Alessia Giordano è nata nel 1999 a Mondovì, vicino alle Langhe. Si è laureata all’Università di Bologna in Italianistica con una tesi sulla centralità dell’anapesto nella poesia di Mario Benedetti. I suoi interessi spaziano dalla metrica al folklore, con particolare attenzione alla ritualità popolare e alle sue figure femminili. Attualmente vive a Bologna dove collabora con l’associazione Lo Spazio Letterario. La sua opera La signora dei parti lavora da sola è pubblicata in Esordi 2024 (Pordenonelegge, scaricabile QUI), insieme alle sillogi di Andrea Barone e Maria José Brialdi.
Tommaso Di Dio – Cara Alessia, sono da poco passati i giorni di Pordenonelegge dove abbiamo presentato insieme il tuo esordio: la tua silloge poetica La signora dei parti lavora da sola. È una raccolta che ci ha colpito subito, fin dalla prima lettura e che affonda le radici nelle tradizioni e nelle storie di una località precisa di Italia. Ci vuoi raccontare brevemente dov’è ambientata la tua prima raccolta? Come mai sei partita proprio da questa particolare regione?
Alessia Giordano – La signora dei parti lavora da sola è ambientata nelle vallate piemontesi – la Val Maira, la Valle Gesso e la Valle Vermenagna – in cui è viva la tradizione occitana. Fin dall’inizio, ho cercato la narratività e un forte elemento narrativo: volevo raccontare una storia. Per narrare una storia è necessario un luogo; il luogo che cercavo doveva essermi profondamente legato, senza, però, che io lo conoscessi nel dettaglio. Così ho scelto le Valli occitane nelle quali fin dal Seicento è possibile rintracciare la presenza della mia famiglia. “Maira” in piemontese significa “magra”, perché ciò che caratterizza queste vallate è la presenza di un paesaggio a tratti aspro e poco ospitale, connesso – con un po’ di immaginazione – ad una certa durezza, o cupezza. Nella raccolta, l’oscurità del paesaggio trapela mediante il rapporto che la figura femminile instaura con la terra, con il terreno in sé: la consapevolezza di essere profondamente legata ad essa, il desiderio di nascondersi al suo interno (di seppellirsi, quasi) e un continuo senso di spaesamento.
T.D.D – È evidente che il tuo lavoro traccia un legame con l’antropologia e le scienze del folklore. Da questo punto di vista, come hai lavorato? Quanto c’è di scientificamente corretto e quanto di fantastico? Cosa ti interessava mettere in rilievo della tradizione popolare e quali strumenti e archivi e testimonianze hai approfondito per scrivere il tuo lavoro?
A.G. – Il primissimo materiale deriva da alcune testimonianze familiari, dalle storie che mi sono state raccontate dalle donne della mia famiglia. Ciò che mi ha sempre affascinato non è il grande atto magico, ma il più piccolo rituale, così semplice e così assurdo da diventare proverbio. Per questo motivo ho scelto di lavorare sulle pratiche curative, su piccoli atti psicomagici comuni: lavare le lenzuola con la cenere, tagliarsi i capelli e le unghie, partorire. La figura centrale, dunque, è la curatrice, la curandera. Dopo alcune ricerche, ho scoperto di essere stata io stessa curata da questa figura femminile, da quella donna che in paese veniva chiamata la Signora dei vermi. Quando i bambini piangevano e avevano le ciglia aggrovigliate, si usava chiamare al telefono questa donna per farsi, appunto, segnare i vermi. Ciò che facesse le altre donne non lo sapevano, probabilmente osservava il movimento del filo di canapa gettato in una ciotola d’acqua. Un giorno, un’anziana mi ha raccontato la storia di una bambina del paese morta per i vermi, perché (a quanto pare) di vermi si poteva morire. Il punto interessante della chiacchierata è che l’anziana stessa non era convinta della causa della morte, ma non aveva altri mezzi (o altre verità) per confutare l’ipotesi. Ciò che mi interessa del folklore è questa zona d’ombra, in cui lo statuto della magia è instabile. Questa instabilità nella raccolta si mostra attraverso il leitmotiv dello smarrimento delle buche che la protagonista scava, cioè il non poter ricordare il luogo in cui è avvenuto l’atto psicomagico di cura. Ciò che mi affascina della magia, intesa come pratica di cura collettiva, è la paura che si ha di essa. “La signora dei parti lavora da sola”, nel suo piccolo, vorrebbe essere un esercizio per avere, nuovamente, paura della magia.
T.D.D. – Durante il lavoro di editing abbiamo discusso dell’opportunità di cambiare il titolo della tua raccolta e poi invece abbiamo deciso di mantenere il titolo originario che avevi scelto fin dall’inizio. Da dove viene questo titolo così particolare? In che modo rappresenta il tuo lavoro?
A.G. – La decisione di mantenere questo titolo è connessa innanzitutto alla sua struttura metrica. La frase “La signora dei parti lavora da sola” presenta infatti una struttura anapestica, fungendo così da richiamo formale per tutti i versi della raccolta. La lunghezza, poi, impone una pronuncia più lenta, avvicinando il titolo ad un detto popolare, ad un qualcosa bisbigliato all’orecchio. Nella raccolta le figure femminili appartenenti al folklore popolare sono due, la levatrice e la curatrice; e questo titolo ne enfatizza la presenza. Nei testi, però, da doppia la figura si triplica, avvicinandosi a qualcosa di spettrale, lunare. Questa presenza non umana trapela nella seconda parte del titolo, nel lavorare da sola.
T.D.D. – Mi ha colpito molto un elemento del tuo percorso in versi: il sangue. L’attenzione per questo fluido sembra che sia davvero il filo rosso della tua raccolta: appare e scompare nei versi e traccia quasi un percorso segreto fra le poesie. Da una parte il sangue è un elemento generale della vita degli esseri umani, ma tu lo usi anche per approfondire un discorso preciso che intendi compiere sul tema della femminilità. Mi puoi spiegare meglio?
A.G. – Nella silloge, l’attenzione per il sangue non dipende dal suo essere un elemento primordiale legato ad un ipotetico sacrificio iniziale, ma dall’essere un liquido connesso ad un atto psicomagico intimo e quotidiano. Da sempre mi affascinano le pratiche sciamaniche, una in particolare… In Messico, le Donne Medicina ogni mese scelgono un luogo nel bosco in cui versare il proprio sangue mestruale. Nella tradizione sciamanica, questo luogo prende il nome di spazio lunare. Il sangue, come nell’agricoltura biodinamica, funge da fertilizzante naturale per il terreno. Nella raccolta, la sua funzione si avvicina a queste due pratiche, nel senso che agisce innanzitutto in quanto materia, e solamente dopo in quanto liquido magico, secreto.
T.D.D. – Uno degli elementi che colpisce subito il lettore delle tue poesie è l’uso molto particolare della metrica. La usi come strumento incantatorio e quasi magico, ma anche come strumento di coesione della raccolta che pur nella diversità degli approcci mantiene in ogni componimento una forte caratterizzazione metrica. So che sei una studiosa di questo campo e hai fatto una tesi di laurea che affronta proprio questo argomento: mi racconti meglio come hai lavorato su questo aspetto per costruire la tua raccolta?
A.G. – In queste ultime settimane ho avuto la possibilità di insegnare ai bambini alcune nozioni di metrica, come la struttura dell’endecasillabo, dando loro una serie di tabelle formate da undici caselle da riempire a piacere. Il risultato è stato uno solo: la presenza di una struttura fissa ha reso massima la creatività dei bambini. Nella raccolta, la scelta di uno schema metrico fisso nasce dalla stessa necessità, dal bisogno di controllare sia la lunghezza del verso, sia la creatività. Da sempre mi affascina il legame tra l’estetica e la metrica; per simulare l’andamento incantatorio della filastrocca e della formula magica ho scelto un verso anapestico, perché la struttura ternaria (credo) racchiude in sé qualcosa di malinconico, quasi magico… Questo verso, però, doveva essere un po’ storto, un po’ sbilenco, non poteva ripetersi perfettamente. La scelta di costruire una raccolta utilizzando lo stesso metro per poi sabotarlo dall’interno deriva dal voler vedere se l’effetto estetico della forma metrica – la componente emotiva e psicologica – potesse resistere ed essere percepibile anche in caso di un verso zoppicante, così come avviene nella poesia popolare e nelle filastrocche.
T.D.D. – L’esordio è sempre anche un’occasione metapoetica: il momento in cui chi si affaccia per la prima volta alla scena della poesia dice chi sono i suoi maestri, quali le proprie ascendenze letterarie e da chi invece si sente distante, fino anche al rifiuto. Quali sono le tracce e i percorsi autoriali del passato che riconosci nel tuo lavoro?
A.G. – Credo di essere stata influenzata da due letture molto recenti, intraprese all’inizio del lavoro. La prima è Babajaga di Gaia Giovagnoli, sia per quanto riguarda la centralità del folklore nella raccolta, sia per l’importanza dell’elemento narrativo nella costruzione del macrotesto. La seconda, La cella reale di Małgorzata Lebda, credo si senta nel rapporto che il personaggio femminile instaura con il sangue, con il corpo e con una certa energia connessa al bosco. Per quanto riguarda la poesia del Novecento, il peso di Pavese è centrale, non tanto ad un livello tematico, quanto formale.
qui mettiamo i semi caldi nei cuscini per togliere i dolori
i bambini settimini ci vendono i semi degli olmi
li lasciamo sotto ai cuscini per perdere la paura
se ti inginocchi, se posi le mani a terra
l’orecchio, il naso e la bocca
puoi sentire quel piccolo lamento:
non una voce, solo un piccolo gesto
e abbiamo cercato di crederci ancora
di crederci insieme, soffermarci su quel gesto
e pagare tutto, tornare pagare ricominciare pagare