Dove sono gli anni di Gian Mario Villalta (Garzanti, Milano 2022), non è solo una raccolta di poesie, ma un’opera di originale struttura, composta da due sezioni. La prima si intitola “Dove sono gli anni” e la seconda “La solitudine della specie dominante”. La prima parte spiraliforme è composta da quindici stazioni o movimenti, con ciascuno sei componimenti, l’ultimo separato dai precedenti da un segno grafico, una spirale che ricorda la forma di un nautilus.
Questo simbolo richiama una stratificazione densa di temi, di forme della temporalità e della soggettività, dove la domanda sul senso dell’esistere, sul suo trascorrere e sulla finitezza della vita umana non è rettilinea ma circolare e stratificata, cioè ci obbliga a passare e a ripassare attorno a momenti, occasioni della vita, che ci hanno strutturato ma anche destrutturato e ci strutturano e destrutturano ancora, come continueranno a fare. Tali momenti sono come dei fotogrammi della nostra vita che si ripresentano circolarmente, casualmente, anche senza l’appoggio della memoria.
Le stratificazioni spiraliformi del tempo sono anche sedimentazioni della soggettività, risultato di erosioni di un senso pieno, compiuto della vita, soprattutto erosione di un io, che non vuole più viversi come dominante e separato dal resto dei viventi.
Il guadagno di questo lavoro di erosione e di sedimentazione è quello di portare a sentirci parte unica con tutto il sistema dei viventi, come si legge nel risvolto di copertina, “sentirsi tutti nella stessa casa, reciprocamente ospiti”, ed è anche quello di farci capire che il lavoro di erosione non è solo perdita, esso ci fa scoprire una “fantastica umanità: agli infelici non è negato il piacere: a chi ha un dolore non è negata la felicità” (dalla sezione “Ancora?” p.154).
Il primo movimento dell’opera è esemplificativo di una delle forme che assume la stratificazione, esso è una sorta di mise en abîme, in cui il titolo – Dove sono gli anni – si ripete circolarmente per tre volte… è titolo del libro, della prima sezione dell’opera e del primo movimento, senza inizio e senza fine, oppure con più inizi e più fini.
Proverò a ripercorrere quanto finora scritto seguendo da vicino il progredire stratificato di alcuni versi dell’opera Dove sono gli anni.
Erosione e sedimentazione del tempo
Sarebbe meglio usare il plurale, i tempi, perché dal tempo come possibilità soggettiva dell’esperienza umana e ad essa connaturato, ci si allarga a interrogare altre dimensioni temporali che debordano la soggettività, come quel tempo che attraversa il sonno come un enigma senza toccare la soggettività, senza farsi memoria, che tuttavia segna il corpo, lo incide, notte dopo notte perlopiù, lasciando lì le sue tracce indelebili. “Attraversano i sonni in segreto senza mai raggiungerti gli anni” (p.11). Le pieghe del tempo che incidono solchi nel corpo, in segreto, quando noi non ci siamo a vegliare. Finitezza della finitezza. È questo un tempo che accade nell’assenza della soggettività pensante e vigile – “Ma dove sono gli anni, tutto quel tempo, non i ricordi, non ‘un senso di…’, non quella scia, quel pulviscolo diverso e impreciso: la vita è quella parte dei minuti che non si lasciano pensare mentre vivi…” (p. 154).
Vi è anche il tempo parzialmente soggettivo dei fotogrammi, velato da un senso di estraneazione, scatti fotografici di una memoria non più padrona del proprio archivio, perché essi si ripresentano al di fuori di ogni atto intenzionale. Cristallizzazioni del tempo andato, eppure presenti, vivissime senza che il loro apparire rientri in una memoria narrante, sequenziale; forse perché non è solo per un atto di intenzionalità che esse si ripresentano, ma come per atto proprio, o evento inaspettato, Ereignis della memoria, per questo non più propria e personale, ma direi universale. Sono fotogrammi iconici e universali perché li abbiamo tutti, scatti della vita da cui siamo guardati e osservati – “Il tempo passa attraverso e pare possa più di una volta. La coppia di cera in cima alla torta fissa tutti da ore” – (p. 23).
Non sono affatto fotografie o copie sbiadite di una biografia, di quella o questa biografia, anche se una foto esiste “…tua madre / che porta una bimba sul fianco, ancora in posa / in ciabatte, come sono restate dietro di voi / le rame – senza le rose – che girano l’angolo /… Gli anni sono passati siete sempre lì tutti. / Il bambino con la maglia a righe saresti tu” (p. 22).
I fotogrammi, la maglia a righe, la roggia, i salci... ritornano non rievocati; se la vita fosse un film da noi diretto e anche recitato, la scrittura poetica potrebbe essere un continuo montaggio e smontaggio filmico di fotogrammi che svelano l’illusione di una consequenzialità o di una direzione della vita, che esiste invece solo come arbitraria e momentanea scelta narrativa.
Se il trascorrere del tempo è l’illusorietà di una narrazione costruita dal nostro io qui e ora e se molteplici altre sono invece le forme del tempo e della soggettività, qualcosa, un chi ci dice che noi siamo ora e in questo luogo ancora sempre gli stessi dell’ora e qui di un’altra volta, quella dei salci, della maglia a righe, di una morte ancora da venire o già avvenuta prima che accadesse… Siamo anche lì, nei fotogrammi della nostra vita, pronti a essere ancora seppur diversi da prima: “Ancora la maglia a righe, il fosso dell’acqua stagna, chi grida / che è morto tuo fratello se ancora non è nato, /se i salci lo sapevano già /…” (p. 33).
Chi poeticamente ci dice che la vita può avere più narrazioni, più inizi e fini dispersi; a contrassegnarli un ancora, quintessenza della nostra finitezza, disegnata non più da un segmento unidirezionale a termine, ma da una spirale, dove l’orizzonte che ci attende talvolta si sa già e il passato non ancora.
Sedimentazioni della soggettività
La stratificazione di tempi e le sedimentazioni della soggettività nel tempo, intrico inestricabile, trasformano l’io in molteplici tu, tra cui: “Più tardi sei fatto gente tra gente, il sosia riuscito, finalmente, il tu assoluto, assolto, e all’altro la voce, le mani, la voce soltanto” (p. 13).
Le mani e la voce, soltanto, appaiono come il risultato di un’erosione felice, dove il tatto e l’ascolto aprono un varco, un posto per l’altro, l’altrove dal mimetismo e dalle connessioni che hanno sostituito le relazioni nei tempi moderni.
Altra sedimentazione… quel tu che si è sentito compreso dalle parole di un altro poeta (“…Tu non capisci tutto / ma sei sicuro che capiscono te / le parole che un uomo ha scritto…” p. 31). È un atto poetico, di cultura, di civiltà e di cura per eccellenza questa riconoscenza verso chi siamo diventati grazie alle parole scelte di altri, da cui ci siamo sentiti compresi.
E ancora, siamo in una diffrazione di sguardi respinti dallo specchio del passato. “Da sempre domandàrme, / questionàr chi l’è mi, quando ti / te sé ti, te sé ti, te sé ti / Stupido” (p. 77). Chi è il soggetto interrogante? Situ chi? Interrogazione ancor più disarmante perché introdotta con i suoni e le parole secche del dialetto.
Chi è il soggetto. Io sono Chi, esito di un’erosione feconda. Questo lo strato o la sedimentazione della soggettività senza io – inconscio potremmo dire, se non fosse un termine abusato – che è l’effetto di una profonda bonifica dell’io, che ci fa guadagnare la possibilità di dialogare con chi si è stati e si sarà, facendoli vibrare d’esistenza (“Se penso al tempo mio diventa ora di tutti / – il tempo – se mi perdo nel tempo ridivento io” – p. 35).
Intravisto appena nel tu che e nel chi questo strato opaco della soggettività che attraversa i tempi molteplici anche non intenzionali della nostra esistenza, possiamo osservare un’altra dimensione della soggettività, quella del noi, di un’infanzia senza separazioni, dove non vi è un tu a cui rivolgersi, perché il chi di allora era in simbiosi con il mondo, da cui si lasciava tatuare, tanto vivo ed esposto era il corpo alle impressioni del vivere. “La pelle più che comprende: si lascia tatuare / dall’immagine che si apprende / ardendo lo sguardo coerente al fermento / che forma la mente, all’inizio del vivere…” (p. 41).
C’è anche una consapevolezza del noi, dello stare insieme come di un privilegio che avvertiamo perché scopriamo di averlo dato per scontato negli anni dell’isolamento sociale dovuto alla pandemia “… / solo io ancora vivo: che inferno sarebbe, / solo io prigioniero di tanto bendidio? / … / la parola, ancora, percepibile / al tatto, torna al mittente / a occhi chiusi / (gli altri sono anche l’inferno, sì, sono / anche tutto, però)” (p. 135).
Infine, (ma molte altre sfumature si potrebbero trovare con una capacità di lettura più esperta della mia) troviamo una soggettività che trova il suo senso pieno nella prossimità alla materia. Infatti, nella seconda sezione dell’opera – “La solitudine della specie dominante” – si apre un comune senso di appartenenza alla terra, o meglio al terriccio. “Ibisco” è una poesia che ospita un dialogo intimo del poeta verso una pianta, nel reciproco sentirsi e trovarsi parte dell’universo. “Ibisco, ci siamo toccati, siamo stati / lo stesso tempo, ma cosa sai della terra, / tu nella terra, che senti? Le parole, le immagini / conoscono in me la materia / come tu sai di me se ti torco / il fusto, intiepidisco la scorza / con le mani, porto terriccio, grani / di potassio. / Un cane addenta / le tue radici nel buio, nel sogno / cresci sul mio corpo nudo.” (p. 166)
“… Succede che mi imponi felicità…” (p.168)
Non c’è ossimoro quando a imporci la felicità è un altro essere vivente così vicino alla terra, che è anche la nostra materia, pasta d’anime di carbonio in fondo, unità profonda e inconscia di cui si fa portavoce in sogno il nostro corpo nudo. Meno assertivo il caso quando ci si avvicina alla sola umanità, comunque “Fantastica umanità: agli infelici non è negato il piacere; a chi ha un dolore non è negata la felicità” (p. 154).