Non solo i neometrici scrivono sonetti

Negli ultimi almeno vent’anni i libri di sonetti si sono ridotti, con qualche eccezione, alle prove regolari dei soliti sospetti (Frasca, Nove, Valduga, …), che godono, credo in virtù dell’immediata riconoscibilità della forma, di un’attenzione critica consistente ma non pienamente meritata.1

E tuttavia è anche vero che la memoria sedimentata della struttura strofica del sonetto agisce in molti dei migliori autori, guida la loro poesia a un’adeguata conclusione e risuona nell’ascolto dei lettori (attenti). Una partitura strofica – grafica o anche solo intonativa – è uno strumento formidabile se non essenziale nel condurre una poesia attraverso incipit, sviluppo e conclusione, e forse proprio con l’assenza di tale partitura si possono spiegare, almeno in parte, i testi di quegli autori di cui abbiamo in mente molti bei versi e nessuna bella poesia (e viceversa, spesso i grandi autori scrivono poesie bellissime anche a dispetto di qualche brutto verso).

Fra i molti che se ne potrebbero fare, ho preparato tre esempi di testi in cui lo scrittore si appoggia alla struttura, più o meno velata o violata, della forma principe della tradizione poetica italiana.

Il primo è da Beppe Salvia, il testo iniziale della sezione Sillabe, dalla raccolta Cuore:

 

Adesso io ho una nuova casa, bella
anche adesso che non v’ho messo mano
ancora. Tutta grigia e malandata,
con tutte le finestre rotte, i vetri
infranti, il legno fradicio. Ma bella
per il sole che prende ed il terrazzo
ch’è ancora tutto ingombro di ferraglia,
e perché da qui si può vedere quasi
tutta la città. E la sera al tramonto
sembra una battaglia lontana la città.
Io amo la mia casa perché è bella
e silenziosa e forte. Sembra d’aver
qui nella casa un’altra casa, d’ombra,
e nella vita un’altra vita, eterna.

 

Nell’introdurre l’antologia di Beppe Salvia I begli occhi del ladro (Il Ponte del Sale, 2004), P. Di Palmo scrive che «il sonetto domina le sezioni più importanti di questa raccolta»: la dimestichezza di Salvia e la sua interiorizzazione della struttura strofica sono evidenti in molte delle poesie giustamente più celebri, come i testi di Cuore o di Sillabe, dove l’autore si dimentica – o sembra dimenticarsi – il conto dei versi o il procedere delle strofe, ma la poesia naturalmente si dispiega e si adagia sulla forma del sonetto2.

Da notare il continuo strabordare del periodo sul primo verso della strofa seguente3, che preclude all’occhio, ma non all’orecchio, il riconoscimento di quartine e terzine, a cui sono affidati i momenti topici della trattazione: descrizione di un luogo (vv. 1-8), allargarsi dello sguardo ad abbracciare il paesaggio (vv. 9-11), trasfigurazione del luogo e inabissarsi del discorso nell’interiorità del poeta (vv.12-14).

Senza dilungarci in un’analisi del testo4, faccio solo notare l’apocope al v.12, che innalza quasi gratuitamente il grado di letterarietà, anche se il tono rimane sincero e affettuoso, grazie al contesto di sermo cotidianus che prepara cautamente l’inserimento di termini un po’ più poetici («infranti»): il testo ha insomma un sapore molto più classico che postmoderno. Sospetto che un ruolo fondamentale in questo equilibrio sia giocato dal verso immediatamente precedente («io amo la mia casa perché è bella»), di una semplicità quasi infantile ma non esibita, in linea con quanto raccomanda Leopardi: ricorda la ben nota poesia di Giudici Tanto giovane (in La vita in versi), dove l’intromissione del lessico volgare e colloquiale («”Tanto giovane e tanto puttana”/ciài la nomina…»), citato spesso come esempio di abbassamento prosastico dello stile, serve in realtà a preparare, a rendere accettabile e non sdolcinata l’impennata lirica della seconda quartina – che si chiude, ricordo, con la rima cuore-amore, davvero difficile da usare in chiave non ironica.

Quasi gratuitamente, perché in realtà l’apocope ha un ruolo ben preciso: causa uno scontro d’arsi con la prima sillaba del verso seguente, ci costringe a rallentare la lettura prima degli ultimi due versi, che presentano una parallela costruzione sia sintattica che ritmica (con fitta accentazione giambica). Un esempio particolarmente fulgido di come Salvia ci porti sempre, a dispetto dell’ubriacatura di enjambements e senza manomissioni della punteggiatura, a interrompere l’esecuzione per sostare tra un verso e l’altro.5

Come secondo esempio leggiamo Due tempi di Giampiero Neri, dalla raccolta Liceo (Guanda, 1986).

 

La civetta è un uccello pericoloso di notte
quando appare sul suo terreno
come un attore sulla scena
ha smesso la sua parte di zimbello.
Con una strana voce
fa udire il suo richiamo,
vola nell’aria notturna.
Allora tace chi si prendeva gioco,
si nasconde dietro un riparo di foglie.
Ma è breve il seguito degli atti,
il teatro naturale si allontana.
All’apparire del giorno
la civetta ritorna al suo nido,
al suo dimesso destino.

 

Il testo di Neri è evidentemente molto diverso da quello di Salvia: l’uso della punteggiatura è parsimonioso e concerne soltanto il fine verso; non sono presenti enjambements, anzi, la scansione versale soggiace strettamente a quella logica (nell’introdurre per Mondadori le Poesie 1960-2005 Cucchi parla di un «uso diffidente» del verso). Anche l’endecasillabo non fa capolino che al v. 46, ma cospicue corrispondenze vengono comunque a crearsi tra i versi, spesso con accentazioni riconoscibili, in particolare settenari e novenari.

La struttura del sonetto è violata dalla disposizione dei periodi nelle due strofe centrali, ma facilmente riconoscibile nella prima quartina, sigillata, oltre che dal punto fermo, dalla rima «uccello» – «zimbello». Rima che, fra l’altro, rende evidenti i due emistichi del primo verso, individuando nel primo quel settenario che è poi il verso più usato nella poesia; anche i vv. 7, 12, 14, ottonari con l’accento in 4a, ripropongono, posticipata di una sede, la scansione di questo emistichio.

Torna riconoscibile la forma-sonetto nell’ultima terzina, che capovolge la descrizione della civetta, lasciandoci in dubbio su quale sia l’uccello vero e quale il suo doppio. Questa poesia notturna, al rovescio, si chiude fra l’altro con l’alba, rovescio del tramonto, momento topico di chiusura tanto caro alla tradizione lirica. Il finale affidato alla terzina, l’assonanza «nido»/«destino» e il ripetersi dell’accentazione sopra discussa rendono salda nel lettore la percezione di compiutezza: pur con le caratteristiche, proprie di Neri, di una poesia di allusioni, dove il centro sembra potersi definire solo in negativo o tratteggiandone i confini, questo testo è un gioiello perfettamente autosufficiente, in grado di descrivere compiutamente la scena, dare un’idea precisa dello stile e dello sguardo dell’autore, e inquadrare alcuni dei suoi temi capitali, in particolare il complesso rapporto tra realtà e rappresentazione, tra ruolo e identità.

Come ultimo testo, fra i tanti esempi che si sarebbero potuti fare7, ne ho scelto uno un po’ anomalo, che ha però le caratteristiche di essere piuttosto distante dai primi due in quanto a stile e data di pubblicazione: Mattoni di Massimo Gezzi, dalla raccolta L’attimo dopo (Sossella 2009).

 

Se volessi un mattone dovresti prendere
un mattone, per rabberciare una muraglia
o per tappare una buca
in un pavimento a lisca di pesce.
Un mattone: un solido che vive dentro tre
dimensioni, pesa, al tatto sembra
ruvido o poroso, e lasciato ammucchiato
assieme ad altri per lungo tempo fa
da nido a millepiedi, ragni e forbicine.
 
Un mattone che esiste, che spaccato col martello
fa tac una volta sola, un suono bello,
di mattone, secco, preciso.
 
Un mattone conta più delle parole
che lo imitano appoggiandosi
una sopra l’altra.
 
Io con la poesia vorrei fare mattoni.

 

La forma è evidentemente sottoposta a un certo stiramento (la seconda strofa è di cinque versi), ma nondimeno riconoscibile come sonetto caudato, grazie alle strofe grafiche, ciascuna delle quali coincide con un differente periodo e sviluppa una propria immagine. Il tema è però monolitico, compatto come appunto un mattone, ribadito in ogni strofa secondo un movimento ad affondare, uno sguardo che fotografa il mattone prima nel suo contesto (prima strofa), poi nel suo aspetto superficiale («un solido che vive dentro tre/dimensioni», seconda strofa), penetrandone all’interno (terza strofa) e giungendo infine a coglierne il valore intrinseco (quarta strofa). Ma ecco che arriva l’ultimo verso-frase, come un fulmen in cauda che illumina il testo, accendendone la contraddizione, la tensione viva fin dall’inizio, ma che viene solo ora schiusa, offerta al lettore. L’ultimo verso arriva oltre l’esaurimento del materiale tematico, non approfondisce ma congeda la trattazione, prolunga la forma per essere certo di esaurire qualsiasi aspettativa superstite alle terzine.

Se la poesia di Neri è allusiva, sembra non poter dire il centro se non per definizione del suo negativo, questa lirica di Massimo Gezzi è invece tutta centro, non fa che ribadire dal primo all’ultimo verso la sua sostanza.

Pur attraverso la consueta – e qui forse esasperata – «affabilità prosastica» (di cui ha parlato Dal Bianco anche proprio in merito alla poesia di Gezzi), Mattoni è una lettera d’amore alla poesia, una testimonianza della fiducia nelle sue possibilità, malgrado gli ostacoli, di dire una cosa, e la stessa per tutti. Forse anche questo anelito a una prospettiva pubblica, politica, può spiegare l’esibizione grafica di una forma che negli altri casi avevamo visto solo sottesa, celata agli occhi del lettore.

La riconoscibilità del sonetto, impresso nell’orecchio di qualsiasi lettore, gioca in tutti questi esempi un ruolo nel rafforzare la struttura (formale e tematica) del testo, ma senza imporne una propria autoevidente: rinunciando, cioè, al suo «contenutismo latente»8. Il che è possibile anche in virtù della posizione delle poesie all’interno dei rispettivi libri: un caso assolutamente isolato per Neri, per di più all’interno di una raccolta composta in gran parte di prose, e sui generis anche per Gezzi, del quale le poesie ne L’attimo dopo sono tendenzialmente più lunghe e raramente divise in strofe grafiche. Il caso di Salvia è un po’ più complesso, per la scarsa progettualità delle raccolte (Cuore uscì dopo la scomparsa dell’autore) e per la «caratura sapienziale che travalica il meccanicismo insito in certe aberrazioni neometriche» (sempre Di Palmo), ma anche per lui il sonetto è una guida più che una regola, e difatti spesso aumenta o diminuisce il numero dei versi, senza volontà di effrazione ma con naturalezza espressiva.

Il carattere di «serialità per certi versi ossessiva»9, proprio di tante prove di sonettistica (in anni recenti, Maccari ha fatto leva proprio su di esso nella prima sezione di Fuoco amico), non entra in gioco, proprio per l’assenza di una corona di testi in cui collocarsi.

Per tutte queste poesie, la definizione di forma chiusa è inappropriata: in esse il sonetto non ha il carattere di una struttura definita, con la quale confrontarsi in maniera agonistica, è piuttosto una forma nascosta, una guida invisibile, una pista di cervi che può forse farci da sentiero.

Andrea Cozzarini

 
 
 
 
 
 

1 Per fare giusto un esempio, C. E. Roggia ne Il sonetto nel Novecento, in “Stilistica e metrica italiana” II (2002) parlava del neometricismo come del «fenomeno più vistoso e controverso della poesia italiana degli ultimi vent’anni»; oggi trovo invece sia lecito affermare che – con l’eccezione forse di Valduga – gli autori neometrici sono ben più presenti nella scrittura accademica e nelle antologie con orientamento scolastico-universitario di quanto non lo siano alla memoria e all’attenzione di poeti e lettori di poesia.

 

2 In tutta la sezione Sillabe «è come se la dimensione ardua travagliata e sofferta della pratica metrico-spirituale fosse stata interiorizzata e superata, rimanendo soltanto come acquisto espressivo, come conoscenza e padronanza di quella forma derivata dal sonetto che è propria del miglior Salvia», R. Galaverni, Beppe Salvia in una lirica, in Id., Dopo la poesia. Saggi sui contemporanei (Fazi, 2002)

 

3 P. Tripodo parla di un «enjambement onnipervasivo».

 

4 Perché Salvia non sembra utilizzare nessuna risorsa nell’occultare o nell’esibire i meccanismi formali, in particolare rime e ripetizioni; ma ancor di più perché su questa poesia si è già soffermato, meglio di quanto saprei fare, Roberto Galaverni nel saggio sopra citato.

 

5 Ciò che è attestato anche dalle sinalefi frequentissime a cavallo di verso (in sette occorrenze su tredici totali) e dai numerosi versi con accento in prima sede (sei su quattordici).

 

6 E al v. 13, se vogliamo ammettere dialefe tra «ritorna» e «al».

 

7 Da quando ho iniziato a ipotizzare questo articolo mi sono imbattuto in ottime alternative in testi di F. Buffoni, G. Conte, T. Di Dio, F. Pusterla, E. Testa e G. Turra. Anche la recentissima raccolta di S. Modeo Partire da qui (Interno Poesia, 2024) si confronta volentieri con la forma-sonetto.

 

8 A. Soldani, Le voci nella poesia. Sette capitoli sulle forme discorsive (Carocci 2010), riprendendo l’idea di Adorno di un contenuto che si sedimenta nelle forme della tradizione.

 

9 R. Scarpa, Forme del sonetto. La tradizione italiana e il Novecento (Carocci 2012).