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Il corpo è paragonabile a una frase che vi incita a disarticolarla perché, attraverso una serie di anagrammi senza fine, si ricompongano i suoi autentici contenuti.
Hans Bellmer
Sopra dei tornelli da edicola trovai due libriccini mezzi, all’osso e con le orecchie tutte accavallate. Li disinstallai piano dai ferri e dagli inverni, mentre al giornalaio il mio sembrò un gesto di igiene insperata. Ma quei tornelli mossero delle vere e proprie sliding doors.
I due testi che presi con me furono una sfasciata antologia di greci antichi (dalla pagina 67 tutta scodinzolante) e il piccolo All’alba Shahrazad andrà ammazzata di Giuseppe Varaldo, edizione 1993, che si rivelò uno dei libri più pericolosi mai entrati nei laboratori di lingua sostanziale di un ventenne in cerca. Si trattava di scritture monovocaliche, divertimenti che sembravano enigmi meramente elitari e che divennero per me, invece, una prima palestra di metro e spirito.
I giocattoli per adulti di Varaldo mi fecero da subito venire in mente le sculture linguistiche di Hans Bellmer. Quel loro sillabario, pornografico perché in continua rotazione e in ripetizione, dava metastasi a partire dal pezzo soggettuale (e dunque tumorale) deciso alla base. Insomma, Bellmer fondeva anatomie di sola lettura, sconfitte e sterili e, in molte creazioni, dai pezzi con polarità uguale (gambe e gambe o braccia e braccia), eppure non totalmente respingenti, quindi coesistenti in attrito. Dei prodigi, dei freak regolari. L’opera di Varaldo era, allo stesso modo, trappola asfittica per il lettore: le regole severe del suo gioco mi riportavano alla chiusura della nostra serialità genetica, al denunciare un ulteriore, definitivo depauperamento dello stesso miserabile, già vanissimo Logos umano.
Si veda, di seguito, il busto di quasi sole rotule in Bellmer, e un sonetto dalle vocali bloccate in “O” che le richiamano, le rotule: testo tratto da Oblomov, sempre in All’alba Shahrazad andrà ammazzata. L’identica povertà inerziale.
Sono Stolz: sono tosto, son formoso,
mordo, lotto col mondo, lo controllo.
Col corpo grosso, bolso, tondo, mollo
l’opposto son: non fo, non vo, non oso…
Non sopporto lo sforzo (ognor lo doso),
non conosco bon ton o protocollo,
non corro, non convolo, ho corto collo…
Son Oblomov: son goffo, son goloso.
Colgo lo scopo – so o trovo modo –:
spopolo, sprono, compro, provo, sondo.
Ho molto sonno, sogno, dormo sodo:
non sgobbo, non sto scomodo, non grondo,
ronfo, fo poco moto, poco godo.
Scontroso? Sotto sotto ho cor profondo!
2
Su quella pagina 67, scodinzolante dall’antologia di greci salvata all’edicola, invece, il nome di Ipponatte apparve per eclissi dietro un’altra pagina strappata. Non avendo possibilità di prendere appunti verso casa, informai con quel ritmo claudicante il chewing-gum che masticavo, e lo resi intrusione di perla. Una perla collocata nella piena anteriorità conscia del mio volto. Solo con quella gomma lo suonai, senza vocabolario, imitando il greco nella maniera più vicina a quello che era il mio italiano in corso, di corsa.
fr. 42
Ferma e fila. Inerme mai, adieu killer, via.
e pecora mai, toy di carta in carica costringo
che hai, babà l’uso
do linea nipponica, ti cachi, appassisco
che hai: samba liscio casquè? e rischia che ha chiuso,
state pazzesche, contato rustico.
fr.43
e mio caro, ti chiedo, ché su te con klinex
basai anche novità, armato di goes
out, ask here in city spostata da sé yes, sì
e crew […]
3
Conoscevo bene la fame solo perché la voce, quando si alzava, a volte la portava con sé, me la presentava: quando leggevo Ipponatte, tra voce e fame avevo quindi solo la separazione di quel bolo di chewing-gum, un bolo peraltro pericolante fino alla fine, sul filo della possibile ingestione. Di ingoiare la lingua, rischiavo volentieri.
Il suo avviso, il più delle volte, causava solo quel rovescio miracoloso e irrefrenabile che era lo scriverne, che è lo scrivere. Il chewing-gum poi velocemente diveniva del cibo sospeso/cibo non cibo, allora del cibo zombie. Eppure, sufficiente. Mi ritornava, il chewing-gum, molta parte della stessa aggressività che gli usavo, lasciandomi una bocca neutra, trasformava stati d’animo dannosi, agiva nella bocca in background, era il sogno realizzato dei denti mentre da matrice la gomma conglomerava meglio dell’arenaria. Del resto, è prodotta per essere in tutto adesiva e soddisfacente.
La sua carne estranea (e in apparenza irrisolta) registrava senza tregua i miei calchi più violenti, come lo Schmürz, il personaggio miserabile de I costruttori di imperi di Boris Vian, dove la sua creatura-sacco veniva, a un certo punto, impunemente maltrattata.
4
Forse si conserverà pure la voce. E, forse, questo nostro educato chewing-gum la comprenderà nella sua elastica, pratica concrezione grigiastra. Il ricambio del bolo, però, informato di gomma in gomma, in tanti sta rallentando, è quasi abbandonato, si fa a ogni giro e morso meno gustoso, in un mancato trasporto e ciò lo rende un intruso sputato. Certo lirismo satura ogni sfumatura di spettro, traccia triangolazioni e cristallizzazioni inutili. L’acquisto del veicolo, della pagina.
Molti supporti si sono già imposti (floppy, cd, dvd) e poi velocemente sono stati punti in una collezione tarpata di farfalle. Il chewing-gum ha però, dalla sua, per confermarsi matrice fossile, una fitta geologia. Strati e strati restano lungo le strade e gli asfalti, paragonabili solamente a un altro simbolo di comunicazione di successo, ovvero l’anfora di coccio che basò romanamente, da scarto e rifiuto, il monte Testaccio. Penso agli Americani che importarono quel loro chewing-gum che non abbiamo storicamente mai smesso di masticare, tranne forse nel recentissimo momento di una oralità divenuta sospetta, sospettata. Diventata spia di.
Nella crisi dei supporti mobili vergini, il chewing-gum nel suo infinito educarsi da oggetto/soggetto interviene di nuovo, allora, per creare ostacolo. Rimane in me l’energia di una violenza meccanica con tanto di perla e una ricerca riassunta tutta ancora in quella pallottolina sfinita, in quel tessuto che esce comunque esperto, tecnico, pur in qualità di tessuto cicatriziale.
La lingua, quello strumento che non ho mai smesso di forgiare.