Diletta D’Angelo: Ho conosciuto Andrea Donaera nel 2019. Leggevamo dei testi per la commemorazione della Strage di Ustica, a Bologna, facevamo ancora l’Università. Lo sentivo leggere per la prima volta e da quel giorno qualcosa è cambiato, qualcosa è iniziato direi. Conservo ancora i fogli stampati con i testi per quella serata. Negli anni le scene, le immagini, sono rimaste impresse, hanno continuato a risuonare, a lasciare aperto lo squarcio. Per questo l’ho scelto per dialogare a partire dal suo ultimo libro di poesie.
Per me leggere oggi Le estreme conseguenze (Le lettere, 2023) è ritrovare frammenti collezionati nel tempo, che prendono forma all’interno di un mosaico più grande. Ti chiedo: c’era già un progetto, un involucro, l’idea di un contenitore o si è delineato nel tempo, per addizione?
Andrea Donaera: Anche per me quella sera a Bologna ha rappresentato l’inizio di un qualcosa. Quelli erano proprio i giorni in cui cominciavo a ragionare attorno all’idea di una raccolta poetica che avesse il passo di un resoconto psichico narrativo. Stavo accumulando testi, prove: e durante quella lettura pubblica provai a fare un test, per tastare specialmente il mio rapporto con quelle parole sporche e torbide una volta fatte uscire ad alta voce. Era il progetto che poi sarebbe diventato Le estreme conseguenze. E mi chiedo: forse anche il tuo Defrost ha iniziato a scalpitarti dentro quella sera, quelle ore?
Diletta D’Angelo: Senza dubbio qualcosa quella sera in me si è mosso, forse si è rotto o comunque è stato investito da uno scossone, da una specie di boccata d’aria. A quell’altezza ero ancora lontana dall’idea di libro e ho continuato a esserlo fino al 2021, quando con Esordi di Pordenone Legge, seguita dallo sguardo attento di Massio Gezzi, mi sono trovata a dover fare i conti con la prima fase di strutturazione di un progetto più complesso, a ragionare su una narrazione d’insieme che non poteva più essere solo mia. Sicuramente, però, dalla serata bolognese il lavoro personale sui singoli testi ha iniziato ad acquistare una nuova prospettiva, la visione a spaziare, qualcosa è germinato.
Dalla germinazione alle fioriture, un salto all’arrivo mi torna spontaneo, alle conseguenze estreme, ultime, lontane. Nel tuo libro le consguenze sono figlie di qualcosa di pregresso: dolori, traumi, che lasciano uno strascico. La depressione, le ossessioni, l’urlo sordo protratto nel tempo, la perdita di autenticità dell’adolescenza, il doversi mostrare come un altro, il rispecchiamento mancato… Sono solo alcuni dei temi e dei discorsi che il tuo Donaera affronta nel libro. Tutto sembra suggerire un’unica via da perseguire, ma allo stesso tempo è proprio nella paura della malattia, della morte, del rumore sordo di un paio di dadi, che emerge l’attaccamento alla vita. Quali sono quindi le conseguenze estreme? C’è qualcosa che spinge comunque ad andare oltre? La rabbia e l’indignazione che ruolo giocano nel proseguire?
Andrea Donaera: Secondo me il tema che ho provato ad affrontare nel libro è, non dico banale, ma senz’altro abbondantemente frequentato in tantissima poesia. Dal cammino di Dante al foro nella rete di Montale, passando per i cedimenti leopardiani e la necromanzia pascoliana: l’attraversare le sofferenze per poterne ricavare un senso in qualche modo vitalistico credo sia un topos cardinale, quantomeno nella poesia italiana. Ed è proprio per questo che ho pensato fosse il caso di misurarmi con questo nucleo tematico molto complesso e altamente soggettivo: il libro è un tentativo di dare una prospettiva provenienti da un trentenne degli anni Venti del Duemila che si distrugge l’esistenza tra scavi memoriali e alcol, tra paranoie e isolamenti. Questa faccenda di prendere dei topoi ben radicati e farli nostri credo coinvolga parecchio la nostra generazione di persone che scrivono, è così anche per te?
Diletta D’Angelo: Sono d’accordo e per certi versi credo possa essere un atteggiamento fisiologico o forse la replicazione inconscia di uno schema o più semplicemente il bisogno di attualizzare ossessioni profonde che ci accomunano come esseri umani oltre ogni generazione e tempo. Nel mio caso credo si sia trattato soprattutto della prima e della seconda ipotesi e effettivamente anche Defrost torna a battere il chiodo su topoi radicati come la violenza, le risposte della paura, il sentimento del corpo, le dinamiche familiari e animali….
A proposito di paura poi, anche questa mi sembra attraversare interamente il tuo libro sottoforma di psicosi, di intorpidimento e depressione. È una sorta di paura dell’agire o di qualcosa di altro, di più profondo e radicato e mi sembra sfociare in malattia e rispondere a meccanismi di violenza, di una violenza auto-inflitta, quasi sadica tortura (tricotillomania e insonnia), un ghigno di auto commiserazione (insulti su forma fisica, commenti autoironici, di un’autoironia amara) un uccidersi lento (alcolismo). Paura e violenze assumono più voci, più toni, nel continuo dialogo tra Super-io, Io e Es del personaggio principale e sono rintracciabili in più strati temporali, nella memoria dell’infanzia, in quella dell’adolescenza e nell’attualità dell’io che parla a se stesso. Sono come ramificati, penetrati a fondo, quasi geneticamente, quasi ereditati. Secondo te esiste un’ereditarietà del male? Se sì, si può interrompere la trasmissione?
Andrea Donaera: Eh, questa idea dell’eredità del male (o Male, boh) attraversa ossessivamente tutte le cose che provo a scrivere da anni: anche nei due romanzo che ho provato a scrivere, volendo, le storie possono essere sintetizzate proprio nelle domande che mi fai. Il male è un’eredità? E, se sì, è irreversibile? La vita intrapsichica di un individuo viene trasmessa in modalità genetica? Naturalmente non è un discorso scientifico, non si tratta di dare davvero delle spiegazioni o delle risposte. Ma resta un fatto: a me, adesso, interesserebbe leggere una biografia dei genitori di Hitler, molto più di un libro su di lui. Non so se mi spiego. Tutte le cose che scrivo da diversi anni, prosa o poesia, si chiedono: la frase/verso «io è un altro» è una di quelle robe da poeti (e poi da filosofi, psicologi ecc.) o è un fatto vero, che ci riguarda e che ci devasta le esistenze, legandoci a un processo identitario irrisolvibile?
Diletta D’Angelo: Non ho una risposta, ma mi faccio spesso le stesse domande, ossessionano anche me e sono uno dei nuclei che hanno dato vita a Defrost, tanto che nel libro non c’è una conclusione netta, non può esserci perché non so quanto il processo identitario di cui parliamo possa arrivare a una risoluzione effettiva. Non riesco a togliermi di dosso però, la speranza che in qualche modo prendere atto delle cose, di un’ ereditarietà che probabilmente è sia interna che esterna, possa aiutare a vederle, ricalibrarle e possa offrire uno spiraglio, una possibilità di decostruirle.
Ho un’ultima curiosità: il tuo libro non è diviso in sezioni e sembra essere un continuo monologo del personaggio principale. Allo stesso tempo è un dialogo tra gli stati dell’io e una riflessione tra diverse memorie. Mi ha sempre colpito il tuo uso delle parentesi, che usi spesso per commentare, per far dialogare più parti, per cambiare scena e prospettiva, fornire maggiori dettagli al lettore. Ti chiedo: che rapporto hai con la scrittura teatrale? Ha influito in qualche modo sulla tua scrittura?
Andrea Donaera: Mi piace molto la scrittura teatrale, ho letto e leggo molta drammaturgia. Mi piacerebbe molto anche provare a misurarmi con questo tipo di scrittura, ma finora i tentativi non hanno prodotto ottimi risultati. Però il mio primo romanzo, prima di diventare tale, era una drammaturgia (non abbastanza decente). E i meccanismi dialogici che si possono generare su una scena teatrale mi risultano magnetici, da sempre: un modo per fornire uno specchio concreto – e per me la letteratura dovrebbe provare a fare questo.