Llamazares, un ricordo personale


Venticinque anni fa, quando andai per la prima volta in Spagna, entrai in una libreria alla ricerca di un’antologia di poesia spagnola contemporanea per vedere che aria tirasse da quelle parti. Sfogliando alcuni volumi mi vennero tra le mani questi versi:

Nuestra quietud es dulce y azul y atorturada en esta hora.
La Nostra quiete è dolce e blu e torturata a quest’ora.
Tutto è lento come il passaggio di un bue sulla neve. Tenero tutto come le bacche rosse dell’agrifoglio.
Il nostro abbandono è grande come l’esistenza, profondo come il sapore dei frutti guasti.

(…)

A volte incappiamo in versi che ci parlano, che sentiamo affini senza capirne realmente il motivo, versi che risuonano misteriosamente in noi e continuano a farlo nel tempo. Quei versi letti in piedi davanti a uno scaffale di poesia, in una piccola libreria di Santiago de Compostela appartengono a questa categoria.
Alla fine del volume c’era la nota biografica dell’autore: Julio Llamazares nasce nel 1955 a Vegamián nella provincia di León, studia Giurisprudenza a Madrid… Questi versi sono stati pubblicati nel 1979.
Facciamo due conti: quando scrive questi testi Llamazares ha ventiquattro, venticinque anni e vive nella Madrid nel pieno della Movida spagnola. Perché un ragazzo, pochi anni dopo la morte di Franco, in una capitale in fermento, con i cinema che passano i primi film di Almodovar e le radio che trasmettono le canzoni di Miguel Bosè, parla del freddo, della neve, della lentezza dei buoi?
Dopo qualche giorno riuscii a procurarmi il libro di Llamazares contenente le due raccolte, La lentezza dei buoi (a questa raccolta appartengono i versi sopra citati) e Memoria della neve. Se già i titoli mi attrassero, ancor più mi colpì la citazione in apertura del secondo di questi brevi volumi:

“Tutti i montanari sono sobri, bevono acqua, dormono al suolo e portano i capelli lunghi come le donne, legandoli sulla fronte con un laccio per la battaglia. Mangiano generalmente carne di capro e ne sacrificano uno ad Ares, e anche cavalli. (…) Così è la vita di questi montanari che, come ho detto, sono quelli che vivono nel settentrione dell’Iberia.”
Strabone

Di nuovo: perché un ragazzo, a Madrid, in quel particolare momento storico, con una generazione alla ricerca di nuovi spazi, nuovi linguaggi, nuove espressioni, intenta ad agganciarsi culturalmente al resto dell’Europa, esordisce in poesia con un brano che parla di montanari di due mila anni prima?
Rispondere a questa domanda è forse il viatico per capire l’intera produzione, poetica e non, dell’autore.
C’era una valle nel nord della Spagna, la valle del Porma, e c’è ancora. E c’erano otto paesi in quella valle, che non ci sono più. Questo perché a metà anni Cinquanta il governo incaricò un ingegnere di verificare la fattibilità di un progetto che facesse di quella valle un enorme bacino idrico per fornire acqua alla provincia di León. Fatte le dovute verifiche il progetto prese il via. Nel 1967, a lavori terminati, la valle fu riempita d’acqua e i seimila valligiani dovettero lasciare le loro case prima che venissero sommerse dal lago. Llamazares ricorda in un’intervista che fu colpito dal vedere la sua e tutte le altre madri chiudere a chiave la casa prima di abbandonarla, quasi dovessero ritornare prima o poi. Case, chiese, piccole industrie dedite alla produzione di latte, di burro, moderne stalle in cui si allevavano nuove razze bovine, prima c’erano, poi non c’erano più.
La situazione non fu per tutti negativa: la costruzione della diga aveva portato lavoro e salari a gente abituata a spezzarsi la schiena in una terra impervia lavorando la terra o allevando bestiame; chi poi andò in città conobbe per la prima volta comodità fino ad allora mai avute, come, per esempio stanze calde e il bagno in casa. Ma non per tutti fu così: è vero che la vita fra quegli aspri monti era dura, ma la stessa fatica quotidiana che per centinaia, migliaia di anni, avevano speso i valligiani per trovare un’armonia con quella terra, con quei declivi, col il freddo, in qualche modo aveva forniva loro un orientamento, un orizzonte, un senso alle loro vite.
Sta di fatto che, volente o nolente, nessuno ebbe la possibilità di scegliere il proprio destino: l’unico destino era la diaspora.
A che pro, dunque, quel lungo brano iniziale di Strabone sugli antichi abitati della regione? Perché, da un certo punto di vista, la vita di quelle donne e quegli uomini fu più simile a quella degli abitanti della valle del Porma fino al 1967, che la vita dei valligiani prima della costruzione della diga rispetto alla loro stessa vita dopo la diga. E difatti, tutti i versi di Llamazares vedono confondersi scene di vita degli antichi abitanti, con ricordi della sua giovinezza, il tutto sotto una minacciosa luce di inesorabilità.
Quelli che seguono sono versi tratti da Memoria della neve:

1
La mia memoria è la memoria della neve. Il mio cuore è bianco come un campo di erica.In labbra gialle la negazione fiorisce. Ma esiste un noce dove abita l’inverno.
Un lontano noce, piegato sull’acqua, dove vanno a morire i guerrieri più vecchi.
In uno stesso esterno si disfano i giorni e la desolazione corrode i segni del suicidio:
globi tra i rami del silenzio e un animale senza nome che si addensa sul mio viso.

 
3
Questo è un paesaggio di sguardi di panna e tetti ghiacciati. È un paesaggio ghiacciato e indistruttibile.
I bambini morti giocano accanto al mulino con corbe vuote e verghe nocciolo (…)
Come se tutto fosse uguale. Come se non fossero passati tanti anni.

 
28
Qualche volta sentii dire che ritornarono, dopo molti anni, e ritrovarono le loro capanne distrutte dal vento del nord e il sole nero.
No c’erano frutti né fuoco. Né animali pascolando mansueti nei recinti.
La negazione si era estesa ai granai e agli orti come una frana di fango.
E allora -dicono- scagliarono ala nebbia le loro frecce e i loro archi, gettarono al fiume le loro cetre sacre
e, senza guardare indietro, volsero le spalle verso la memoria.

Quest’ultimo verso in particolare, così ambiguo e irrisolto, evidenzia quel confondimento tra le vite di allora e le vite di oggi. Cosa intende dirci Llamazares con “senza guardare indietro (…) volsero le spalle verso la memoria”? Che direzione presero davvero quelle persone? Proseguirono o tornarono sui loro passi?

Nel 1983 l’invaso venne svuotato e i valligiani poterono per la prima volta rivedere le loro case. Llamazares ricorda come tutto sembrasse perfettamente uguale a come lo ricordava: strade, case, fabbriche, chiese. Solo più fragile, perché, esposti all’aria, i muri inzuppati erano fragilissimi. Un’immagine in particolare gli rimase impressa, quella delle trote imprigionate nelle stanze delle case a seguito dello svuotamento.

Tra le trote morte e la ruggine, fragole. Accanto alle fabbriche abbandonate, fragole. Sotto la volta del cielo bambole mutilate e lacrime romaniche e fragole.

Questi versi appartengono al secondo dei tre testi che compongono Ritratto di bagnista, quella che doveva essere la terza raccolta di Llamazares. Ma dopo il terzo testo la sua poesia finì. Da allora solo prosa, una prosa che, tuttavia, vedrà continuamente scorrere nelle sue vene questa stessa storia.

Dolce fu questo luogo per il mio cuore: le spiagge lente e le serre. Qui dove rematori pazzi sopportano sulla schiena le tempeste e il vento brama come un centauro ferito.
Dolce fu questo luogo per il mio cuore un tempo.
Molto fredda, tuttavia, è la luce stamattina. Verso i miei occhi volano le nuvole e i ponti. Cresce l’albero sotto la pioggia verde e, nella memoria della cava, oscuri galleggiano gli occhi inverditi dei morti.
Più dolce questo luogo fu per il mio cuore un tempo.

Vent’anni fa, quando Michele Toniolo, di Amos Edizioni, mi diede la possibilità di tradurre Llamazares, decidemmo di andare assieme a conoscere l’autore a Madrid. Per non andare a mani vuote, ci presentammo con una buona bottiglia di grappa. Quando, dopo le presentazioni, Michele gli diede la bottiglia, Llamazares ringraziò con molto più trasporto di quello che il piccolo omaggio richiedeva. E ci spiegò il perché: anni prima era stato in Italia in occasione del ricevimento di un premio. In quell’occasione lo omaggiarono, tra gli altri, di un’ampollina di grappa, ricavata dal preziosissimo filare di viti cresciuto all’interno delle mura del castello appartenente alla famiglia che dava il nome al premio. Da anni voleva aprirla, ma gli era sempre mancato il coraggio: gli pareva di profanare qualcosa di sacro. La grappa che gli avevamo donato portava lo stesso nome di quella avuta in premio: dopo anni, grazie a noi, poteva togliersi la curiosità di sapere che gusto avesse quel siero.
Così nacque la nostra amicizia con Julio Llamazares.

Solo sto, in questa notte ultima, come un toro di neve che bramisce alle stelle.