«Poesie come persone» recita una celebre espressione di Vittorio Sereni per inferire quanto la costruzione del verso necessariamente comporti un’epifania dell’Io, di una visione del mondo, ma altresì della modalità stessa del poetare. La poesia dice ciò che è ed è ciò che dice: vi è dunque un rapporto biunivoco e simmetrico tra la realtà che essa contribuisce a narrare e la modificazione che subisce ad opera della realtà. Ma dov’è, come si costruisce, su quali elementi aggetta il senso di una poesia? Su queste considerazioni il critico letterario e saggista Roberto Galaverni ha intrapreso un accurato discorso di scavo e di profondità nel verso prendendo come cifre dello stesso otto autori del Novecento italiano, da Eugenio Montale a Fabio Pusterla, da Vittorio Sereni a Franco Fortini, da Andrea Zanzotto a Remo Pagnanelli passando per Valerio Magrelli e Milo De Angelis. Lo ha fatto con Carte correnti – Nove lezioni sul senso della poesia (Fazi Editore, 2023), ponderoso volume di oltre 600 pagine in cui il senso, il significato e la definizione di poesia vengono enucleati seguendo diverse direzioni, a seconda dell’autore prescelto.
Si tratta, come bene è evidenziato nel prologo che apre con illuminanti considerazioni la polimorfa, approfondita esegesi, di una «fissazione», di un ritorno, per Galaverni, su quei punti che già in passato lo avevano visto cimentarsi con particolare acume (si pensi al testo Difesa della poesia apparso ormai svariati anni fa). Dunque, più che il «cosa» conta il «come», più che l’intenzione conta il senso del dire e del dispiegare la scrittura in versi. Ma se la poesia è per sua natura «anfibia», difficilmente inquadrabile, sfuggente a un tratto come la verità (a portata di mano eppure irraggiungibile) nonché figlia della necessità e della scelta, ecco che un componimento come L’anguilla di Montale, il primo dei testi presi in esame nel volume in oggetto a cui si aggiunge Barche sulla Marna dalle Occasioni, si presta al meglio a passare sotto la lente d’ingrandimento critico. L’anguilla, che altro non è se non l’anagramma di «la lingua», è insieme figura ittica, paradigma e allegoria di un universo poetico che sconfina nella metafisica. Un componimento «perfetto» nella sua integrità, privo di sbavature o disomogeneità, autosufficiente nella sua oggettività, certamente un unicum nella produzione montaliana e per interazione tra i suoi elementi costitutivi e per lo stile. E a proposito di stile non ci si può non ricollegare, citando L’anguilla, a un altro poeta, in questo caso vivente, che pure da Montale ha preso in qualche misura le mosse per realizzare L’anguilla del Reno, i cui temi e stilemi vengono analizzati con dovizia di particolari accostando ora questo elemento ora quell’altro alla più conosciuta poesia del ligure. Parliamo dell’italo-svizzero Fabio Pusterla per il quale si amplia la gamma dei temi affrontati assumendo l’importanza della catastrofe ecologica, ma soprattutto del valore del passaggio, del transito tra un prima (la sedimentazione in lui delle esperienze poetiche dei grandi del passato) e un dopo in cui egli ha saputo far fruttare quel grumo di elementi addivenendo a un testo denso e fitto di iterazioni e rimandi che lascia aperta in explicit «un’utopia». Passaggio come centro del narrare in versi, passaggio come modalità di concezione di una poesia che non approda a una riva, a una sponda specifica bensì è in continuo divenire, tra realtà e visione/immaginazione, continuità e rinnovamento, che non si lascia irreggimentare, e in ciò sta la cifra simbolica più pregnante di questo autore.
Si inoltra invece nei territori della cartografia, alla ricerca di una correlazione, di un collegamento concreto tra nome e luogo, con una sapiente e complessa operazione di metapoetica lo studio di Valerio Magrelli di cui si prende come riferimento Porta Westfalica, dove intellettualismo, elaborazione concettuale, ricerca del nome stesso per trovare l’io acquisiscono una notevole solidità strutturale. Il poeta romano, da sempre attento a frugare, compulsare, sviscerare anche su riviste telematiche, mantiene un vivacissimo spirito critico che non lo allontana dal concreto verso territori figli di astrazioni, ma lo immerge semmai ancora più positivamente nella realtà, vivisezionata con cura. «Se il processo di formalizzazione poetica – come voleva Montale (…) consiste nel ‘cristallizzare in un senso o nell’altro il flusso della vita» – scrive Galaverni – in Porta Westfalica Magrelli ha cristallizzato, cioè posto in condizione di arresto per poterla significare, la fuga del senso a elica, l’e così via all’infinito del senso-trottola».
Dalla metapoetica ai territori dell’auto-illustrazione ecco un altro protagonista della poesia, il marxista eretico Franco Fortini che in A Boris Pasternak mette in scena un’architettura in cui forma e sostanza coincidono. Per il fiorentino, intellettuale impegnato su più fronti sempre con arcigna convinzione, il verso «non muta nulla», è fisso in re ipsa, di più. Vi è una sproporzione tra fissità e movimento laddove la prima è connotato certo e inequivocabile. Chi scrive poesie, in buona sostanza, il «messaggero» come lo ha definito in più occasioni, non è altri che colui che si impegna in una terra di nessuno, «in questo luogo possibile-impossibile».
Un altro senso da ricercare nella costruzione poetica è quello che si rintraccia in Vittorio Sereni, nome tra i più significativi contenuti in Carte Correnti, per il quale, prendendo a prestito «La malattia dell’olmo», si raggiunge una sorta di corrispondenza, di rapporto elettivo, di ideale identificazione tra la natura umana e quella dell’albero. L’incipit muove da una sorta di dialogo interiore, tra sé e sé, per poi riprendere a navigare su territori da sempre a lui congeniali, quelli della memoria (una presenza fissa della poetica sereniana fin dalla raccolta Frontiera del 1941) e della tenerezza, come bene evidenza Galaverni, il quale conduce poi il discorso circa il poeta luinese su ambiti ancora più diversificati. Sempre nel lungo saggio a lui dedicato l’autore si chiede, ad esempio, quanto lirismo viva nei versi di Sereni, quanto di artatamente risolto in sé stesso, privo cioè di semplici dati personali, accadimenti quotidiani, quanto, ancora, di antinarrativo nella sua pur non notevole produzione in versi arrivando a individuare alcune specifiche «ambiguità» connesse a uno stile in chiaroscuro.
Più sopra si è considerata la natura «anfibia» della poesia ed ecco che argomentare così significa introdurre un poeta che dell’ambivalenza, della «ruminazione mentale» ha sigillato il proprio incedere in versi: si tratta di Andrea Zanzotto, intellettuale sempre lucidissimo, capace di portare l’universo mondo nei suoi componimenti. Carte Correnti esamina segnatamente Il Galateo in bosco, raccolta comparsa a metà anni Settanta in cui si scontrano l’elemento del bosco e della sua «interfaccia» della natura e il galateo, identificato con la cultura: selvatichezza, libertà contro regole, direzioni. Senza addentrarci vieppiù in un turbinìo di considerazioni che pure il volume pone all’attenzione del lettore, ci sembra sufficiente asserire in questo caso che l’esperienza, il senso della poesia nel poeta veneto è tutta incistata nella relazione tra di essa e la vita, come larga parte della critica letteraria contemporanea sostiene, si prenda il caso ad esempio di un Massimo Onofri.
Remo Pagnanelli si muove su altri terreni, forse ancora più franosi, che portano da un lato al pessimismo leopardiano da cui fu indubbiamente influenzato e dall’altro in direzione dei simbolisti francesi da cui rilevò alcuni accenti con richiami, peraltro, anche danteschi: il «cimitero di guerra», il confine, l’oltre, tutto ciò che sta come spartiacque, come linea di cesura e di separazione, tutti temi ricorrenti quasi ossessivamente nella sua produzione, conducono a concludere che in lui, in senso assoluto, riscontriamo una «scrittura della cancellazione», un percorso intellettuale che osserva la vita, la natura da un luogo altro (in ciò recuperando la più difficile e ardita lezione di Giorgio Bassani che sapeva osservarsi dall’esterno) sì che il senso del viaggio e anche della poesia è qui, ma perché orientato al di fuori, oltre.
Ad anticipare l’epilogo del volume sta la riflessione sulla poesia di Milo De Angelis con specifico affondo su Cartina muta: in questo poeta, tra i maggiori viventi, c’è un’aporia di fondo poiché la parola dice e non dice, in questo componimento che è poesia della poesia, dunque una metapoesia che riluce anche per la «presenza» di una protagonista come Nadia Campana (nome peraltro mai esplicitato tra i versi seppur a lei dedicati). Il contrasto tra il dicibile e l’indicibile, il possibile e l’impossibile, la constatazione della verità e la sua reticenza appaiono elementi dominanti nell’osservazione e ancor più nella decifrazione del narrare.
Per chiudere, come considerare allora la poesia, qual è la natura a essa più congeniale, se ve n’è una? Galaverni, nell’illuminante prologo, ricorre all’immagine iconica di una pietra d’angolo, che sorregge un intero edificio. Ma le poesie, per tornare all’incipit di questo articolo, «sono come persone»: sono in gioco, dunque, le sensibilità e l’oggettività, la giusta miscela di ordine compositivo e di giustizia, il valore del linguaggio che va tenuto in conto. Tutto ciò perché la poesia non è forse una lingua speciale o straniera, ma una lingua diversa che pure, tuttavia, si esprime attraverso le forme della comunicazione umana, al di là di ogni specificità: è talvolta un mostro, talaltra un ircocervo, ma sempre musica, come ogni arte che può segnare un tratto dell’esistenza personale e collettiva.