La seguente intervista a Stefano Raimondi su L’Antigone. Recitativo per voce sola (Mimesis 2023, prefazione di Chiara Zamboni, postfazione di Niccolò Nisivoccia, illustrazioni di Mario Cresci) esce in anteprima ed è tratta dallo Speciale numero 2 di “Laboratori critici”1 dedicato a Ritratti di Poesia 20242, il festival promosso da Fondazione Roma, organizzato da Fondazione Roma in collaborazione con InventaEventi e diretto da Vincenzo Mascolo.
Vernalda Di Tanna: Sin dalla copertina, ciò che maggiormente salta all’occhio è una piccola distorsione grammaticale, ovvero la presenza dell’articolo determinativo posto davanti al nome dell’eroina. Forse un sintomo, questo, della volontà di distaccarsi immediatamente dall’originale sofocleo. Raimondi, potrebbe raccontarci qualcosa circa la struttura del suo recitativo e indicarci quali sono stati i criteri adottati per la collocazione delle illustrazioni di Cresci all’interno dell’opera?
Stefano Raimondi: L’articolo determinativo è una stortura, un errore, una sgrammaticatura nell’armonia di un’interpretazione canonizzata del mito. L’Antigone è una donna, è una voce, è un corpo capace, in questa narrazione, di attraversare i secoli, facendosene carico. È un gesto fisico, dunque, questo articolo determinativo che la porta ad essere un personaggio non egoista, né votata alla morte, ma una temperanza che produce coerenza e speranza. A mio parere tenta una conciliazione proprio tra la vita e la morte, concedendo alla sua disubbidienza un’opportunità di riscatto dalla morte stessa. Non muore per la condanna di Creonte, ma per un suo gesto anticipatore: un atto che scardina il potere, rivendicando una scelta che implica un dolore nato per amore. È un corpo di corpi innamorati, anche se qui, la sua “schifezza”, ha una genia lontana: una padre-figlio e una madre “inferriata”. La struttura è per frammenti lavorati in una prosa poetica gestita sul “levare”, che ne convalida l’essenzialità tematica. Un dettato scritturale architettato su uno sviluppo epifanico di scene nelle quali, è la Storia, a raccogliere la sua storia. Gli interventi iconici lavorati e donati da Mario Cresci sono la restituzione di un ascolto e dunque di una relazione d’intenti tra l’artista e l’opera, tra l’uomo e l’amicizia. È stato per me un libro sorto da una coralità di presenze amicali e confermata da una generosità che ha trovato, anche nell’affondo filosofico di Chiara Zamboni (prefatrice) e nella perlustrazione umana di Niccolò Nisivoccia, un territorio dove confrontarsi e crescere. Da questo coro è nato poi anche un movimento: la sua messa in scena a cura e con Marta Comerio e le musiche originali eseguite dal vivo di Johannes Bickler.
V.D.T.: Sappiamo che numerosissime sono le riscritture di questa tragedia. Quella che mi ha impressionato di più porta la firma di Jean Anouilh; una delle ultime battute che il drammaturgo francese ha messo in bocca alla sua piccola magra Antigone è tanto straziante quanto disarmante: Non so più perché muoio. C’è una riscrittura di Antigone che l’ha colpita particolarmente? E perché?
S.R.: L’Antigone non muore mai definitivamente, ma smette “di vivere recisa” e questo è il suo punto di svolta, il suo gesto etico. Un gesto etico, infatti, inizia perché nasce da una scelta e scegliere è sempre rendersi responsabili di ciò che si decide d’essere e di fare. Ho letto la riscrittura di Jaen Anouilh tempo fa e prima quella di Bertolt Brecht, cogliendo appieno le loro contestualizzazioni politiche e temporali, allora come ora, sempre necessarie. La tragedia sofoclea ha questo d’importante: perdura nella sostanzialità della sottrazione, persevera nella reazione contro le privazioni delle libertà, quasi fosse un antidoto contro i poteri forti, contro le prepotenze e le chiusure che i fascismi intentano, in ogni epoca, per cercare degli anfratti che li faccia, in qualche modo, sopravvivere ancora.
V.D.T.: Le parole di Antigone sono sempre trivellanti, ne ricalcano le scelte e l’ostinazione; quella di Antigone è una parola contraria, e lei nel suo XII frammento scrive che ella conosce gli amori cresciuti male. Può commentare questo frammento?
S.R.: Antigone è frutto di un incesto, di una stortura di “amori cresciuti male” appunto. Ma è colei che sa che l’amore è anche una privazione e nel suo caso, un tabù da sconfiggere, da sostenere contro la violenza degli abusi, cercando di renderlo libero dal silenzio impaurito del controllo. È una donna reclusa, deprivata della sua possibilità di vivere e di viversi. Per questo diventa una disobbedienza. E tutto ciò lo rivela da una solitudine sociale perché, non dimentichiamolo, lei è una cancellata non solo dal potere di Creonte, ma dall’amore stesso: è frutto di un amore sbagliato. È questo il suo inizio, è questa la sua Tragoedia. Tutto ciò, L’Antigone, lo rivendica da un corpo, da una riconoscenza e da una fiducia che ancora la fa essere predisposta a credere che la città e gli déi possano, presubimilmente, volerle bene, nonostante tutto e nonostante il tutto. L’Antigone non è affatto chiusa, né solo innamorata della morte, ma generatrice di una scelta che, continuamente interrompe il corso del fato.
V.D.T.: Dunque, prigioniera di Creonte e del fato, Antigone rivendica la sua sessualità e il suo corpo. “Prigionia” e “sessualità” sono due termini che se accostati, ora, evocano un tema di attualità scottante, quasi un tabù: quello del diritto alla sessualità in carcere. Cosa ne pensa?
S.R.: Ho sempre cercato di capire come un corpo imprigionato in una condizione di estrema coercizione possa vivere la propria sessualità. Il corpo sessuato è un corpo in movimento, in attrazione, in desiderio: un corpo che per antonomasia, non è mai rinchiuso ma evidente, espressivo, volitivo. Esso strappa dalla quotidianità la patina dell’abitudine e s’immette nella potenza della convocazione dell’Altro. È questo a restare il suo passo primo nella gestione dell’esistere. Ho sempre pensato, inoltre, che la sessualità faccia parte del percorso di sé, quella traccia che ciascuno dovrebbe comprendere per diventare ciò che più, nella sua natura, assomigli alla sua esistenza, alla sua disperante vitalità. L’Antigone che ho partorito è un corpo desiderante, esplodente, capace di esprimere il suo essere un ostacolo evidente e contrapposto al gesto violento di una legge che, dell’umano ancora non vuole trattare.
Note:
1 Vernalda Di Tanna, Stefano Raimondi, di penna in penna, in “Laboratori critici”, Serie speciale n.2, marzo 2024, p. 72-76.
2 Il programma della manifestazione può essere scaricato QUI. Approfondimenti su alcuni autori invitati all’edizione 2024 possono essere letti su laboratoripoesia.it, QUI.
Tra gli invitati all’edizione 2024 anche Vincenzo Della Mea con Clone 2.0 (Samuele Editore-Pordenonelegge, 2023, collana Gialla). Un testo sul libro, a firma di Alberto Garlini, è apparso su pordenoneleggepoesia.it l’11 ottobre 2023, QUI.
Un altro articolo d’interesse sul tema di Clone 2.0 apparso su pordenoneleggepoesia.it è: Vincenzo Della Mea, Intelligenza Artificiale Generativa e creatività, 22 novembre 2024, QUI.
In questo speciale di “Laboratori critici” dedicato a “Ritratti di Poesia” si sono occupati di Clone 2.0 Francesco D’Isa, Chatbot AI, un equivoco tutto umano (p. 77-79), e Damiano Cantone, Poesie autentiche e poesie artificiali (p. 80-83).