Si parla, giustamente, di terra friulana. E altrettanto giustamente di Pasolini, della parola rosada, di quello che ha rappresentato e rappresenta. Io quando penso alla terra friulana e alla sua lingua penso anche a un altro grande poeta, Leonardo Zanier. Se devo dire la verità, penso quasi esclusivamente a lui, che oltre a cantarla ha cantato cosa vuol dire abbandonarla. O perlomeno lasciarla per un po’, perché la propria terra uno, se ce l’ha, non l’abbandona mai.
Ma, a parte questo. Il Friuli Venezia Giulia, con o senza trattino, è dal punto di vista linguistico e culturale un bell’ibrido. E in quell’ibrido c’è una piccola fascia, quella al confine con la Slovenia, che è essa stessa un ibrido. Perché lo sloveno che vi si parla varia a seconda delle zone: più o meno la lingua letteraria a Trieste e Gorizia, varianti dialettali sul Carso, altre varianti dalle Valli del Natisone alle Valli del Torre e alla Val Resia, di nuovo lingua letteraria nel Tarvisiano, dove si incrocia anche con il tedesco.
Qui dirò due cose sulla lingua che si parlava e si parla ancora, nonostante si sia persa molto, nelle Valli del Natisone. Lingua antica, rurale. Come il friulano, forse più del friulano. La generazione di mia madre, classe 1946, conosceva solo quella lingua, almeno fino a che non iniziava a frequentare la scuola elementare. Quella lingua – che i linguisti, non una persona qualsiasi come me, hanno identificato senza alcun dubbio come uno dei tanti dialetti sloveni – ti diceva esattamente il nome di un uccello o di un attrezzo agricolo, di una pianta, un animale del bosco, un vento. Come per Pasolini, indicava la parola rugiada (per altro in modo simile, rosà) come quella cosa unica, perfettamente identificabile, che al mattino faceva luccicare l’erba dei prati.
Io ho fatto parte di quel mondo solo guardandolo di lato. Per una questione generazionale – dall’avvento del cosiddetto progresso molte di quelle parole si sono inevitabilmente perse – ma anche perché ho vissuto per molto tempo ai margini di quel territorio. Solo da adulto ho iniziato a conoscerlo veramente, e in qualche modo a rimpiangerlo. Parola forte, rimpianto. Però, un po’ è così: nonostante oggi chi viva in quelle vallate non possa dire di vivere male, la vita dei campi nei miei ricordi era un’altra cosa, più sana, meno condizionata da tanti, troppi vacui intrattenimenti. Ed era un vita in cui le cose avevano un proprio nome preciso, un proprio senso nella fatica di ogni giorno.
Per questo a un certo punto ho cercato (non so se ci sono riuscito, certo non del tutto) di riprendermi quello che avevo perduto, di recuperare quella lingua che considero la mia lingua del cuore. E di raccontare qualcosa in quella lingua che ormai ha pochissime parole, perché con essa puoi ancora raccontare il silenzio di un bosco o quello che rimane del paese, quattro case di numero, dove vivevano i nonni, ma non puoi raccontare (o puoi farlo ma con degli artifici, quindi un po’ barando) il senso di rabbia e inadeguatezza che provi di fronte al problema dell’immigrazione, da qualsiasi luogo provenga, o la magia di un incontro inaspettato in una qualche città del mondo. O forse puoi farlo, ma non avrebbe senso, almeno non per me. Quella lingua è nata, si è sviluppata e ora sta per scomparire per raccontare quella terra di confine e la gente che la abitava e la abita.
Per questo un giorno ho scritto:
Nie, da muormo nimar vekopat –
kajšan krat je zemlja previč tarda
(previč naša) – ostane tu pest
tist prah, ki niema nobenega okusa –
čaka na daž, na parvi vietar,
ki porauna baude an spraznuje
kar je arjavega – kar nimar vič
v nas osmodi.
Che in italiano farebbe
Non è che dobbiamo sempre scavare –
a volte la terra è troppo dura
(troppo nostra) – resta nel pugno
quella polvere che non ha sapore –
attende la pioggia – il primo vento
che spiana le rughe e allontana
la ruggine – ciò che sempre di più
in noi va ardendo.
Ho usato il condizionale, farebbe. Bisognerebbe farlo sempre, nelle traduzioni. Ma in questo caso, soprattutto, c’è una parola che non è tradotta esattamente. L’ultima. Il vero osmoditi non significa ardere. Per il dizionario sloveno-italiano significa bruciacchiare, bruciare, scottare. Ma per me significa una cosa che non ha traduzione, in italiano. Non con una sola parola. Per me significa quando, svoltata la polenta sul tavolo, nella pentola in rame rimane la crosta bruciacchiata. E allora mia madre, quando ero piccolo, diceva sempre che bisogna stare attenti, quando si cuoce la polenta, da se ne osmodi. Che non si bruci, sotto, la crosta. Perché la crosta è sempre stata, per me, la parte migliore della polenta.
Michele Obit