In dialogo: Andrea Breda Minello e Luciano Mazziotta


 

Un dialogo tra Andrea Breda Minello e Luciano Mazziotta su R. M. Rilke e “Sonetti e specchi a Orfeo” (Valigie Rosse 2023).

 

Andrea: Caro Luciano, come un immenso éblouissement, mi sono avvicinato all’ascolto di questo tuo lavoro, che ha trovato sosta e dimora nel mio sguardo, sguardo che ha fermato e trattenuto immagini e suggestioni plurime, ha attivato reminiscenze e visioni.

E da qui partirei…

Ho pensato a un’espressione di Antonella Anedda, contenuta in quel libro da capezzale, davvero poco studiato, Nomi distanti: “remare verso l’essenziale”. Anche nella raccolta aneddiana non ci troviamo semplicemente di fronte a traduzioni e a rese autoriali, semmai a imitatio, a guisa del modello rinascimentale, punti di partenza per approdare, per l’appunto, all’essenziale, al respiro intrinseco dell’esperito.

Luciano: … “Remare verso l’essenziale”: tramite l’espressione di Antonella Anedda e la tua sintesi cogli precisamente ciò che mi ha spinto nel processo tanto di traduzione “incoerente” dei Sonetti a Orfeo, quanto nella scrittura di quelle prose, nella pagina destra, che ho denominato, per l’appunto, Specchi.

Quello che mi interessava nella stesura dell’opera era un tentativo di distacco dalla situazione fisico-contingente (che per semplicità chiamerò Storia). So bene che ci siamo, qui ci muoviamo, da questa siamo, per una parte, determinati. Comprendo meno bene quando il fisico-contingente viene tematizzato nelle versificazioni. Hoerderlin, Trakl, Rilke, sono riusciti ad andare oltre il fisico: questo non implica, d’altra parte, una tematizzazione della metafisica in senso teologico. Implica, invece, una discesa nella complessa indecifrabilità dell’essere (“l’essenziale”, di nuovo). Quindi più che metafisica si potrebbe utilizzare il termine katafisica, ovvero una catabasi alle origini del divenire. Dire Noi siamo (come lo diceva Rilke) significa interrogarsi sull’essere a partire dalla dimensione originaria. Ma forse nei primi del Novecento avevano una vaga idea di che cosa, dove, come fosse questa origine. Orfeo, nella versione di Rilke, ce la indica: non è un eroe che si avventura in una katabasi, piuttosto in una katafisi. Si cala dove necessariamente saremo e Euridice deve necessariamente rimanere; il luogo in cui l’essere e il non-essere coincidono, il luogo dello zero, laddove sussistono vita e non-vita. Orfeo ce lo addita, Rilke lo vede, io ho provato a ricercarlo concettualmente (fallendo).

Andrea: E Antonella Anedda appare di nuovo alla mia mente per le sue prose, che non sono esercizi critici, ma poetici, sguardi anamorfici, racconti ecfrastici del testo di partenza. Penso da una parte ai Notturni, tratti da Jaccottet e dall’altra, soprattutto, alla (ri)scrittura-racconto, presente in La luce delle cose e in Cosa sono gli anni, in cui il lettore vede ed assiste al contraltare della narrazione paesaggistica, qualunque essa sia: i funerali di stato di Anna Andreevna Achmatova, il vento che sferza sulle coste della Maddalena o le stanze asfittiche e però piene di vita di un ospedale…

Luciano: Qualche mese fa ho letto “Le Dieci Parole – Il Decalogo riletto e commentato dai Maestri ebrei antichi e moderni”, di Marc-Alain Ouaknin. Qui Ouaknin, commentando le “Dieci parole”, quelli denominati nella vulgata “Dieci comandamenti”, utilizza il sintagma “Tradurre esistenzialmente”, ovvero “Essere partecipe, ora, di ciò che dice il testo […], farlo decollare, andare al di là del testo; passare dal testo al proprio testo”. Racconti ecfrastici del testo di partenza, citandoti. Io ho usato “traduzioni incoerenti”, al quale resto comunque legato; però, dato che l’opera e l’interpretazione sono sempre soggette a una rivisitazione, ora aggiungerei tanto quello che scrivi tu quanto le parole di Ouaknin. Nelle traduzioni mi sono spinto a soggettivare, a rimodulare, a nascondermi, presenziando in base alla mia esperienza di soggetto mancante. Quando la traduzione non tenta neppure a priori di essere filologica, entra con forza la propria esperienza, mentre la voce dell’originale resta nella forma di brusio. Non voglio dire che mi sono rapportato al modello come se fosse un testo sacro. Voglio dire però che ho cercato di ascoltare il “brusio infinito” che quel testo del 1922 ha da dire e mi ha, ossessivamente, detto. Se il “brusio infinito”, cito sempre Ouaknin, ha una connotazione positiva, l’indeterminato può essere una voce che non smette mai di finire. Pubblicando il libro l’ho sospesa almeno per me. Accostandomi ai Sonetti, fingendo di chiosarli, ho esperito per l’appunto un epitaffio. (Ma i morti, si sa, non smettono di “significare”.)

Andrea: Ecco il primo signum: le prose come chiose medievali, un riflesso che diventa racconto che si lega, per frammento, al mondo onirico cinematografico e altresì alla pittura nordica… Ecco allora che amando questo tuo lavoro ho pensato alla retina di Brodskij, all’occhio che, a stento, trattiene la lacrima, ovvero restituisce e sottrae al tempo l’eterno presente. Per suggestione il tuo “assedio all’iride” mi ricorda il cinema di Tarkovskij (e anche qui ho presente la descrizione che Antonella fa del Rubliev), ma anche la pittura di Bosch e, per certi aspetti, dei Brueghel… E ancora Cvetaeva e Pasternak, ritornano le verste, le distanze che permettono di autorizzare il desiderio (direbbe Mme de Noailles): “Questo solo so dirti. Nell’inverno russo esteso le immagini di sognatori diversi e i nomi e le azioni si intrecciano”, scrivi in uno dei tuoi Specchi.

Luciano: Cinema, chiosa, riflesso, pittura, insomma tutto fuorché traduzione filologica o scienza del testo. C’è forse l’inganno degli scoliasti. Penso ad Agamben che interpreta il “blanco in subietto cade” di Donna me prega, come se Cavalcanti riprendesse – in modo un po’ postmoderno – un manoscritto aristotelico di Averroé, in cui, anziché le cruces desperationis, si trova la formula che utilizzano i copisti quando sono presenti lacune nel testo di partenza: “album in subiecto est.” È vero? Non lo sappiamo. Ci importa? No. Quello che importa è che se fosse vero sarebbe emotivamente sconvolgente. Ecco, le mie chiose, i miei scholia, sono un ennesimo inganno antifilologico: danno l’apparenza di essere tali ma in realtà sono tutt’altro. Il testo di partenza diviene uno spunto dal quale iniziare il flusso di “katafisi.” Del resto si tratta di specchi, non di copie. Chiose, come scrivi tu, non copie. Lo specchio, d’altra parte, non riflette solo ciò (o colui) che si specchia. All’interno di uno specchio ritroviamo il soggetto, lo sfondo, elementi altri, elementi che fanno da contesto, elementi marginali, o, ad esempio, i Titani che smembrano Dioniso. In queste chiose, “rispecchiando” i Sonetti a Orfeo, ho smembrato i Sonetti a Orfeo. La chiosa però non può fare a meno dell’originale. Lo specchio sì. Questo esiste anche quando nessuno si specchia né è visto. Intanto procede, però, a riflettere qualcosa o su qualcosa.

Andrea: I Titani che smembrano Dioniso, le Baccanti che fanno a pezzi Orfeo, nella tradizione tarda del mito. Lo specchio che riflette qualcosa e che mantiene il soggetto: allora penso alle versioni di Cocteau che, con Orfeo e le variazioni sul tema attorno al mito, restituiscono una realtà di smascheramento continua. Le suggestioni sono aperture e gli specchi diventano mise en abyme, in cui “l’altrove pensato è più vero dei fatti evidenti del qui, dove restando non siamo. […] Siamo dentro l’altrove pensato che esiste a prescindere e pure a prescindere potrebbe non essere mai un’immagine nitida.” E forse con questa citazione dalle tue prose (p.15 in riferimento al sonetto VI) ho riaperto dei canali e rispetto a quello che avrei potuto chiederti mesi fa, tutto cambia e l’ascolto ci permette di abitare l’altrove. Uno spazio che si riconosce, un modus vivendi dell’oggi che non scappa di fronte all’eterno istante, di cui parla Bachelard, ma ci si immerge. Un dialogo, un ascolto, percorrere le verste di Marina Cvetaeva. Non un’intervista, ma il piacere di entrare negli infiniti e labirintici specchi che, oggi, mi sembrano fotogrammi di un’istantanea. La katafisi di Rilke, il calarsi in, l’essere in, permette il noi e il contingente è restituito aumentato di segno e di visione.

Luciano: La katafisi, Andrea, sì, permette il noi, un noi sul quale bisogna interrogarsi dal punto di vista storico, politico, ontologico. Il mio sguardo è ontologico, o quanto meno vorrebbe essere tale, perché, inutile negare, come mi piacerebbe fare, che ontologia e storia sono strettamente interconnessi, al di là di ogni determinismo, però. La katafisi permette l’esserci, il Dasein, in effetti, perché morire, discendere, cadere è l’elemento che accomuna tutti gli esseri umani, mortali per l’appunto. Cercare un contatto con questo termine, dialogare con i discesi, continuamente, con l’ausilio dei modelli letterari di primo novecento dà la possibilità non tanto di rivelarsi necrofili, quanto di quello che chiami “aumento del contingente”, o “accrescimento del contingente.” Paradossalmente, potremmo dire, che l’accrescimento di vitalità si nutra di accrescimento di mortalità. Accrescerci, riflettere su questo, a rischio di ridondanza, restituisce, per antifrasi, un contatto con la realtà. Succede come nei sogni: può capitare che il significato comunicato sia l’opposto di quello che comunicano. L’accrescimento avviene, di certo, per mezzo del guardare (si potrebbe parlare di ingrandimento): posti di fronte allo specchio sorge il dubbio che avvenga quel qualcosa in più rispetto alla realtà; nei sogni le immagini, così come i piani, si confondono; l’iride è il nero-vuoto da cui può sbucare un albero. Per questo, o, anche per questo, ho forzato tutto il discorso sullo specchio: il senso più tematizzato, teoricamente, nei Sonetti a Orfeo dovrebbe essere l’ascolto – il primo testo originale conclude con la parola ascolto, Gehör. In realtà l’attenzione alla dimensione fenomenologica in Rilke è fondamentale, tanto per quanto riguarda le immagini, tanto per quanto riguarda gli specchi (quattro sonetti, di cui ne ho tradotto incoerentemente uno solo della seconda parte, sono dedicati allo specchio.) Il mio interesse è stato potenziare, a partire dalla mia esperienza di spettatore attivo, questo senso. Anzi monotematizzarlo.

Andrea: “Nelle traduzioni mi sono spinto a soggettivare, a rimodulare, a nascondermi, presenziando in base alla mia esperienza di soggetto mancante.”, scrivi. Credo che da oggi lo farò anche un po’ mio, se me ne darai il permesso.

Concordo con te sulla funzione del traduttore (e vorrei ricordare l’apporto essenziale dei grandi poeti-traduttori novecenteschi all’approccio e ai mondi altri di autori) e mi ha colpito, molto, il riferimento a Ouaknin (che prenderò), al “brusio infinito”. Da valdese, da protestante, l’idea di resa e servizio al testo, non tradendolo, anzi rimanendovi custodi e fedeli è data dalla centralità della parola stessa, dal respiro del testo di partenza ovvero dalla sua unicità profonda, che permette l’apertura del libro. E il rimando alla citazione da Apocalisse 5, 3, che poni a mo’ di spartiacque tra la prima e la seconda sezione emerge spontaneo. Il primo specchio si apre con “Soffia l’anima fuori”. Soffio, che anche se si cerca di rigettare, torna e il distacco non è mai tale. Il corpo, il suo lutto, la sua presenza che risale dal nero glaciale dichiara l’esistenza di ognuno di noi. Il signum, l’impronta non tanto del tempo che trascorre, ma della veglia che ci è richiesta. E dunque perdendoci noi ci ritroviamo. In questi tuoi testi l’esperienza è quella di una testimonianza e mi sembra, ad ulteriore lettura, la restituzione amata del messaggio evangelico, che è anche così profondamente rilkiano.

Luciano: Il punto è custodire e restituire una delle possibilità dell’esistere. Se il respiro del testo spinge all’apertura del libro, come recita l’Apocalisse, d’altra parte la stessa Apocalisse mette continuamente in dubbio la possibilità di aprirlo. Aprire il libro, non tradendolo, dici. Qui mi spiazzi. Perché se da una parte l’atto d’amore nei confronti dell’autore mi ha forzato a rimanere fedele al suo testo, dall’altra parte non ho potuto fare a meno della mia esistenza, quindi della manipolazione. Biagio Cepollaro, ad esempio, in una mail su Sonetti e specchi a Orfeo, ora pubblicata su Nazione Indiana, ha parlato di gaslighting, manipolazione maligna. Il tutto è successo perché, forse, non ne potevo fare a meno, come il respiro, per l’appunto. La seconda parte degli specchi inizia con il soffio, a proposito. Il soffio è l’atto naturale di “sputare fuori”, di gettare fuori qualcosa di indesiderato o di cui non si può fare a meno. Eppure, anche qui, mi interessava mettere in evidenza il senso di infinito che logora: i movimenti di espirazione e inspirazione sono infiniti, almeno fino a quando dall’espirazione all’inspirazione si passa a spirare. L’aria è in circolo, circolare, continua e continua. Il soffio è pneuma, nous, ma anche ennoia –intelletto, argomento, qualcosa che respira e spira dentro senza smettere. Se pensi tanto al respiro che non smette, quanto al respiro che smette, questi hanno in comune qualcosa di logorante e che sfinisce. Per questo, ancora, Orfeo e il suo respirare e spirare a vuoto e nel vuoto, finalizzato comunque a perdere. “Perdendoci ci ritroviamo”, del resto, scrivi. La perdita è, in effetti, una delle forme più alte di conoscenza. Ed è quello che fa Orfeo: perde Euridice, lo deve fare, e il mito non concede né prevede colpi di scena. Era noto ed è sempre stato noto, in ogni riscrittura, che finirà così, con la perdita. Il compito di Orfeo è fatica predestinata a perdere, quindi a conoscere. Attraverso la perdita di Euridice, Orfeo “conosce se stesso” e lo conosciamo, in parte, noi.

Andrea: “Lo conosciamo in parte, noi”, questo pronome che ci permette di avere visione, di esserci in vita, restituisce la perdita in una presenza, come sosteneva un giovanissimo Bertolucci padre. Proprio perché siamo consci e viviamo la perdita, possiamo riscriverla (penso all’ultimo splendido libro di Tuena sul mito di Pan ed Artemide e sull’esilio che è la vita stessa). Infine la tua ricerca, la tua restituzione, per l’appunto: ogni nostro atto, ogni nostro scritto in fondo è un atto d’amore. Le tue prose, i tuoi specchi, sono visioni di un poeta. A pagina 19, la prima proposizione è un verso, una sentenza: “Se nevica a marzo i bambini si impiccano” e a pagina 29: “Preferiamo l’inverno, i giorni che annottano prima…” L’inverno permette la sospensione temporale, il tempo non si dilata, semplicemente tende a non sussistere, diventa durata. Viene meno la soggettivazione e dimoriamo aprendo a quel noi che Rilke pone alla base dei suoi Sonetti, in quel 1922. Hai ragione, Rilke va “oltre il fisico”, dunque l’autore più novecentesco, pochi anni prima di morire, supera il Novecento. Origine, rimanere, esperire, fare della propria ricerca uno strumento esemplare, vivere. La scrittura, in questo senso, è lo specchio del pensiero che concepiamo, riflesso del corpo: accettarlo è comprendere il destino di Orfeo, forse.

Luciano: Riprendere un discorso iniziato è desiderio di continuare il discorso, un atto di amore ostinato ma anche di possessione. C’è, dunque, in Sonetti e specchi a Orfeo, l’amore-possessione, ma anche la ricerca di comprendere, il tentativo di fare della scrittura uno strumento di comprensione. Da una parte ci sono gli specchi della traduzione, dall’altra gli stessi non sono che riflessi di ciò che si tenta di cogliere, senza riuscirci (ovviamente). La scrittura, per me, non è che questo atto filosofico. Rilke è stato il modello indiscusso della scrittura filosofica del primo Novecento. Forse ha afferrato l’essenza di Orfeo, ma non ha posto un punto, se anche oggi ci interroghiamo su chi e che cosa sia e quale sia il destino di questo semi-dio. Forse l’imprendibile è proprio la sua essenza. Lo scrive Rilke nel sonetto I,5: “Oh come deve nascondersi, perché voi lo afferriate.” Verso che ho tradotto, incoerentemente: “La sua essenza è la fuga, la nostra inseguirlo” (non mi dilungo sul perché, ancora e ancora). Il mito, dunque, il mito è l’inafferrabile per sua natura, un groviglio di concause. Furio Jesi, ad esempio, descrive la “scienza del mito” come “scienza del girare in un cerchio, sempre alla medesima distanza, intorno a un centro non accessibile”. La ricerca delle genealogie, delle varianti, della fine, della morte, dell’infinito, non conduce a nessuna via d’uscita. Più ci si in-mita più non si trova via di uscita. Accettare è, probabilmente, accettare di non comprendere fino in fondo, e ciò nonostante perseguire la quête. Man mano che si procede, infatti, il mito si aggroviglia sempre di più. Razionalizzarlo è impossibile, così come lo è coglierlo definitivamente. Per questo mi ritrovo nel tuo accettare come comprensione e ci vedo una sorta di rassegnazione. Da una parte questo spinge alla ricerca continua, dall’altra parte all’estenuazione. Il mito ha così tante sfaccettature che per sua natura non può che continuare infinitamente a dire, come qualsiasi archetipico. Ci si deve rassegnare ad ascoltare. Possiamo accettare Orfeo e continuare a tentare di comprenderlo. Questo tentativo senza via di uscita getta le basi per riprenderlo (ri-afferrarlo) ancora eternamente sempre. Del resto, mentre scriviamo, saranno usciti altri saggi e riscritture su Orfeo.

Andrea: E come nel gioco degli specchi potremmo ricominciare da capo il nostro dialogo.