In diversi libri di poesia usciti negli ultimi anni, specie tra gli autori più giovani, vi è un più intenso riferirsi alla dimensione biologica e neurocognitiva dell’essere umano, al suo essere incarnato e situato nell’ambiente (per esempio, accostando nella stessa scena eventi che coinvolgono particelle elementari a altri di natura cosmologica o geologica, o scomponendo il percepire nella sua materialità organica e inorganica). Sembra emergere un’idea di poesia come un’esigenza cognitiva della specie, dal momento che, nel leggerla, si compie un rito fossile, in cui la voce di un uomo entra nel corpo di un altro tramite il suono del pensiero. Nella mente è infatti il suono a consentire l’accadere del pensiero, innervato nella lingua, poiché è presente già nel momento in cui si formano la sintassi e il lessico. Da questa materia sonora e linguistica chi ascolta prende coscienza del suo sentirsi vivo, poiché è tutto il corpo a protendersi per l’inclinazione naturale a imitare il movimento e il ritmo. Leggere una poesia è muoversi nello spazio per percepirlo con la materia sonora cosciente. E questo incarna l’agire dell’essere umano.
Condividi questo scenario? Quali di questi aspetti ti interessano di più nel fare poetico tuo e degli altri? Quali possono essere gli effetti sulla lingua dell’attenzione alla dimensione biologica e cognitiva dell’uomo? Ti vengono in mente degli esempi? Quali libri, non solo di poesia, hanno sollecitato la tua riflessione su questo argomenti?
Campo aperto (Amos Edizioni, 2022) è stato scritto e allestito a partire da una volontà formale e progettuale che non desiderava ingabbiare gli stati emozionali in una linea narrativa vincolante. A differenza del libro precedente (Misura, Lietocolle-Pordenonelegge), in cui l’utilizzo del distico e la coerenza narrativa innescavano il moto di scrittura, in questo lavoro ho sentito l’esigenza di lavorare come se la poesia fosse innanzitutto uno stato di percezione, un’anomalia delle sensazioni rispetto alla nostra comfort zone percettiva quotidiana. Ogni singolo testo, dunque, ha una storia a sé; ciò che li tiene uniti è proprio il tentativo di un’alterazione dello sguardo: tra una poesia tesa all’identificazione del lettore e una che costringe allo spostamento, trovo il mio luogo in quest’ultima. La lirica di apertura, Insetti I, ben si presta a descrivere la modalità straniante che è alla base di ogni testo. Come indicato da Carmen Gallo nella nota finale, i «calabroni arrivano in anticipo, a fine inverno, a indicare un ciclo naturale dissestato, e sbattono contro le finestre costringendo chi guarda a interrogarsi su quale dolore provino e a negoziare lo scontro tra le specie, mentre è evidente la loro indifferenza per l’umano che si agita, ha paura».
Alcuni dei riferimenti letterari a me più cari, italiani (Fortini, Rosselli, Mesa, Benedetti) e internazionali (Ashbery, Carson), ma anche classici (Leopardi, Kafka, Beckett), hanno in comune – nella grande varietà delle opere – proprio questo: la necessità di usare la scrittura non come forma di espressione idiosincratica e personalistica, ma come campo di possibilità inespresse, anche a costo di uno sguardo fermo sul negativo.
Il titolo stesso, Campo aperto, allude a uno spazio della possibilità, che è in definitiva l’attenzione a modi di esistenza alternativi, anche solo attraverso una negazione feroce di quelli vigenti. Nasce da un verso della poesia eponima, seconda della raccolta, che rappresenta al meglio l’esigenza di apertura.
L’apertura allusa nel titolo è anche formale. Nel libro la maggior parte dei testi è in versi; sono presenti due soli brani in prosa. Penso che la contraddizione della modernità poetica vada assunta senza scappatoie: la poesia resta un genere che si fonda sulle proprietà ritmiche del linguaggio. Svincolata ormai da una norma (che, fortinianamente, era anche una norma sociale e politica), ha ora la possibilità di continuare a sondare queste proprietà con una inquieta libertà, agognando una nuova norma e contemporaneamente sottraendosi ad essa. È la nostra contraddizione, non ne vedo di nuove all’orizzonte. A differenza dei miei lavori precedenti, penso che in Campo aperto sia maggiore la coscienza di questa contraddizione, e più maturo – al di là dei risultati – l’approccio al verso libero.
Viviamo in un’era elettrica. Non sono però del parere che il momento più importante sia quello della diffusione (carta o schermi) per valutare il peso che i media hanno sulla scrittura. Seguo in questo la prospettiva di un poeta e studioso che stimo molto, Gabriele Frasca, che ha cercato di spostare l’attenzione andando a monte: un medium agisce innanzitutto sul momento della produzione. Da questo punto di vista, le scritture poetiche contemporanee rappresentano gli esperimenti più interessanti in ambito letterario.
Ci si augura sempre che un lettore, preso in mano il libro che si è scritto, kafkianamente riceva «un pugno che ci martella sul cranio […]. Un libro deve essere un’ascia per rompere il mare di ghiaccio dentro di noi». Mi piacerebbe vedere nell’avventore della domanda l’espressione di questa rottura.
In copertina: opera di William Kurelek, The Maze, 1953.