Vent’anni di Umana gloria /3

Continua lo Speciale di pordenoneleggepoesia.it dedicato ai Vent’anni di Umana Gloria. Partito dall’evento tenutosi il 1 ottobre ai martedìpoesia con Francesco Brancati e Marta Celio (QUI), il primo articolo ha visto l’introduzione di Roberto Cescon e Tommaso Di Dio e a seguire Riccardo Socci con «Come dire questa fragilità che è guardarti»: appunti per un’analisi di A D. (QUI). Il secondo approfondimento invece è stato a cura di Cristiano Poletti dal titolo Mario Benedetti e la pittura.

Per l’occasione la redazione del sito Pordenoneleggepoesia (Roberto Cescon, Alessandro Canzian, Matteo Bianchi, Azzurra D’Agostino, Tommaso Di Dio, Franca Mancinelli, Massimo Gezzi, Carlo Selan, Andrea Cozzarini) annuncia la sospensione natalizia delle pubblicazioni augurando a tutti i nostri lettori buone feste.

Riprenderemo con la consueta programmazione l’8 gennaio.

 
 

Una poesia di Mario Bendetti, una lettura1

Gian Mario Villalta

 

Log, Ambleteuse
 
Un bianco dove non si mette niente,
di notte
si vede una pagina di Nerval,
il sangue di Esenin, una baita, la strada nuda di una frontiera,
un bungalow sulla costa.
 
Non è mai tornare se diventa che mi vedi leggero.
La mano attraverso le case è dirti “guarda”
e già ti sporgi sul mare.
E la primavera gira gli occhi nella primavera
se ti dico “guarda quante eriche”.
 
Difendimi, difendi questa notte bianca,
il giorno ripetuto nel pensiero.
Log, Ambleteuse,
colpi dei piedi sulla strada, facce piene di vento scuro,
i nostri visi nelle mani,
il vento negli occhi chiusi per pensarlo.
 
E un albero di fiori
sale sullo slargo con la marea
perché la mano è così, amore,
lei va alta fra i tuoi capelli.

 

Leggere una poesia, questa poesia, lasciarsi catturare da una fascinazione. Poi leggere ancora e rileggere. Per anni. Cercare di mettere insieme quello che si sa, per dare un senso alle parole e alle immagini. E poi tornare sui versi, sul ritmo e sui suoni, tornare con un significato, in cerca di significato, di un senso che va oltre il significato. Quello che si perde, che appare e subito si disfa, qualcosa che resta troppo, non mai abbastanza. La materia che prende corpo. Il corpo che si disperde, diventa immagine, fuori di sé, lascia qualcosa di sé altrove. Occhi, visi, mani. Un enigma in una luce più forte. Occhi che guardano, occhi che vedono, occhi ai quali si ordina di guardare. Una poesia dove ritornare, negli anni, che li svuota e di nuovo ne fa materia pesante, materiali incrostati di aggettivi, parole erratiche, detriti di pensieri, realtà che fluttua tra un qui inafferrabile e un inafferrabile altrove.

Il titolo di questa poesia di Mario Benedetti (composto sulla pagina quasi “in epigrafe”) cosa dice al lettore? E’ così facile capire che sono due nomi di paese? Perché due luoghi così distanti stanno vicini, separati solo da una virgola, come se si trattasse quasi di uno stesso posto dove ci sono “i colpi dei piedi sulla strada, facce piene di vento scuro…)? E Nerval che cosa ci fa vicino a Esenin? Già nei primi versi “bianco” e “pagina” si chiamano a distanza, ma in mezzo ci sta la “notte”, isolata in un verso brevissimo: nel nero della notte, quando viene notte, in quel bianco che non sopporta altro, ecco una pagina di Nerval, il sangue di Esenin, una baita e la strada sulla frontiera, il bungalow lungo la costa.

Iniziamo dal titolo, dai nomi dei luoghi. In Una terra che non sembra vera (Campanotto 1997), questa poesia portava un altro titolo: Marzo. Sono solo 21 le poesie di quel volumetto, ma è da lì che è iniziata davvero la vicenda che porta a Umana gloria, il libro che fa di Mario Benedetti il poeta che conosciamo. La sezione Altri luoghi, che in Umana Gloria relega la Francia e la Slovenia in una dimensione quasi turistica, contraddice la presenza di quelle stesse poesie nei tre libri precedenti di Benedetti, dove questi luoghi altri sono un qui e un altrove detti in una tensione/torsione che unisce e divide il provenire e il tornare, in un’unica condizione di coscienza che si interroga, in una dimensione di perdita e di riconoscimento.

Ambleteuse è un villaggio al nord della Francia, nell’area del Pas de Calais, uno di quei posti che si possono definire “pittoreschi” dove le vecchie case del centro e il torrione esterno chiedono di ricordare un passato frugale e guerriero. E c’è il mare, quel mare di profondi assedi e ritirate: le lunghe maree che non riescono a diventare monotone, soprattutto se ci si ferma per pochi giorni. E poi c’è quello spiaggione, durante la bassa marea, che resta marrone, umido tutto il giorno, lo “slargo con la marea”. Benedetti amava quella Francia a nord, sul mare, sul canale della Manica e sull’Atlantico: il Pas de Calais, la Normandia, soprattutto, e la Bretagna. Luoghi dove la vita è stata aspra come la natura, e la natura ha conteso alla vita umana i giorni e la storia, come s’impara dalle immagini dell’arazzo del Bayeux, dai calvaire nelle piazze dei paesi, dagli scoscendimenti di roccia e dai bastioni di pietra. Celebrava spesso quei posti, Bendetti, li trovava veri.

La località di Log è invece in Slovenia. Ce ne sono due, e appartengono entrambe all’area del Parco del Triglav. Qui non si tratta del Log situato a nord del Parco, ma di Log Pod Mangartom, ai piedi del monte Mangart, sulla strada da Bovec al Passo del Predil. Da Nimis, che è per Benedetti il paese di tormentata appartenenza, legame originario rifiutato e ritrovato, è a una sessantina di chilometri oltre frontiera (con la strada più comoda). Il Parco del Triglav è il titolo di un libro di Benedetti uscito per Stampa 2009 nel 1999. L’anno successivo Borgo con locanda, pubblicato — con mio breve prefazio — nella Biblioteca di Babele del Comune di Meduno (PN), completava il trittico iniziato nel 1997 con Una terra che non sembra vera. Questi tre caposaldi — che formano la solida materia connettiva di Umana gloria (Mondadori 2004) da dove proviene la poesia in questione — staccavano progressivamente dalla poesia precedente di Mario per l’emergere dei luoghi, con i nomi, la presenza materiale, detritica, della natura e del lavoro umano, l’evanescenza della vita attaccata all’istante con le cose che la circondano, che resta con le cose dimenticata, per balenare in una luce tagliente, a volte, a volte soffusa. Di più, c’è il prendere corpo di una geografia che contrappone Nimis e Milano (dove Mario viveva e lavorava): il luogo remoto dell’infanzia/adolescenza in un rapporto di polarità con la città che più di altre è esempio ultramoderno della vita attuale. Frugalità estrema, distanza dalla storia, vite raccolte nel ritmo dei paesi: certi luoghi della Slovenia nell’area del Triglav evocano per Benedetti la Nimis di decenni prima (che al presente è diventata una delle tante periferie industrializzate dell’Europa ricca).

Ecco qui il chiasmo: Milano sta a Nimis come Ambleteuse sta a Log. La vita quotidiana di oggi sta alla rievocazione dell’infanzia /adolescenza che non è solo un altro tempo, ma un altro “mondo”; l’altrove straniante di Ambleteuse (lingua, storia, il mito della letteratura francese) sta al vicino, muto, frugale, villaggio sloveno di Log. La poesia ha portato Benedetti a Milano e in Francia, come la poesia lo ha nutrito e portato via da Nimis, dal confine della Slovenia: in apertura di Una terra che non sembra vera la voce poetica si identifica, anche per ragioni famigliari, con quel mondo: “E stevin ben, i furlans, e nus disevin sclas, e nus mandavin vie” (Stavano bene i friulani, ci chiamavano slavi, ci mandavano via). Sclas, slavi, dove risuona l’eco etimologica: schiavi.
Ecco Log e “una baita, la strada nuda di una frontiera”. Ecco Ambleteuse, “un bungalow sulla costa”.
Restano da menzionare i poeti.

Ancora un chiasmo: una pagina di Nerval sta al sangue di Esenin, come una baita sulla strada nuda di una frontiera tra Slovenia e Italia stanno a un bungalow sulla costa francese. Così la prima strofa. Gèrard de Nerval (pseudonimo di Gèrard Labrunie) muore suicida a quarantasette anni nel 1855, dopo il degrado della malattia mentale e della povertà. E’ un poeta importante in Francia, mentre in Italia, pure se proposto nella traduzione di Diana Grange Fiori da Einaudi (casa editrice e traduttrice che ci regalarono la magnifica Douve di Bonnefoy), non ha mai avuto particolare fortuna. Di Nerval Benedetti non scrive mai; a Esenin ha dedicato una poesia (Sopra una poesia di Esenin, in Il Parco del Triglav). Registrare che muoiono entrambi suicidi aggiunge qualcosa di drammatico e decisivo. Nerval è il poeta romantico francese per eccellenza, perché capace di visioni, di spostarsi nel tempo e nello spazio della storia e delle geografie della letteratura per raccogliere suggestioni e immagini. D’altra parte, Sergej Esenin, è l’esempio di una poesia che attinge alla tradizione popolare. Il corpo di Esenin presentava dopo il suicidio graffi, tagli, lividi, segni di una lotta o forse di un tormento autopunitivo: c’è chi ha raccontato di una poesia scritta col sangue e lasciata la mattina del suicidio, il 27 dicembre 1925, a un amico passato a trovarlo. La pagina di Nerval: la notte, la visione, la chimera; il sangue di Esenin: autopunizione, inchiostro per la poesia.
Ora la prima strofa:

 

Un bianco dove non si mette niente,
di notte
si vede una pagina di Nerval,
il sangue di Esenin, una baita, la strada nuda di una frontiera,
un bungalow sulla costa.

 

Nerval : bungalow sulla costa ± Esenin : baita, strada nuda di frontiera. Un chiasmo, abbiamo detto (un doppio chiasmo, se pensiamo al sotteso Milano : Ambleteuse ± Nimis : Log). Però l’andamento dei versi funziona a intreccio, a spirale. Quella disposizione chiastica che potrebbe o dovrebbe presentarsi “in doppia linea” nei versi, qui si avvita verso il fine strofa, facendo slittare l’uno dentro l’altro la semantica delle parole e la successione delle immagini. Due endecasillabi di non banale accentazione sono staccati dal trisillabo “di notte”: da come lo leggiamo dipende l’intera strofa. Il primo verso si regge da solo, nella semantica delle parole e nell’interpretazione dell’immagine: nel bianco non si “mette” niente, perché niente si aggiunge, non occorre, non ci sta altro. E’ il bianco che diventa bianco assoluto, schermo vuoto, cielo nitido, perché accetta niente altro che il bianco. C’è una virgola, a fine verso, che tiene legato quel bianco a un tempo (di notte), nel quale “si vede” una pagina di Nerval (e tutto il resto… fino a “costa”). Nel bianco assoluto, nel vuoto del cielo e del tempo, di notte si vede una pagina di Nerval… e poi le immagini che succedono, dove l’ambiente “marino” dovrebbe venire subito dopo Nerval, e non alla fine della strofa (se il chiasmo fosse “in doppia linea” nei versi). Il primo verso chiede di rimanere sospeso, alla lettura, poi – una volta pronunciato “di notte” – si continua a leggere, sospesi appena gli a capo, fino alla fine della strofa, fino a esaurire lo slancio e il fiato.

 

Non è mai tornare se diventa che mi vedi leggero.
La mano attraverso le case è dirti “guarda”
e già ti sporgi sul mare.
E la primavera gira gli occhi nella primavera
se ti dico “guarda quante eriche”.

 

Ma “tornare” dove? Qual è il vero ritorno? Che cosa “diventa” un ritorno a Nimis, a Milano, in Francia o in Slovenia? Qual è il vero luogo della partenza? E poi: non che “(io) divento leggero”, ma che “(tu) mi vedi leggero”. C’è un vedere e c’è un guardare. Il vero tornare porta con sé qualcosa che deve essere visto da qualcuno (tu) come “non leggero”. Forse “non leggero” è diverso da semplicemente pesante, forse è qualcosa di più intimo, nei gesti, nello sguardo, qualcosa di grave, pieno di qualcos’altro. Poi il vedere si fa imperativo: “guarda”. Nell’invito a guardare c’è anche il voler invitare a seguire il proprio sguardo (con la mano che fa passare il gesto dell’indicare “attraverso le case”); “guarda”, cioè vedi quello che vedo io, guarda con i miei occhi. Ancora, con l’eventualità — sostenuta da quel “se” — di qualcosa che può ancora accadere, guardare le eriche (quante eriche!) con i miei occhi, fa girare (i miei e i tuoi) occhi nella stagione presente, che è primavera, così che usciamo da noi stessi, così è la primavera che gira gli occhi nel guardarsi ed essere vista insieme con “noi”, con il “mio” vedere, chiederti di vedere quello che vedo, unirti a me nel vedere e insieme entrare nello sguardo primaverile che percorre tutto intorno se stesso.

 

Difendimi, difendi questa notte bianca,
il giorno ripetuto nel pensiero.
Log, Ambleteuse,
colpi dei piedi sulla strada, facce piene di vento scuro,
i nostri visi nelle mani,
il vento negli occhi chiusi per pensarlo.

 

Due imperativi, di nuovo. Ecco ripreso il bianco della notte annunciato nel primo verso. “Il giorno ripetuto nel pensiero” è ancora un tornare. Difendere il bianco/notte, le immagini che legano il senso dei due luoghi e dei due poeti, è difendere il proprio esistere, che però viene chiesto a qualcuno, quel “tu” vicino in tutta la poesia. Dove siamo adesso? Dobbiamo difendere una condizione: dove il corpo e il pensiero si trovano in un luogo preciso e dove corpo e pensiero sono in quegli “altrove” che danno allo stesso corpo e allo stesso pensiero il senso della propria esistenza. “I visi nelle mani”, gli “occhi” chiusi mentre risuonano i passi nella strada, il vento notturno che forza le palpebre: Log, Ambleteuse, lo stesso corpo, io e tu, gli stessi, ma non sarebbe vivere qui se dimenticassi da dove viene il mio corpo, il suo tempo, i suoi affetti remoti e più profondi, se non avessi presente tutti gli altrove della memoria, che è corpo, tutte le parole perdute e quelle poche che miracolosamente invitano a unirci.

E un albero di fiori
sale sullo slargo con la marea
perché la mano è così, amore,
lei va alta fra i tuoi capelli.

È primavera. Un “albero di fiori” è diverso da un albero fiorito, anche dai fiori su un albero: s’inalberano, come vele, i fiori, ma anche come nell’altro senso di “inalberarsi”, svettano con orgoglio, si levano e salgono sulla spiaggia insieme alla marea. Un moto di affermazione della potenza della natura e di tutto ciò che è vita, accomunato nel gesto dell’indicare. Un gesto di unione (“fra” i tuoi capelli) che porta tutto insieme, in un moto ascensionale, in un movimento di potenza (amore, che altro?) ciò che si vede e ciò che si è. Un movimento che non compone un mondo ordinato, ma che solo per un momento (quasi la mano avesse una sua autonomia: “lei”) lega insieme l’effimera appartenenza all’istante. La mano “attraverso le case” della seconda strofa ritorna nella quarta “alta fra i tuoi capelli”, a evocare di nuovo l’unione del gesto, del vedere, del luogo, di chi parla con chi condivide con lui quell’istante.

Rileggerò ancora questa poesia. Non importa se ce l’ho quasi a memoria, sicuramente è nella memoria, par coeur, come dicono in francesi. Leggerò Ambleetees, Iesienin, bangalou, cercando la pronuncia che si dovrebbe. Torneranno a comporsi e a perdersi la semantica delle immagini e delle parole, con qualcosa di più intenso, qualcosa di più effimero ogni volta. Quello che nella mia voce, mentre leggo, risuonerà di nuovo, sarà nella continuità del verso-respiro che lega le frasi nelle strofe, dove il voler-dire dell’enunciazione (il corpo, il luogo, l’istante nella parola) è qualcosa che si affaccia incommensurabile all’enunciato. Parlare comporta che vi siano insieme un’enunciazione, un voler-dire che proviene da un corpo in un luogo e in un istante preciso, e un enunciato, che è ciò che viene detto: Émile Benveniste definisce “istanza di discorso” questo prendere corpo della parola nella voce e specifica che “nell’istanza di discorso l’enunciazione e l’enunciato sono indistinguibili”. Ma in forma di poesia, in questa forma nella poesia di Benedetti, ciò che viene detto, l’enunciato, espone, offre l’accesso al richiamo del corpo, del luogo, dell’istante nella parola. Non abbiamo, in questa poesia, l’immagine composta di una realtà percepita nell’immediatezza dei sensi, ma l’evocazione del meraviglioso e illusorio operare dei sensi a ricomporre l’immagine di sé nel mondo, sempre di nuovo nell’inizio, sempre di nuovo un ritorno.
È una poesia, quella di Benedetti, come sempre è la vera poesia, la lingua ricreata in una forma, una seconda voce che mostra la nuda esistenza dell’uomo in quanto tempo e in quanto parola, nell’amore originario che li lega.

 
 
In copertina una foto di Viviana Nicodemo, gennaio 2020