimo che oggi, all’interno dei confini del “mio” Stato, la mia importanza è pari a un centesimo di quella attribuita a una qualunque narratrice americana che ha la metà dei miei anni. E fra poco le case editrici si doteranno di programmi informatici “intelligenti” per selezionare le proposte degli autori. Quindi la scelta sarà fra delle opere accuratamente algoritmiche e dei classici sempre più illeggibili, oppure riscritti, epurati. All’università, un corso di Letteratura italiana sarà indistinguibile da uno di Archeologia. Un sonetto stilnovistico sarà letto come un episodio dell’ideologia patriarcale. Tutto avverrà lentamente, come uno scivolamento “naturale” verso il progresso. Acquisteremo molto, e perderemo molto, come sempre.

 

M.L.C.: Tu insisti molto sull’ossimoro (dal greco ὀξύμωρον, ὀξύς: acuto e μωρός, ottuso), la figura del due. Anche questo è molto interessante, perché è lo spalancamento oltre la linea unitaria, oltre il binario. Per esempio in una poesia dici: «castissimo e in una parola / impuro», in un’altra: «fuggono in cielo, dal cielo spaventati» e poi parli di «concentrazione distratta» e d’altro ancora. In Leggere Seamus Heaney scrivi: «la potenza poetica è tale se rigata da ineliminabili, mortificanti, vivificanti attriti». Trovo molto belle queste figure e bello che tu le inserisca.

P.F.: Ogni cosa è rigata dal proprio contrario, a partire dalla nostra nascita, che è vita e perdita. Ogni accadimento è insidiato dalla possibilità del suo deragliamento in qualcos’altro. Ogni sentimento è ambivalente: pensiamo alla maternità/paternità, che è moltiplicazione e servitù. La retorica non èun repertorio di “mossette” o di “pose” eleganti, seducenti. È un elenco di stati della mente. Probabilmente, ho una mente incline al riconoscimento dell’ossimoro, della compresenza. Quando leggo l’Inferno di Dante, fra pietà e condanna, fra implacabile giustizia e complicità piacevole, mi rendo conto di provenire da quello stesso indecidibile mare.