Pietre di sosta. Poetica e poesia di Enrico Testa


Enrico Testa è poeta molto parco di dichiarazioni di poetica, preferendo delegare ogni discorso al verso. Ma qui viene meno in parte – come vedremo – a questo principio e pubblica per Manni un libro, per così dire, bipartito (Pietre di sosta. Poetica e poesia, Manni, 2024): da un lato una parte in prosa, che è una riflessione sulla scrittura in rapporto alla vita degli esseri umani, intesa sia come vita collettiva, sia come indagine personale e soggettiva di ricerca del profondo dell’essere umano come io che scrive, dall’altro una parte in versi, costituita da inediti e da una scelta dalle raccolte precedenti. La prima cosa di questo nuovo capitalissimo libro a meritare attenzione è il titolo Pietre di sosta, che costituisce davvero una soglia capace di fornirci informazioni fondamentali per orientarci nelle fitte selve di questo libro di poetica e di poesia. Le pietre di sosta sono gli appoggi lungo i sentieri di montagna, dove i portatori potevano momentaneamente posare il carico che avevano sulle spalle; qui sono un’allegoria della scrittura poetica, in quanto momento dove lungo il cammino della vita si ci ferma a riflettere; scrivere vuol dire, anche, trattenere la memoria e interpretare la realtà, per non perdere mai la dimensione dell’umano.

Superata la soglia, incontriamo la parte eponima, che è appunto esclusivamente in prosa e costituisce la riflessione sulla poesia; del resto il titolo recita Pietre di sosta, ma il sottotitolo è Poetica e poesia, e l’autore segue fedelmente la sequenza del sottotitolo nella costruzione del libro. Aver costretto Testa a questa duplice operazione di riflessione e costruzione è merito dell’editore Manni e di Antonio Prete, curatore e direttore della bella collana (appunto) di poetica e poesia, l’ultima nata dell’editore leccese. Allora per parlare della lingua e della scrittura, Testa non produce un testo sul modello, per dare un’idea, della sezione “Dietro la poesia” dei Novissimi, cioè un testo di analisi e di teoria letteraria, ma si affida, anche in questo caso, a una costruzione creativa, dando vita a un dialogo sul modello delle Operette morali e precisamente del Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare, dal quale è presente, a p. 12, la citazione: “la nostra vita, mancando sempre del suo fine, è continuamente imperfetta: e quindi il vivere è di sua propria natura uno stato violento”. Queste parole leopardiane possono considerarsi, a ragione, l’insegna dell’intera prima sezione, del resto è proprio l’andamento del dialogo a essere leopardiano, un dialogo che indaga la lingua in relazione al nascere della poesia. Si forma, come osserva Antonio Prete, una sorta di “drammaturgia del poetico”, creata dalla “tensione tra il qui e l’altrove, il dialogo con gli scomparsi e con i viventi, con le loro passioni e miserie”. In questo dialogo, il folletto “guasta-testo” – che può essere sia petrarchianamente una parte della propria anima, sia leopardianamente il genio familiare (e soggettivo), oppure persino una specie di grillo parlante in nuova declinazione – aiuta l’autore a far emergere ciò che si tiene nascosto e in disparte, ciò che non è solo il represso, ma è anche l’indicibile: la scrittura in versi è secrezione e dolore, come dice Leopardi nello Zibaldone (citato da Testa): “il sentimento della nullità di tutte le cose, la insufficienza di tutti i piaceri a riempirci l’animo, e la tendenza nostra verso un infinito che non comprendiamo” (pp. 16-17). La poesia è la solitudine assoluta: a questo approdo Testa arriva attraverso un percorso tortuoso che mette in gioco non solo Leopardi ma crea una vera e propria costellazione di autori che comprende, per esempio, Benjamin e Dickinson, Kawabata e Kenkō Hōshi, Céline e Bernhard, Handke e Donne, con i quali è in dialogo costante grazie al linguaggio e alle sue forme. Sulla pagina, in virtù dei diversi punti di tensione, si crea una dinamica attraverso la quale l’asimmetria viene fuori come il tratto tipico di questa scrittura in versi, che si rivela essere immanenza che prova a resistere alla sua stessa distruzione (vd. p. 31): “non possiamo cancellare con un tratto di penna la condizione aporetica della poesia. La quale è appunto – come una aporia – una somma di contraddizioni indecidibili che non si lasciano ridurre alla dialettica del sì o del no, del dolce o dell’amaro, dell’ora o dell’allora, dell’io o degli altri. È insieme esperienza della massima solitudine o separatezza ed esperienza di un legame che esclude ogni progetto e ogni finalità” (p. 34). Il gioco di punti di vista porta sempre in primo piano le dinamiche io/noi e io/sé che permettono di penetrare in questa particolare declinazione della scrittura, cioè dentro il mondo della scrittura in versi. È attraverso queste dinamiche peculiari che ci viene svelato il rapporto tra sogno e poesia: “perché il sogno – come la poesia – ci porta in un passato, in un suo frammento, in «una dimensione totalmente altra rispetto ad ogni nostalgia dell’origine» (Arendt)” (p. 51). Nei versi si sedimenta insieme la dialettica tra presente e passato, anche come speranza e creazione di un futuro; le parole trattengono, nel nodo tra l’incanto e il disincanto, i tempi diversi dell’ora e dell’allora. In questa prospettiva il sonno è “simile alla paralisi” (p. 54), è una “stazione indefinita tra sonno e veglia”. L’io pare assente e disperso. La condizione “in cui nasce e poi si muove la poesia è quella della lucidità che affiora sul crocicchio in cui si intersecano sonno e veglia, sogno e pensiero, visione senza tempo e coscienza della temporalità. Insomma, è come tenere gli occhi aperti mentre si dorme. Il poeta è un dormiente sveglio” (p. 56). Ma questa condizione particolare non estrae il poeta e non lo protegge dalla realtà in cui vive e nella quale si muove primariamente come uomo, tanto che per esprimere compiutamente questo concetto Testa ricorre a una citazione foscoliana: “Che vuoi farci? Come gli uomini anche le poesie – fragilissimo prodotto dell’essere fragilissimo che è l’uomo – «traggono qualità da’ tempi»” (p. 35). Questo sintagma proviene dalle pagine foscoliane della Chioma di Berenice (per la precisione sintagma è “Per questi esami confermasi la sentenza, che i poeti traggono qualità da’ tempi”, La chioma di Berenice, Discorso quarto, Della ragione poetica di Callimaco, paragrafo VI): ma questo stesso sintagma è stato, per esempio, utilizzato da Sanguineti, in ben due occasioni, come citazione diretta, negli anni ’70, come chiusa della sua introduzione alle foscoliane Lettere scritte dall’Inghilterra, ma soprattutto – e la cosa ha maggior rilevanza –, travestito e trasformato nella forma “noi che riceviamo la qualità dai tempi”, al v. 4 della prima sezione di Laborintus negli anni ’50: Sanguineti crea una sorta di calco, poiché il “traggono” diventa “riceviamo”, l’accento viene messo cioè non più esclusivamente sul soggetto quanto sulla realtà materiale, quasi a voler sottolineare la dialettica tra essere sociale e essere. Testa innesca così, giocando su diversi piani e strati, non solo un rapporto diretto con Foscolo ma anche uno mediato con Sanguineti che ricorre a Foscolo per esprimere e rappresentare la condizione di stato presente dell’uomo che vive e che scrive. In Testa lo spostamento è invece dai poeti agli uomini e alle poesie.

È seguendo questa via che la poesia, “tutta e nel suo insieme, va forse pensata come una stereografia, ovvero come una visione doppia o come un doppio movimento che mette in gioco ‘fuochi’ e figure diverse. […] La poesia sembra fatta di ciò che è nella solitudine del presente assoluto del testo e di ciò che è stato alla sua origine […] la si può guardare […] come la rappresentazione grafica – in grafemi proprio – sul piano della pagina di aspetti contraddittori e simultanei e di tante disposizioni diverse dell’esistenza e del ricordo che su questo piano sono trasportate dall’invenzione o immaginazione del dormiente sveglio che la scrive. Come per le facce di un cristallo di una pietra, una stereografia. Che ha talvolta la forza di trasformarsi in agente di percezione dei suoni, delle voci e della loro direzione di provenienza: lo spazio ospita la voce, il visivo si fa acustico. La stereografia s’inerpica sulla scala armonica e dissonante della stereofonia” (pp. 57-58).

Se queste pagine ci dicono molto sulla scrittura, esse lasciano ancora un po’ in ombra il perché si scriva. A rispondere a questo quesito, sempre attuale e presente, sono i versi veri e propri, che, infatti, recitano – e siamo nell’explicit di “Poteva esser l’alba” – “si scrive nel vuoto, si svive nel dopo”. In apertura della sezione Albergo sul dirupo, bella immagine della condizione umana e della situazione concreta dell’uomo, sezione interamente composta da testi inediti, perché scritti dopo la pubblicazione einaudiana de L’erba di nessuno (2023), incontriamo il testo “Poteva essere l’alba”, che appunto rappresenta, attraverso alcuni flash, la vita quotidiana degli uomini, inserita nello spazio tempo, per concludersi con una delle possibili risposte all’interrogativo sulla scrittura. Lo spazio e il tempo plasmano l’uomo e se sullo spazio l’uomo può intervenire, in positivo e in negativo (distruzione della natura, e quindi anche di se stesso, che è natura), il tempo è inesorabile, è quasi esterno, vive di vita propria; il tempo ha i suoi tempi. “Poteva essere l’alba” è una citazione dall’incipit del capitolo quarto della prima parte del Don Chisciotte di Cervantes; in questo modo, Don Chisciotte diventa la sotterranea allegoria dell’uomo contemporaneo, gettato nei crudeli meccanismi dell’espropriazione dell’umano, in una lotta che è impari. Questa sezione, che comprende anche traduzioni e rifacimenti, quasi travestimenti – per usare la formula di Sanguineti –, da Bernart de Ventadorn a Larkin, da Quevedo a Browning, da Hopkins a Ted Hughes, da Octavio Paz alla presenza sotterranea (ma dichiarata dall’autore) di Sebald ne Lo studio del tempo, è incorniciata, in apertura, appunto da “Poteva essere l’alba”, e in chiusura da Albergo sul dirupo, testo che dà il titolo all’intera sezione. Questa composizione ci presenta un albergo, una casa, appunto, su un dirupo, immersa in una natura più o meno accogliente, è presente quella selvaggia che si tiene lontana dall’uomo e quella invece in rapporto con l’uomo, da un lato la rana e i porcospini, dall’altro il gallo, che addirittura segna il tempo di vita dell’uomo, i suoi tempi di lavoro. La pietraia e il torrente, la montagna e il mare sono lo spazio dove l’uomo cerca di sopravvivere. Ma il torrente, che “scorre sempre tra il muschio / e nell’orecchio e nella mente”, è “L’eterna misura del tempo / e della sua rassegnazione”. E potremmo sottotitolare questa raccolta proprio L’uomo e il tempo, l’uomo nel tempo, il tempo nell’uomo, con la consapevolezza, un po’ alla Poulet che studia Proust, che il tempo è spazio, e lo spazio è tempo: “E noi, allora, corpuscoli / arrivati alla fine di tante ere / di eruzioni, diluvi e ghiacci, / provarsi a scoprire la storia / di chi, sperduta in questa avamposto, / a ogni appello guarda fisso e tace…” (p. 104).

I temi che emergono come centrali in questa sezione di inediti diventano anche le tracce e le linee fondamentali per la selezione e la costruzione della sezione Selve, che presenta prelievi dalle precedenti raccolte di Enrico Testa, che dichiara di trovarsi appunto in difficoltà, perché si sente lontanissimo dall’idea autoriale dell’autoantologia, e di conseguenza ricorre a una costruzione che possa tener conto della scrittura in divenire, un montaggio aperto.

Selve è un titolo – come sottolinea Testa – in perfetta “continuità tematica con i titoli delle prime due sezioni”, ma rimanda anche al termine latino, dove Silvæ vale sia per selve sia per materiali – in Stazio indica l’abbozzo di una poesia scritta anche velocemente. In questo caso, Testa mette l’accento “sulla natura di abbozzi, sono nati in momenti diversi e sono di diversa intonazione”. I versi di Selve ci mettono sotto gli occhi non solo un percorso ma servono a declinare, in un’azione continua di intrecci e interazioni, anche i versi della sezione precedente, Albergo sul dirupo: per esempio, Gita a Serravalle, con la sua chiusa che è una sentenza senza possibilità di risposta, “chi non consuma è spazzatura” – Testa ci indica la fonte in una frase “della compagnia americana di dati Acxiom, che alcuni anni fa definì col termine di waste (‘rifiuti’) i consumatori con basso valore di mercato” – si lega alla solitudine assoluta di Ferrovia.

Pietre di sosta rende ancora più chiaro il discorso del quotidiano fatto di piccole cose – come dicevamo – “di situazioni che compongono la realtà della vita dell’uomo”. Ma partire da questo punto vuol dire mantenere vivo il discorso aperto già con L’erba di nessuno e precisamente quello del rapporto con la natura e con la sua rappresentazione: qui l’interpretazione si fa estremamente complessa, perché la natura è sì lo spazio dove vive e agisce l’uomo, ma l’uomo stesso a sua volta è natura, la natura è l’uomo, è dentro l’uomo, è una delle sue essenze. In questo costante divenire dove spazio e tempo, uomo e natura interagiscono continuamente, innescando le più disparate dinamiche, la scrittura diventa luogo dove tutto questo trova piena cittadinanza e si può esprimere compiutamente. È la lotta per l’umano. In questa prospettiva, le pietre di sosta acquistano un nuovo significato, infatti si fanno biblicamente pietre di inciampo e pietre di scandalo, cioè impedimenti, infatti la poesia è la parola che costringe l’uomo a fermarsi per riflettere sulla sua condizione, per guardarsi dentro. Parlando di Testa, la critica ha fatto spesso riferimento a Caproni, Sereni, e a Montale, ma per questa parola scavata che vuole essere essenzialmente carne non dimenticherei mai neppure la lezione, per quanto estremamente mediata, di René Char e Paul Celan.

Erminio Risso