«Entra nel pantheon senza volta, a Spalato» inizia così, costruendo questa geografia chiara, per «rivedere la città / dall’alto, il mondo dal basso»1 e parla di migrazioni e di confini, prima di tutto, questo Ballate di Lagosta (Donzelli editore, 2022) scritto da Christian Sinicco in dieci anni di lavoro.
Fa bene il critico Alberto Bertoni a definire la poesia di Sinicco «ad un tempo periferica ed europea»2, per come si concentra senza mai accartocciarsi su temi nevralgici dell’Italia, della Slovenia e della Croazia, in quella zona confusa, selvaggia e bellissima che Claudio Magris riteneva «un composito, variegatissimo e talora centrifugo mosaico», continuamente al centro della peggiore geopolitica europea, per una qualche maledizione che la precede.
Ma è verso il Sud che tende, concentrandosi, soprattutto nelle ultime due sezioni, Partenze e ritorni e Ma voi non fermate il loro canto, sui venti che sferzano mare e genti da un lato all’altro del Mar d’Africa, verso Lampedusa, la Grecia, la Spagna.
Il testo si apre con Canzone di Spalato, poesia eponima della prima sezione, già qui fa la sua comparsa, nella seconda strofa, una lingua plurale: «lei parla le tue lingue lavorando all’uncinetto»3, per come sono abituati i parlanti e soprattutto gli scriventi multilingue, a muoversi, ad adattare l’apparato fonatorio all’abbisogna. Ma comune a tutta la prima sezione è la sedimentazione dell’architettura attraverso i secoli e il desiderio di consegnare la Storia a chi viene, figli o migranti che siano, in un metaforico passaggio migratorio dell’umano dalla vita nella morte.
“Le tue lingue”, scrive Sinicco, le lingue che sono di Trieste, e oltre che di Trieste delle terre slave: «spiega, nella lingua nobile di Trieste, / la facilità degli slavi a recuperare strutture, metrica del parlato, in una pausa del viaggio»4. Trieste è città regale, asburgica, porta di ingresso al mondo slavo, e quella «facilità degli slavi a recuperare strutture», è riferimento, insieme a quello drammatico ad Ante Gotovina, alla guerra civile in ex-Jugoslavia. La guerra, nel libro di Sinicco, la incontriamo esplicitamente ne Le argomentazioni di Mojmir: «ma chi ha trovato i soldi per acquistare le armi / ha combattuto la guerra dagli edifici grigi / e ora è un dirigente di banca», tutto «per amore della pace, / per condurre l’opera alla gioia»5. È guerriglia, quella vera, ma anche citazione volontaria alla sempre guerra, all’Iliade per come l’autore rende il lettore testimone di un mondo intriso di tristezza e nostalgia, con la sensazione luttuosa di qualcosa che si muove sottotraccia nella storia. Lagosta, Lastovo in croato, è un’isola del mare Adriatico, che dà il nome all’omonimo arcipelago, ma qui sembra diventare luogo dello spazio continuamente visitato, perché simbolo del dolore, dell’abbandono, del mai ritorno, Itaca e Zante.
La storia di Lagosta, non dissimile da quella di altre isole adriatiche, ruota attorno a Venezia, all’Austria e poi all’Italia e alla Croazia lungo secoli di guerre, lotte, migrazioni, fino agli scontri degli anni ‘90. Terra di confine intrisa ancora del sangue salato della distruzione a cui portò il suo assedio, in un giorno sconosciuto del maggio 1000, quando il doge Pietro II diede ordine di radere al suolo la città e di bruciarla.
Ma come diceva Predrag Matvejevic, forse il migliore sociologo del Mediterraneo, «chi scrive del Mediterraneo o ci naviga ha delle ragioni personali per farlo»6, Sinicco appartiene a questa prima famiglia, quella dei cantori del Mediterraneo, perché oltre alle categorie fisiologiche dell’affezione e del riconoscimento per e nella propria terra, si riscontra il desiderio di raccontare ciò che è scomparso o che è ad un passo dalla morte (lingue, nomi, persone, storie). È la nostalgia di cui sono intrise queste pagine, non solo una nostalgia di confine (sempre evocata quando si parla di autori del Friuli-Venezia Giulia) o di guerra, ma una di origine diversa, quasi atavica, una strutturale nostalgia della migrazione espressa in una lingua composita ma mai artificiale «come se tutto si rivelasse, avanzando / verso il fondo verde, inatteso e caldo»7.
«Penso in una lingua non mia / parole che sembrano dure»8 e nel libro sono moltissimi i riferimenti alla lingua e alla cultura croata, i nomi (Marija, Danica, Ante, Mojmir, Silvestar) e i toponimi come Mihajla, Ubli e Portorus, questo il più interessante, il cui vero nome, Skrivena Luka, significa letteralmente “porto nascosto”. Bellissimo in questo senso il dittico creato da La canzone di Daniela, esempio di poesia descrittiva e creaturale, ad un tempo antica e moderna e da Danica e la cavra (Danica e la capra), che per chi scrive rappresenta una delle vette di questo Ballate di Lagosta. Qui: «raccontaci della capra / quando ha iniziato a darti latte / ortiche e cipolle mangiava / facendo un latte che salva dai mali»9, quasi un bezoario, un amuleto, un residuato di quella malia tutta mediterranea dell’animale sacro (il capro, così spesso) il cui feticcio salva gli uomini dai mali. Ci troviamo davanti a un libro che sembra parlare a una comunità, non a un lettore, forse alla «grande istituzione di una comunità di consanguinei fondata sull’autorità degli anziani, sul rispetto dell’integrità del lignaggio, – che – si è conservata in taluni casi sino a epoca recente» quella «zadruga serba, che ritroviamo, in varie forme, nella tradizione culturale balcanica»10.
La zadruga «non era soltanto una famiglia, ma un’unità corporativa di membri strettamente legati da comuni rapporti di solidarietà, coabitazione, consumo e produzione»11. Ecco, sembra che Sinicco sogni una società che possa muoversi non secondo criteri meramente capitalistico-utilitari, ma secondo vincoli sociali, umani, di fratellanza e di legame. Il tutto è illuminato dalla presenza di piccole epifanie, di possibilità di aperture, di colpi: «ti togli gli occhialini, e si apre / l’ampia insenatura e l’Adriatico / come un utero e le gambe: / anche se non arriva mai / è la vita a cui stiamo pensando / che ogni tanto si avvicina»12.
Ne viene fuori un libro che respira ad un tempo l’atmosfera della Mitteleuropa e quella lontana dell’Africa, passando per le isole minuscole che fungono da approdo. Lontano ma costantemente presente è il mare, un mare respingente, solo apparentemente calmo, ma ripieno, colmo di dolore e corpi, un cimitero sempre in agguato: «ma fai attenzione, / la riva è qui, le pietre sono aguzze / e noi quasi buttati a terra / grandiosi e stupiti / come se tutto finisse»13.
Il testo di chiusura rappresenta una consegna della vita a chi verrà, una staffetta, nella grande processione di uomini attraverso il Mediterraneo, ma anche una riflessione simbolica tra vita e morte. L’evocazione di un pantalassa cimiteriale, percorsa da lente onde, soprattutto nell’ultima sezione, che vede alcuni dei testi più importanti di Ballate di Lagosta, si concentra sui luoghi della partenza, utilizzando i nomi dei morti come maschera autoriale, i morti portati dal vento: «dopo la mareggiata / e l’erosione della nostra memoria»14.
1 Christian Sinicco, Ballate di Lagosta, Roma, Donzelli, 2022, p. 13.
2 https://www.chartasporca.it/ballate-di-lagosta-christian-sinicco/
3 Christian Sinicco, Ballate di Lagosta, op. cit., p.13.
6 Predrag Matvejevic, Mediterraneo – un nuovo breviario, Milano, Garzanti, 1991, p. 77.
7 Christian Sinicco, Ballate di Lagosta, op. cit., p. 31.
10 Fernand Braudel, Il mediterraneo, Firenze, Bompiani, 2017, p. 220.
12 Christian Sinicco, Ballate di Lagosta, op. cit., p. 57.