In occasione della notizia del Premio Pavese per la poesia a Martin Rueff abbiamo intervistato l’autore di Icaro grida in un cielo di creta (Samuele Editore-Pordenonelegge, 2023, collana Gialla Oro) e Verticale Ponte (Modo Infoshop, 2021) focalizzandoci sulle relazioni con la musica e su come nasce l’esigenza e il processo di scrittura in versi.
Nadia Bucz: Nella sua raccolta di poesie Icaro grida in un cielo di creta è interessante l’intreccio di opere letterarie che ha incluso intessendone le citazioni. Ancor di più la (ri)scoperta di alcune canzoni come Zombies dei Cranberries sapendo che la musica non sempre è un ambito da cui i poeti attingono per le loro opere.
Martin Rueff: Anzi, spesso c’è una specie di disprezzo per la musica pop che, secondo me, è completamente sbagliato perché nel caso dei Cranberries è ovvio che hanno saputo cogliere un misto di violenza della loro generazione, come hanno fatto in Zombies, ma anche una dolcezza come nella ballata Ode To My Family. Dunque queste cose vanno assolutamente ripescate e ridistribuite, quando si può, nella poesia. E sono sempre colpito dal fatto che spesso la generazione degli adolescenti, o dei giovani, non ha nessuna difficoltà a lasciarsi andare alle emozioni attraverso la musica mentre, spesso, fa più fatica con una poesia. Secondo me l’idea di cercare dei punti di contatto tra le due è una cosa importante. Per di più non c’è niente di inventato in questa storia perché è vero che in Ucraina, quando erano nei sotterranei, hanno diffuso queste canzoni dei Cranberries, il che per me era strano perché è una musica che ha ormai almeno trent’anni adesso.
NB: Esatto, è degli anni ’90.
MR: Ecco. E addirittura in Verticale ponte, questo includere la musica nell’opera mi era stato molto rimproverato da altri amici poeti. Avevo messo una canzone pop italiana di Alessandra Amoroso. Era una canzone che cantava molto mia figlia e dove c’era un rapporto tra la musica e la versificazione – il modo in cui tagliava le parole la cantante – che mi era piaciuto molto. Non era tanto il testo che mi aveva colpito. Si tratta di un qualcosa a cui ho sempre cercato di stare attento, e devo dire che avendo dei figli adolescenti è anche più facile.
NB: Lei è professore universitario oltre che autore: perché ha scelto il percorso della poesia?
MR: Fin da quando ero a scuola, e questo devo dire dalla fine delle medie, tipo a tredici o quattordici anni, ero convinto di voler scrivere poesie. Era dovuto a vari fattori, sicuramente culturali perché proprio a scuola avevo letto della poesia che mi era piaciuta. In Francia si studia solo quella francese e i miei riferimenti erano un po’ quelli classici: Baudelaire, Rimbaud, Verlaine. Mi aveva colpito, come mi colpisce tutt’ora, la capacità della poesia di catturare nella lingua momenti di grande intensità emotiva e di renderli condivisibili. E questo era il punto in cui si intrecciava la dimensione culturale con la dimensione personale. Ero molto attratto dalle lingue. Ho fatto lettere classiche ed ero attratto anche dalla traduzione. Ho sempre tradotto, ma a forza di frequentare diversi autori e facendo l’università ho avuto dei momenti di dubbio sulla possibilità di fare un mio percorso di poesia perché i maestri sono tanti. Ma la cosa sicura è che questa voglia di esprimersi non è mai venuta meno. Altrettanto vero è che non ho mai contemplato – ed è una cosa della quale ho parlato con altri poeti italiani e francesi – l’idea di scrivere racconti. Non ho scritto nessun racconto in vita mia e ogni volta che mi viene l’idea di un racconto, diventa una poesia. Non è il mio stile. Scrivo parecchi saggi e molte poesie, ma non ho un’altra corda al mio arco. Però nella poesia ci metto tanto.
NB: Quindi la prosa è abolita?
MR: In un certo senso, la prosa narrativa è abolita, sì. Anche perché non avrei idea di come approdare a questa forma e come fare per iniettarvi qualcosa di nuovo. Ho l’impressione che la maggior parte della prosa europea, oggi, sia calata su dei modelli che sono già ben consolidati. Leggo e traduco molta prosa. Infatti ora sono imbarcato nella ritraduzione di tutto Calvino e ho tradotto anche Trevisani e altri scrittori importanti. Ma devo dire che amo leggerli, tradurli, commentarli ma non mi danno mai voglia di scrivere un romanzo. Mentre se leggo una poesia, se leggo di un certo poeta o se sento una canzone, ho spesso voglia di scrivere subito dopo. Non saprei dire perché.
NB: Come si dice: “A ognuno il suo“.
MR: Sì. Poi devo dire che nei grandi narratori italiani che citavo prima, essendo loro artisti, non è tanto la materia narrata che importa quanto come loro la dispongono. Resta che non mi viene. Scrivo delle prose poetiche, questo l’ho già fatto sì, ma non spessissimo.
NB: Prima lei ha parlato di espressione e di passione per le lingue, c’è quindi una lingua – che ovviamente non deve essere per forza il francese – in cui lei si sente di esprimersi meglio?
MR: Sono arrivato in Italia nel lontano ’92. E non ero un italianista, non ho studiato italiano a scuola. Ero un germanista, un anglista, leggevo e traducevo parecchio latino e greco per formazione. Se la domanda mi fosse stata posta trent’anni fa avrei sicuramente risposto: il francese. Però oggi come oggi non riuscirei a distinguere, a classificare, a ordinare il rapporto espressivo tra italiano e francese perché spesso delle poesie mi nascono in italiano e se mi nascono in italiano vuol dire che qualcosa dell’espressione è intrinseco nella lingua. Ed è una cosa per me strana anche perché mi è accaduto un po’ tardi nella vita, nel ’93, quando avevo già ventitré anni. L’esprimersi in italiano è nato molto a contatto con i poeti italiani. Spesso i miei figli mi chiedono se preferisco la poesia italiana o quella francese e non so cosa rispondere. Dico loro che l’impatto che hanno avuto – e hanno – i poeti italiani è una cosa sconvolgente.
NB: Ogni lingua ha un impatto su noi e ci dà forma. Soprattutto chi cresce imparando più lingue non sa classificarle a livello culturale. A livello linguistico è diverso perché una persona potrebbe riuscire a esprimersi meglio in una lingua anche se non è la sua madre.
MR: Una cosa che lei dice perfettamente è il fatto che le lingue non sono solo mezzi di comunicazione ma modi di modellare il vissuto. E lo vedo molto con i cantanti perché piuttosto di ridere dei ragazzi che formano una band rock e suonano in inglese, per me c’è da chiedersi perché si sentono autorizzati in inglese a dire o a scrivere o a cantare delle cose che a loro sembrerebbero un po’ insulse in italiano. E questo vuol dire che con l’inglese riescono, nel rapporto ritmo della lingua-ritmo della musica, a fare cose che non riescono a fare in italiano. E questa per me è una chiave. Questo vuol dire che una lingua, se modella la tua sensibilità, non lo fa solo con mezzi sintattici, morfologici e semantici ma anche con modalità ritmiche, cioè il modo in cui il ritmo della lingua riesce a entrare nel vissuto privato. Tanto è vero che quando senti una canzone in inglese, una poesia in inglese, una poesia in italiano, eccetera, hai l’impressione che il poeta o la poetessa abbiano proprio catturato un ritmo tuo. E quando succede, e questo mi succede spesso, mi fa essere contento di essere umano.
NB: Come funziona il processo di scrittura? La sua giornata tipo quando si sente ispirato e vuole solo scrivere?
MR: Faccia conto che essendo traduttore e critico passo la mia vita a scrivere. La mia chiave per la scrittura poetica è il taccuino. Io sono all’antica, e ho sempre con me un taccuino. Sono taccuini di appunti e devo assolutamente scrivere i versi o le idee di poesie per paura che spariscano. Poi ricopio tutto a mano, lascio riposare molto ed è per quello che mi risulta sempre difficile, rispondere alle richieste “Ci fai una poesia su…“. Credo molto a una scrittura ispirata. Scrittura ispirata vuol dire che qualcosa del mondo o della lingua ha fatto effetto su di te.
NB: Quindi un po’ impressionista?
MR: Sì. Riesco a scrivere delle forme chiuse, però l’idea che sia la forma chiusa a dettarmi cosa devo scrivere, non mi è mai successo. Qualche anno fa ho scritto un insieme di sonetti ma era perché il personaggio che mettevo in scena nella raccolta era una specie di cacciatore che nell’attesa delle sue prede scriveva poesie. Quindi era un personaggio fittizio. E la mia grande angoscia è di perdere i versi e ne ho persi tanti nella vita. È successa una cosa un po’ triste di recente. Uno dei miei migliori amici ha fatto sessant’anni e gli ho scritto una raccolta. Me l’aveva chiesto e gliela avevo promessa. Gli ho scritto un libro di ricette poetiche, come per quelle culinarie ma di poesie. E gli avevo che gliele avrei scritte a mano. Lui però è stato derubato nel treno ed è sparita la raccolta. Su questi sessanta componimenti ne ho salvati una quarantina. Questo è un po’ il mio incubo, ecco.
NB: Certo, non si sa mai quello che può accadere. Potrebbe succedere anche con il computer.
MR: Assolutamente. Una cosa che ho fatto quando ho scritto Verticale ponte, raccolta che nasceva anch’essa dai taccuini, poi ricopiati su un quaderno che ho ancora con me. In quel caso le fotografavo e le mandavo a due o tre amici perchè se fosse successo qualcosa le avrei riavute. Questa è l’unica superstizione che ho, sennò non ho ritualità particolari. Magari posso dire che non mi piace molto scrivere in pubblico.
NB: C’è uno scrittore, una band o un musicista che le piace associare o che in generale non smette di ascoltare?
MR: Certo. Ascolto tantissima musica ed è più raro che io scriva mentre ascolto, di solito prima ascolto e poi scrivo. Ma non ho gusti molto originali.
Intanto posso dire d’essere stato formato con la musica classica, e ci sono tantissimi musicisti classici contemporanei che fanno delle cose bellissime come Richter che ha riscritto le Quattro stagioni di Vivaldi – lo consiglio assolutamente perché è sconvolgente –. Poi continuo ad ascoltare tantissimo sia Dylan che Leonard Cohen. Leonard Cohen è molto importante per me. Ho scoperto di recente, tramite un amico, un cantante folk che trovo all’altezza di Cohen per certe cose e che si chiama Hanson. Per quanto riguarda i cantanti italiani c’è sempre stato il dominio di Vasco in casa – in Italia sono situato a Bologna e i miei figli crescono lì –. Ma il cantante che ha cambiato il mio modo di capire la musica italiana e la sua versificazione è stato De André. De André è stato decisivo. Avevo letto parecchio su di lui ed era uscito, una ventina di anni fa, un cofanetto dove c’erano le sue canzoni con i commenti sulla storia dei componimenti, e c’erano molti racconti di Francesco De Gregori che raccontava come De André creasse le sue canzoni. Mi ricordo di aver provato una forte emozione perché la cosa più stupefacente della vita artistica è che tutto è casuale. Di sicuro noi poeti siamo gente che si prepara tanto e siamo come degli sportivi, sempre a leggere e prepararci, pronti a far accadere il caso. Ma se il caso non viene, se l’ispirazione non viene, ti puoi attaccare al tram, come si dice a Bologna, e non succede niente.
E devo dire che la mancanza di contatto intenso con la lingua, con le esperienze, si sente subito nei poeti. Quando una cosa è troppo fabbricata, purtroppo lo senti. Una cosa che dice un poeta che ammiro e che ho tradotto molto, Eugenio de Signoribus, è: “Le idee per le belle poesie ce ne sono tante, ma di belle poesie ce ne sono poche“.
NB: A questo proposito: perché non ha scelto di tradurre da solo le sue opere redatte in francese in italiano e viceversa?
MR: Verticale Ponte è nato in italiano. Ho chiesto anche ad amici che lo volevano tradurre in francese di non farlo perché non lo voglio tradurre in italiano. Icaro è un po’ diverso. È una raccolta che ha avuto successo ed ero stato scelto da Einaudi negli anni 2000 per far parte dei giovani poeti italiani. La traduzione era stata fatta da Fabio Scotto, traduttore di Bonnefoy, quindi un bravo traduttore. Ma aveva tradotto solo la prima parte, mentre l’altra che abbiamo tradotto con Deotto e Mazzoli è una parte molto impegnativa. Dunque sapevo che il giorno in cui mi avessero chiesto di tradurre le mie poesie in italiano avrei pensato a questo libro (Icaro). Poi devo dire che mentre questo processo era in atto, il conflitto in Ucraina ha fatto nascere una nuova poesia. Ed è un po’ questa che poi ha aspirato il resto nell’idea di fare un libro il cui eroe è un Icaro metà greco, metà europeo e metà ucraino. Così il libro regge. Regge, però, in un modo diverso dall’Icaro francese. Ero contento di lavorare con dei traduttori che sono dei bravissimi poeti, insomma dei poeti di qualità, di altissimo livello. Francesco Deotto è un bravissimo poeta, anche premiato. Io nella vita ho avuto moltissima fortuna, molta. Perché non c’è motivo per cui un poeta francese possa attirare così l’attenzione degli editori italiani. Mi ritengo molto fortunato. Molto.
NB: Un’ultima domanda: Verticale Ponte è nato da una discussione con sua figlia ed è scritto in italiano. La cosa interessante è che questa raccolta è emersa da un processo simile a quello del libro di Jelloun, Il razzismo spiegato a mia figlia. Naturalmente è una riflessione sull’arte della poesia stessa. In che modo quindi la poesia può rivelare verità universali e personali che altre forme d’arte non riescono a esprimere?
MR: Ognuno di noi ha provato l’emozione sconvolgente di leggere o sentir leggere una poesia. È un’esperienza comune, così come l’affinità elettiva che nutriamo per i nostri poeti – e i nostri cantanti –. Questa emozione è singolare: rappresenta, senza dubbio, un’esperienza profonda del ritmo del linguaggio, un’esperienza del mondo e un’esperienza del soggetto attraverso cui si gioca qualcosa di decisivo. La poesia costruisce il senso nel ritmo della lingua o delle lingue – questa esperienza è universale –. Il paradosso è che nasce da un’esperienza individuale – un ricordo, un profumo, un rimpianto, un incontro che appartiene solo alla persona che lo vive –. Per questo è giusto dire che la poesia trasforma il linguaggio in un ricordo per tutti. E che lo fa con strumenti semplici e sofisticati allo stesso tempo che possono essere condivisi. È davvero un miracolo. Questo miracolo è l’essere al mondo, l’essere nel linguaggio e l’incontro prodigioso di questa doppia esperienza, che non è una sola esperienza perché è il fondamento di tutte.
La foto di copertina è di Dino Ignani, Roma 2024