Gèlita, ultimo lavoro a stampa in ordine di tempo a portare la firma di Mariagiorgia Ulbar, edito da B#S edizioni nella prima metà del 2024, è il risultato di un progetto di residenza. Qualcosa che non appare di frequente nel panorama della poesia e spinge a una riflessione. Non compare spesso il mettere le proprie capacità autoriali al servizio di un progetto che viene dall’esterno, da terzi, ascrivibile a una “commissione”. Ulbar accetta questa sfida e trae da una residenza letteraria in Carnia un libro composto da testi e alcuni disegni, che girano attorno alla figura di Angela Ianesi “probabilmente monaca” vissuta nel XVIII secolo, ma che danno anche modo al lettore di ritrovare in sintesi la poetica di Ulbar o, almeno, alcuni dei suoi punti fermi. Di seguito un dialogo con l’autrice.
Sergio Rotino: Da cosa nasce e come nasce il progetto di Gèlita?
Mariagiorgia Ulbar: Il libro nasce da una residenza in Friuli Venezia Giulia, precisamente in Carnia, promossa dall’associazione IoDeposit. Ho trascorso in quella zona, a Tolmezzo, una settimana a inizio settembre 2023 e il personaggio intorno al quale girava la mia residenza era Angelica Ianesi, cioè una donna del luogo, probabilmente monaca, che aveva scritto a fine del Settecento un poema sul caffè. Nei giorni di Tolmezzo ho poi scoperto un’altra storia che affiora in Gèlita; riguarda ciò che viene definito come l’“enigma di Verzegnis”, ossia una epidemia di isteria che aveva coinvolto venti giovani donne abitanti nella zona, anche se non si capì mai bene cosa fosse accaduto. A Tolmezzo ho trascorso del tempo leggendo documenti ed esplorando il luogo e, a partire da quella documentazione, ho tramutato le storie e il sentire, il vedere, quindi l’esperienza fatta in quei giorni, nei versi dei testi con cui ho costruito il libro.
S.R.: Quale differenza trovi fra una esperienza come questa, su “commissione”, e la creazione di un lavoro (di un intero libro) che nasce senza vincoli di alcun genere a parte quelli decisi dall’autore?
M.U.: Diciamo che Gèlita si è innescato e ha preso forma grazie a una commissione, a una occasione: è stato uno spunto. Per il resto, non trovo molta differenza con altri miei libri. Sono solita assemblare i testi sempre con una idea di libro più che di semplice raccolta, ossia come qualcosa di coeso, che ha in filigrana una struttura seppur non esplicitata. Dunque, forse questo è proprio il mio modo di lavorare, motivo per cui la commissione, l’occasione, lo spunto esistono pur quando non sono che io stessa ad assegnarmeli.
Nel caso di Gèlita ho poi deciso di rendere la struttura, la concatenazione dei testi evidente, obbligata, scegliendo una disposizione in coblas capfinidas, ossia con testi legati fra loro mediante la ripetizione del verso finale di ogni componimento in quello iniziale del componimento successivo.
S.R.: Ma in questo progetto il vincolo era e resta esterno a te, mi pare. Lo hai interiorizzato come fanno, diciamo, certe scuole di recitazione per quanto riguarda i personaggi che devono essere interpretati? Così facendo, lo hai reso personale?
M.U.: Per rispondere a questa domanda dovrei dire qualcosa su cosa intendo per Io lirico e Io poetico, quando io dico “io” e scrivo “io”.
Dunque, sì. Qui il vicolo resta esterno a me e io non ho pensato di interiorizzarlo e di fagocitare l’esperienza. Inoltre, appropriarmene è qualcosa che assolutamente non volevo fare, non volevo assumere l’Io di Angelica Ianesi o di quelle donne sofferenti crogiolandomi in questa dimensione che, seppur da qualcuno praticata e lecita, non è la posizione che mi fa sentire più a mio agio.
Non volevo assorbire quei vissuti secondo le mie strutture identitarie, secondo le mie necessità, secondo la mia memoria e le mie modalità, non volevo caricarle del mio personale, ma provare a fare il contrario. Scrivere magari “io”, ma provare a riempire un pronome notoriamente ingombrante con quelle assenze, con i silenzi e le lacune che costituiscono il rapporto frammentario che abbiamo col passato; fare in modo che tutto prendesse forma da ciò che resta, luoghi, oggetti e lasciti di vario tipo da cui il tempo ha asciugato la portata emotiva perpetuandoli come fossili silenziosi, simulacri forieri di immagini.
S.R.: A livello di scrittura, Gèlita si differenzia dal tuo penultimo libro, Hotel Aster. Lì il concetto di struttura del verso veniva cancellato quasi del tutto, qui ritorna, si fa nuovamente attore principale, immagino per una funzionalità al tema. Oppure per cosa?
M.U.: La differenza fra Hotel Aster e Gèlita, il fatto che io in quest’ultimo abbia ripreso il verso, è occasionale. Nel senso che ho immaginato questo libro in questo modo e Hotel Aster nel modo che hai descritto nella domanda. Dobbiamo tener conto, anche, che quando parliamo di Hotel Aster parliamo di un libro che ho scritto prima di Lighea – cioè il libro che precede Gèlita – anche se è stato pubblicato più tardi, e quindi già Lighea era un ritorno al verso. Ad ogni modo, Hotel Aster è un esperimento che per ora resta unico nelle mie esperienze di scrittura.
S.R.: Un esperimento unico?
M.U.: Non è detto che io nel tempo non torni di nuovo a una forma simile, ossia dove la scansione del verso non è evidente, dove ci sono accorgimenti formali di vario tipo e dove c’è, comunque, un ritmo cadenzato cercato altrimenti che con la divisione in versi.
Il verso comunque in qualche modo è presente, ma è latente nel testo in prosa e si esprime in filastrocche o in spazi bianchi, segni visivi. Quindi ogni libro è una occasione per stare in un percorso. Voglio dire, sono sempre io a scrivere, quindi immagino che ci possano essere delle risonanze. Nello stesso tempo, è interessante sperimentare con la materia che mi ritrovo per le mani e con gli strumenti che scelgo di volta in volta in maniera primariamente istintiva e poi consapevole, è interessante che sia qualcosa che sta al di fuori di me a tirarmi, che sia il primo innesco.
S.R.: Quindi come possiamo considerare questo libro nel tuo percorso?
M.U.: Esattamente quello che dicevo prima: la vicinanza c’è, pur nella diversità, proprio perché il percorso non è battuto, quindi si snoda via via, si sposta, ritorna, devia, sprofonda ecc.
S.R.: Sempre parlando di percorso, dove possiamo collocarlo nella cronologia dei tuoi lavori? E perché?
M.U.: Anche in questo caso, direi che si colloca esattamente dove è. A differenza di Hotel Aster, per esempio, qui c’è corrispondenza di tempo di produzione e tempo di pubblicazione.
S.R.: Una cosa che mi sembra accomunare Gèlita a Hotel Aster, come a buona parte della tua produzione (le plaquette Osnabrück e Transcontinentale, quasi tutto Gli eroi sono gli eroi…), è la tua tendenza a dare al corpo poetico una forma narrativa obliqua, che perde il concetto tradizionale di trama. Ti ritrovi in quanto dico?
M.U.: Sì, sicuramente è così. Quest’ultimo, Gèlita, somiglia a un grappolo o a un rizoma e, in un certo senso, anche se forse se ne ha percezione meno immediata, anche negli altri libri avviene qualcosa di simile, nel senso che tendo a immaginare visivamente la loro struttura.
La immagino come qualcosa che va in orizzontale e che si compone di pezzi e frammenti i quali, nella loro vicinanza, giustapposizione e costruzione, possono finire per creare anche una trama.
La trama non c’è realmente, non si irradia dalla mia volontà e, come non esiste trama, così non esiste ordito né intreccio. C’è però sicuramente un montaggio e da ciò deriva il senso strutturale più radicato della mia produzione, cioè non perseguire una trama, ma nemmeno procedere in libertà. Non è neanche dunque una produzione che si misura con il concetto di raccolta, bensì con una tensione che si propaga in forma di onde o come un lancio di astragali. Sono accostamenti che possono suggerire un disegno, o meglio, che possono suggestionare nell’immaginare un disegno, una trama, ma che non spingono forzatamente verso una interpretazione di significato, bensì primariamente percettiva.
S.R.: È la prima volta che ti misuri con una “commissione”? Cosa ti interessa e cosa ti ha interessato in un simile contesto?
M.U.: Diciamo che più o meno nello stesso periodo ho risposto a un’altra commissione, che era quella di scrivere i testi per il progetto E.r.c.o.l.æ di Daniela d’Arielli: un progetto artistico piuttosto stratificato, che nasce da un lavoro dell’artista sulla figura di Ercole, ma legata al territorio abruzzese, all’acqua.
Il progetto si esprime in video e sonorizzazioni. Io ho scritto i diciotto testi che creano la linea della narrazione e del dialogo con il mito. Dodici testi narrano le Fatiche di Ercole, uno per fatica, partendo dalle fonti offerte ne I miti greci di Robert Graves e presenti in Ovidio e altri autori classici. I sei testi rimanenti, invece, sono divisi fra tre introduttivi e tre finali, e danno origine e fine alla storia, legandola in un andamento circolare.
Per venire alla seconda domanda: la commissione è una condizione che ho sempre trovato molto coinvolgente – anche quando si è trattato di scrivere magari solo un testo per una esercitazione di un laboratorio oppure perché dovevo fare esempi di composizione durante le lezioni, anche in lingua straniera, ai miei studenti e studentesse. Questo perché la commissione dà un indirizzo, dei limiti (quindi dei paletti) e poi tutto è da esprimere considerando quei paletti. Ma questi confini rendono il lavoro e anche il gioco davvero vertiginoso.
S.R.: Perché ci impedisce di andare dove si vuole?
M.U.: Per questo, certo. Se ci pensi, il fatto di non poter andare dove si vuole è anche, secondo me, la base della poesia. Perché c’è sempre una questione linguistica che porta avanti un testo, prima ancora di quella contenutistica o anche semplicemente espressiva. Queste costrizioni, chiamiamole così, attivano tantissimo la percezione e il ragionamento, e il ragionamento intorno alle parole, intorno a un lessico, lo attivano nella dimensione della scelta che si fa per raggiungere qualcosa di innominato e spesso indicibile dentro una ambientazione data.
S.R.: Cosa ti ha stimolata ad accettare e cosa a continuare?
M.U.: Nel caso della commissione che ha portato alla scrittura di Gèlita, mi ha stimolato ad accettare il fatto che si trattasse di una residenza artistica e quindi della possibilità di vivere un periodo da sola in un luogo, dove peraltro non ero mai stata prima, e di lavorare intorno ad alcune connessioni tra personaggi che nel passato avevano abitato quel luogo, avere un tempo da trascorrere in un posto senza preoccupazioni economiche – cosa che è propria dell’idea di residenza artistica, ovvero accogliere qualcuno senza che abbia altre preoccupazioni che il suo lavoro. In questo caso c’era anche un contratto, quindi anche dei tempi da rispettare.
S.R.: Una vera costrizione.
M.U.: Non c’era la possibilità di abbandonare, ma soltanto di provare a fare qualcosa nel migliore dei modi. Ecco, l’ho trovato molto stimolante. Mentre trovo sempre meno stimolante questa estrema libertà dell’espressione che poi rischia – in una condizione come la nostra, di persone che hanno un’istruzione, vivono in Occidente, vivono in Europa – di portare a uno stato, non so come dire, quasi di dissipazione degli stimoli o di scrittura a ogni costo. Voglio dire che si è entrati ormai nel mondo evoluto, istruito, nel campo della scrittura, e quindi è come se ci si sentisse sempre autorizzati a esprimersi, laddove questo sentirsi autorizzati spesso rischia di diventare una caduta nel dire stesso. Così si rischia di sfociare nel darsi voce comunque e sempre, anche quando non ce n’è alcun bisogno.
Foto di copertina di Dino Ignani