Tre domande ad Antonio Francesco Perozzi su Lo spettro visibile (Arcipelago Itaca, 2022). A cura di Franca Mancinelli.
Franca Mancinelli: La parola con cui si apre questo libro, così importante da comparire da sola, nella pagina bianca, è «obbedisco». Torna poi in questi versi della prima sezione: «Obbedisco / e c’è un cane levriero a scucire / ordalia per ordalia questo buio». Ho pensato all’obbedienza a un richiamo, a una forza vitale simile a un istinto. Scrivi poi nella poesia Viandanza: «obbedire equivale / a cercare, viandare tutto»; «chi obbedisce / al disordine, guarda di traverso e ricorda» (Pianta, animale, vortice, Dio). L’obbedienza è legata a una modalità del vedere, a una possibilità di visione che chiede, allo stesso tempo, una cecità? La cecità è una condizione che torna più volte nei testi iniziali e che è legata alla nascita. Mi viene in mente, anche, l’obbedire ciecamente.
Antonio Francesco Perozzi: Sì, la sovrapposizione paradossale tra visione e cecità è un nodo centrale nel libro. Questo vale soprattutto nella prima sezione, dove si compie il passaggio dal buio alla luce: si tratta di un grimaldello tematico che ho usato per introdurre l’esplorazione degli esseri animati e inanimati di cui si sostanziano le parti successive del libro. Come dire: squarciato il velo, si espande la realtà nella sua invadenza sensoriale e materica.
Un secondo livello che avevo intenzione di suggerire, però, riguarda all’opposto la cecità di ciò che è esposto alla luce. Vorrei che questi concetti passassero con un valore il più possibile immanente: parlo di luce in termini elettromagnetici, di esseri biologici, corpi. La cecità coincide con il cono d’ombra richiamato dialetticamente, in re, dallo spettro della luce e dagli oggetti che appaiono in questo spettro. Cecità e visione è del resto un titolo di Paul De Man: l’inconciliabilità del reale in se stesso applicata alle sue manifestazioni fenomeniche. In questo senso i due poli si scambiano continuamente, e l’obbedienza dell’incipit è un modo per tenere unito il paradosso: mette tra parentesi, come si dice, la domanda ontologica; opta per una disposizione di ricerca, che si muove verso l’oggetto e cerca di non reggersi su un già previsto, e perciò prevedibile, suo assorbimento.
F.M.: Ne Lo spettro visibile mi sembra che la forza si concentri con particolare intensità nelle prime due sezioni. Qui è come se aprissi uno spazio in cui poi si edificherà il progetto del libro. È uno spazio psichico che definisci come «fondale», così si intitola la seconda poesia. Questo spazio dove agire o meno è «identico dal momento / che non si può, non si può incidere / la melma nera» si riferisce anche alla condizione storico sociale in cui ci troviamo?
A.F.P.: Come giustamente osservi, le prime due sezioni sono preparatorie ma non ancillari, tracciano le coordinate in cui si muoverà, poi, l’esplorazione. E dal momento che l’esplorazione ha a che fare con la luce, ho pensato di avvicinarmici in negativo attraverso un passaggio oscuro, seguendo ancora il gioco tra cecità e visione. La ragione di questo passaggio è quindi tematica e strutturale, ma anche meta-testuale, visto che rappresenta un ponte con il mio libro precedente, Essere e significare. Quello, di forte impronta meta-, si chiudeva con una nota di inconciliabilità tra oggetto e parola, da cui, per uscirne e aprire agli esseri, mi serviva l’epochè fenomenologica, l’«obbedisco», che è essenzialmente il tema delle prime due sezioni.
Quanto invece all’aspetto storico-sociale, comincio col dire che il buio che apre il libro non è simbolicamente, puntualmente, corrispondente a una situazione storica cupa. Niente nel libro, almeno nelle intenzioni, ha una volontà rappresentativa, e lo sforzo è stato proprio quello di spingere la scrittura il più possibile verso la “nudità” dell’oggetto. Tuttavia mi è capitato più volte di dire che il libro ha anche una cifra politica, e quindi storica, benché in filigrana. Più che le prospettive anti-antropocentriche, ecologiche e antispeciste, pure presenti, questa riguarda l’innesto problematico tra scienza e poesia: lateralmente, ma spero con qualche utilità, lo Spettro fa scontrare un sapere tecnicizzabile, capitalizzabile con un altro immaginativo, precario e multipolare. Da qui, tutta una serie di discorsi sul rapporto tra conoscenza e trasformazione della realtà, scienza e storia.
F.M.: Nelle poesie de Lo spettro visibile coesiste infatti lo sguardo della scienza, di cui adotti anche la lingua, a volte specialistica, e lo stile di argomentazione (penso per esempio a Inconfutabilità del tarassaco), e allo stesso tempo una tensione verso una conoscenza attraverso il buio, istintiva, prerazionale, aperta a una sacralità percepita nella materia: «viene al sole / per intercessione di api, la veccia,/ persona entomofila, creatura / di un dio che senza scienza sapeva», così si conclude la poesia Orgia. Come vivi questi diversi sguardi, quali letture li hanno nutriti e come coabitano nella tua scrittura e nelle diverse sezioni di questo libro?
A.F.P.: Dicevo, appunto, che il libro cerca di aprire un’area di collisione tra due forme di conoscenza per molti versi incompatibili: da una parte la misurazione, la geometria, la tassonomia della scienza; dall’altra l’immaginazione, la giustapposizione, la curvatura linguistica della poesia. Queste due spinte nel libro si scontrano in vari modi: la poesia che ruba gli oggetti alla scienza, il lessico e la sintassi scientifica straniate in un contesto non-logocentrico, l’alternarsi di soluzioni agglutinati (le forme metriche tradizionali) e frammentanti (il cut-up, l’alterazione grafica). Le letture che più o meno consapevolmente ho fatto riversare nel libro sono sicuramente prova di questa contaminazione: posso indicare Merleau-Ponty, Darwin, Einstein/Infeld per quanto riguarda il corpo, le specie, la fisica; Eliot, Sanguineti, Lucrezio per una poesia materialista. Ma più delle mie letture, mi piace intendere questa compresenza in termini – per quanto possibile – di zeitgeist, non solo personale. Mi riferisco alla tendenza a sovrapporre, oggi, scienza e conoscenza, e alla parallela incapacità della letteratura di produrre sistemi gnoseologici in grado di competere con quelli scientifici. Cosa succede, a fronte di questa situazione storica, se porto la mathesis dentro lo spazio ambiguo della poesia e l’indecidibilità del poetico in quello architettonico della scienza? Questa è la domanda che avevo in testa.