In dialogo con Domenico Brancale


 

Un dialogo con Domenico Brancale a partire dal suo Dovunque acqua sia voce (Edizioni degli animali, 2022)

 
 

  1. ASCOLTARE

Rossella Renzi: La prima volta che ascoltai una tua lettura, diversi anni fa, rimasi impietrita: quel tuo modo di declamare i versi, quel tuo modo di pronunciare le parole era talmente incarnato nel corpo, e quella voce era talmente distante dalla dimensione terrena che stavamo respirando, che pensai: “ecco, questo è il poeta”.

Da dove arriva quella voce, tremante, alterata, che si impossessa di te, colto in quello stato che pare essere di solitudine assoluta, schierato di fronte ad una platea?

Domenico Brancale: Ognuno di noi ha un certo ribrezzo ascoltando la propria voce registrata. Non ci si ritrova mai, come se fossimo dinanzi l’eco di una voce che non siamo mai stati. Qualche mese fa ho avuto la brillante idea, brillante per non dire pericolosa, di riascoltare alcune registrazioni di mie letture fatte nell’arco di 20 anni. Ogni voce era un’altra. Quella di quel momento ma anche quella che ascolto oggi. “Non c’è stata che lei nella mia vita, la voce. Non averla mai ascoltata. Averla soltanto parlata”. Leggere ad alta voce sta tutto nel raffronto tra la pagina scritta e la pagina detta. Bisogna espropriare il libro, lo sforzo inevitabilmente deve essere sul dire. In effetti quando leggi di fronte a una platea, che siano cento o tre persone, ti rendi conto di essere prima di tutto di fronte a quella voce che la scrittura ha tentato di fermare in un istante. Come non avvertire un disagio, quello stato, che tu chiami di solitudine assoluta. Non bisogna dimenticare che chi ascolta è ascoltato, perché in fin dei conti solo la parola che ascolta può parlare. Comunque la lettura in pubblico non è altro che il cammino à rebours che la scrittura compie per ritornare alla sua origine, l’orale. Gli astanti, i testimoni che hanno bisogno di prove schiaccianti della propria esistenza.

 

  1. PARLARE

Rossella Renzi: Il tuo libro chiama in causa la “voce” legata all’elemento essenziale per definizione, “l’acqua”: fonte di vita, luogo di nascita, causa di morte. C’è qualcosa di ancestrale nel tuo modo di manipolare le parole, e il rapporto con gli elementi coinvolge anche la terra, il fuoco e naturalmente l’aria: nel tuo “respirare l’irrespirabile”, nel trasmutare “il respiro in voce” prende vita la parola. E dunque, che rapporto ha la tua poesia con gli elementi della natura? E con il corpo? Sembra che il corpo stesso si faccia elemento e poi strumento attraverso cui la parola si possa sublimare. Fino a negarsi completamente, fino al silenzio.

Domenico Brancale: Quando ero ragazzo mi chiedevo spesso perché le pietre, l’argilla, le agavi, insomma tutte quelle presenze in natura con cui ho condiviso i miei primi 18 anni, non parlassero. Non mi capacitavo. In realtà dovevo ancora capire che la voce è il risultato di un incontro, così a un certo punto ho sentito le foglie parlare nel vento, o le pietre sussurrare qualcosa rotolando da una collina. Ogni cosa è visitata dalla voce nel silenzio del proprio stare. E credo che la poesia abbia in sé la possibilità di cogliere la parte muta di ogni essere, l’inconscio del nostro corpo. Scrivere è vivere la soglia del silenzio, è sporgersi nel buio. A proposito mi vengono in mente i versi di Giovanni della Croce: “Entrai dove non sapevo / E restai senza sapere / Trascendendo ogni sapere”. In qualche modo siamo attraversati da un respiro che la parola rimette in circolazione sotto un’altra forma. Il poeta, partendo da una propria esperienza, scavando in se stesso, cerca di raggiungere un luogo dell’anima in cui l’io sia lo specchio di un’intera comunità, qualche cosa che appartiene a tutti. Ci si sottrae lentamente come in una lenta bassa marea dove riaffiorano resti di un passato che deve ancora avvenire. Questo mi accade quando scrivo, senza una vera progettazione, sapendo bene che non si è mai al sicuro dentro la parola. Ed è proprio dal senso di sfiducia, d’impotenza che s’innalza un canto inaspettato. Del resto il corpo è urna e voce.

 

  1. LEGGERE

Rossella Renzi: La lettura dei tuoi libri apre ogni volta nuovi orizzonti, scandaglia nelle profondità inedite e inaspettate di noi stessi. E poi ci sono temi, sguardi, geografie e una certa tua sensibilità che a tratti sento molto vicina alla mia.

Partiamo dai temi: l’acqua. Qui ho subito tracciato una diagonale col mio rapporto con l’acqua, che ha qualcosa di atavico e certamente legato all’inconscio. Sin dal principio della mia scrittura – se penso al primo libro, I giorni dell’acqua – questo elemento accompagna i miei versi come sostanza dell’origine e della fine, e chi ha letto quelle poesie, ha più volte riscontrato come l’esperienza della maternità sia connessa al concepimento di quei versi. Nel tuo Dovunque acqua sia voce, l’acqua è elemento di origine e traguardo stesso della voce: trovi affinità in questo nostro sentire? Pensi che il rapporto con l’acqua possa trascendere la differenza di genere e farsi assoluto, proprio nella poesia?

Domenico Brancale: Lo credo profondamente. Non molto tempo fa il mio parrucchiere mi diceva che l’unico modo per trascendere la differenza di genere è accettarla. Se non si conosce il limite non si può andare oltre. L’acqua è maestra. L’acqua è abituata a rompere i margini. Se si pensa a uno dei sintomi caratteristici del travaglio, la rottura delle acque, come non pensare alla condizione della parola nella poesia. Chi scrive non smette di venire alla luce nella parola. Chi scrive cerca la parte nascosta che lo riscatti. Non so quale siano le ragioni della poesia, se mai ce ne fosse una, è ridare respiro alle parole, quelle stesse parole che portano il carico del nostro fiato e che sembrano perdere la luce nell’essere pronunciate. Tutto ciò risveglia qualcosa. Tutto ciò è memoria. Si ritorna sempre all’acqua, qualcosa che sta tra il bello e il terribile. Il libro “Dovunque acqua sia voce” nasce da questa esigenza. Libro di rottura, di discontinuità, d’incompiutezza, di apertura in-definita. Ogni frase è stato questo essere nella corrente dell’ispirazione. Probabilmente non tutto è sfociato nel mare come pensavo. Ma è la vita. Siamo in fin dei conti il risultato delle nostre mancanze.

 

  1. ABITARE

Rossella Renzi: La Lucania è la tua terra d’origine, un luogo pieno di contraddizioni e di mistero, per questo assai affascinante e foriero di poesia. In quella regione mi sembra più intenso e diretto il legame con la terra, attraverso la materia stessa che la costituisce: l’argilla. È un rapporto anche sofferto, poiché il paesaggio dei calanchi argillosi si trasforma ad ogni pioggia, col vento, col sole. Quella terra brulla si manifesta a tratti arida e infeconda, a tratti prospera e generosa, quando offre quella straordinaria vegetazione fatta di agavi, pini, eucalipti… Come ha plasmato, la Lucania, la tua poesia? E che rapporto hai tu con la geografia: ci sono altri luoghi del cuore che nutrono la tua scrittura? Ti senti abitante di un luogo particolare, oppure ne vieni da questo “abitato”?

Domenico Brancale: Sono nato a Sant’Arcangelo, un piccolo comune tra la provincia di Potenza e Matera, sulle colline che volgono verso la Magna Grecia e danno le spalle alla catena montuosa del Pollino. L’orizzonte era sempre all’altezza del mio sguardo. Frequentare burroni, rami, crepe di argilla ha dettato il mio rapporto con la parola. Tutte immagini in cui l’eccitazione è direttamente proporzionata alla possibilità di cadere, come un funambulo che va avanti e indietro sul filo. La pagina è stata e continua a essere l’incarnazione di questo filo. E poi c’è il rapporto con il dialetto, la lingua che mi abita fin dal vagito e ha plasmato l’ossatura della mia anima. A pensarci bene potrei dire che se da un lato abito la lingua italiana, dall’altro sono abitato dal dialetto. Sono i due lati della stessa parola.

Comunque con il passare degli anni mi sono reso conto che si continua a nascere nei luoghi dove si vive, dove si viene riconosciuti, dove ci si perde e inevitabilmente ci si ritrova. E cosi città come Bologna, Venezia, Parigi hanno assunto dentro di me la stessa portata di quello che è stato il villaggio dove sono nato e cresciuto. Forse non si finisce mai di nascere, e come ha scritto Milo De Angelis “per nascere occorre un ritorno”. Nei luoghi dove ho vissuto c’è sempre stato un ritorno, una stagione da cui poter ricominciare. La parola si nutre di tutto, anche di questo. Sento di avere, più che altro, nostalgie delle cose che mi rimangono da fare, una sorta di nostalgia del futuro. Più che abitante di un luogo in particolare mi sento abitato da tutto ciò che ho amato.

 

  1. OSSERVARE

Rossella Renzi: Domenico, nella tua professione ti occupi di arte: il tuo sguardo è allenato e comprende la capacità di osservare e analizzare le cose da una prospettiva che non è solo poetica o letteraria. Questo rende la tua scrittura davvero complessa: materica, sonora, filosofica, in grado di riflettere il tuo mondo costellato di opere e di artisti di grande spessore. E soprattutto, la tua scrittura è costantemente tesa alla ricerca della bellezza, anche nelle sue forme più dolorose. Puoi spiegarci, se lo hai scoperto, in che modo l’arte entra nei tuoi occhi e fluisce nelle tue parole?

Domenico Brancale: Credo che le prime forme d’arte in cui mi sia imbattuto sono stati gli strofinacci da cucina di mia madre. Ne aveva tantissimi e su ognuno di loro si riconoscevano le magie dei merletti che raffiguravano il più delle volte scene bucoliche, nature morte o riproduzioni kitsch di dipinti che venivano da lontano. A pensarci bene gli strofinacci sono gli arazzi dei poveri. In principio erano gli strofinacci, poi sono svaniti a furia di accumulare macchie d’olio. Perdonami ma ci tenevo a raccontarti questa piccola storia. Non posso fare a meno degli inizi. Non c’è visione nella mia vita senza la patina di questo ricordo. L’Arte, nel vero senso della parola, è arrivata molto più tardi, a una mostra di Kiefer al Museo di Capodimonte. La potenza di certe pitture è disarmante. La scoperta di Nicola de Staël, di Giacometti e Francis Bacon. Le amicizie con alcuni artisti come Giacinto Cerone, Miquel Barceló, Ugo Rondinone, Nicola Samorì, Marcello Tedesco, Flavio De Marco, Simone Pellegrini, Rostia Kunovsky e Sophie Ko, la collaborazione con Hervé Bordas, lui stesso artista, nella galleria di grafica a Venezia. Le opere di questi artisti hanno avuto un forte impatto sulla mia. Gli devo molto. Il fatto che non avessero bisogno di nessuna parola per nominare, come accade ancor di più nella musica classica e nel jazz, mi ha spinto a frequentare il loro punto di vista cercando nella parola la stessa condizione, una sorta di immediatezza. Forse il modo di lavorare di un artista mi è più congeniale. Scrivo come uno scultore, levo tutto ciò che avrei voluto scrivere fino a lasciare sul foglio ciò che non conosco. Bisogna raschiare fino a sfiorare l’indicibile. Negarsi alla voce che tenta di spiegare. E del resto i poeti ai quali sono legato sono quelli che non si spiegano, anzi dispiegano la voce nella parte segreta delle parole. Di fronte a una scultura o a un dipinto spesso mi sono sentito completamente nudo, cosa che non mi è accaduto, se non raramente, leggendo una poesia.

 

  1. RITROVARE

Rossella Renzi: Nel tuo libro dedichi una sezione al tema dell’amicizia. È un valore fondamentale nel tuo vissuto, lo si scopre quando con te si conversa e lo si avverte nel tuo offrirti verso l’amico, in modo quasi viscerale. Non ci sono i convenevoli, ma un ritrovarsi e il riconoscersi in una comune appartenenza. Questo tuo modo di vivere il rapporto di amicizia emerge anche dalla tua produzione poetica e letteraria, nel dialogo che costantemente cerchi e curi con l’altro, sia esso artista, poeta, fratello, maestro. Raccontami di quello che tu chiami “Questo segreto tra noi” e chi ti ha insegnato questo modo così raro, quasi antico, di stare con l’altro.

Domenico Brancale: Non so da dove venga questo segreto, sicuramente non è frutto dell’esperienza. È innato. Il segreto è l’essenza della vita. Se lo conoscessi non avrei amici. In “Dovunque acqua sia voce” torna e ritorna come una falena intorno alla lampada. Parole come attenzione, riconoscersi, aperto, condivisione, silenzio sono l’acqua di cui ha bisogno il terreno dell’amicizia per mantenere vivo “questo segreto tra noi” che ci rende infiniti. E ora, cara Rossella, non posso più rispondere di me.