Il linguaggio produce sempre uno spostamento. Di senso, di realtà. Senza infilarsi nel tunnel senza uscita della parola-magia, ovvero della parola in grado di sovvertire ciò che esiste e di trasformarlo in non-normalità, direi più che altro che il linguaggio è ricettivo ai minimi sintomi del cambiamento e contemporaneamente, per ragioni che richiederebbero troppo spazio per essere approfondite in questa sede, è in grado di amplificarlo. La lingua di molti poeti delle nuove generazioni dice: il corpo non è separato dall’anima. Sacro e profano sono categorie che hanno il gusto della decomposizione perché implicano la stasi dove, al momento, il desiderio è quello di mischiare, confondere, contaminare. Non siamo più interessati, dicevo, alla dicotomia, bello o brutto, giusto o sbagliato, luce o buio, ma alle possibilità intrinseche a questi macro-temi, che si moltiplicano davanti ai nostri occhi come in una casa degli specchi. La possibilità del buio di essere luce. La possibilità della pornografia di essere sacra. La possibilità della vista di sconfinare nel tatto. In una delle prime pagine de Il profumo di Patrick Süskind (1985), Jean-Baptiste Grenouille pronuncia la seguente frase: «Il profumo è il gemello del respiro». Cioè una sostanza intangibile, effimera, ha la stessa matrice del respiro umano, che è un prodotto fisico-fisiologico conseguenza del movimento di sangue, tessuti, organi. Mi è venuto spontaneo applicare la stessa consapevolezza alla parola poetica. Il concetto serpeggiante alla base di molti discorsi è che la parola, in quanto entità astratta e intangibile, debba essere “incarnata”. Esattamente come il corpo di Cristo. Come se già non ci appartenesse, come se già estrarla non significasse estrarre una parte di noi.
E, invece, io credo, l’unico modo per rivelarne l’essenza, qualunque cosa questo significhi, è accettare che la parola sia avvolta in una sua propria pelle, uno strato epidermico che dobbiamo “percepire” prima ancora di “interpretare”. La percezione, quindi, è lo strumento conoscitivo al quale ritengo dovremmo affidarci con meno diffidenza nell’ambito della letteratura.
Possiamo individuare, forse, senza fare previsioni che si rivelino poi cieche, un acuirsi della necessità di indagare la dimensione biologica e cognitiva dell’umano. Il motivo mi sfugge, lo confesso. E non posso rispondere per altri, questo è certo, ma un’ipotesi non ha comunque mancato di fissarsi nella mia mente: non si tratta di un bisogno di realtà – la realtà dalla quale siamo circondati produce un atto contrario, quello della fuga e dell’alienazione – ma del desiderio di testarla. Se contassimo le realtà parallele che abbiamo scelto, più o meno consapevolmente, di abitare, forse proveremmo un senso di vertigine: avatar, metaversi, profili social, quanto di noi abbiamo proiettato nei mondi virtuali che ruotano come pianeti intorno a ognuno e, soprattutto, quanto di noi è rimasto qui? Allunghiamo la mano per tastare il corpo della realtà, perché vogliamo comprendere in che misura è sogno, in che misura è biologia, in che misura è artificio.
Non è un caso, infatti, che molti libri di poesia contemporanea abbiano come scenario un luogo chiuso – la casa, la camera, altro – che smette di essere semplice spazio nel momento in cui assume i connotati dell’ossessione di chi scrive e diventa, quindi, punto di osservatorio privilegiato su quell’ossessione. I soggetti, la poetica e la lingua dei libri ai quali mi riferisco sono lontani gli uni dagli altri anni luce ma, a mio parere, hanno un ossimoro di base in comune: la chiusura che apre a un altro mondo. Il soggetto sbatte come una falena contro i muri artificiali creati dalla parola e questo provoca una discesa inevitabile nella mente, nonché una percezione dolorosamente vivida delle parti biologiche che compongono il corpo confinato. Lo spazio chiuso è un escamotage per vivisezionare la realtà nelle sue parti organiche e inorganiche ed è anche la porta di accesso a un mondo costruito secondo nuove regole. L’effetto perturbante che i versi di questi libri producono è la conseguenza di una volontà di minare la percezione consueta della realtà.
Francesca Santucci, ne La casa e il fuori, dipinge le sembianze di un corpo che non riesce mai a sfilarsi (anche cognitivamente) dalle geometrie degli spazi che lo costringono, e che non fa che migrare da una stanza all’altra. Simone Burratti con Progetto per S. dimostra come rinunciare al pudore nel descrivere i fluidi e la disfatta di un essere umano non implichi il semplice nichilismo ma una sorta di disperata vitalità; il corpo di S., dalla sua posizione orizzontale, assurge a termometro della decadenza del mondo. Valentina Murrocu costruisce una serie di camere dove gli oggetti smettono di essere noiosi pezzi di arredamento e, come se si fosse all’improvviso caduti nella tana del Bianconiglio, si scompongono e si distorcono in base alle proiezioni, di vita di morte di erotismo, che l’io fa cadere su di loro (seguendo la linea segreta delle sue stesse cadute). Dimitri Milleri, in Sistemi, non costruisce un unico luogo inaccessibile ma un’intera architettura di chiusure, micro-realtà psichiche che si divorano e si rigenerano secondo i movimenti di un linguaggio che va in pezzi insieme all’io, alla realtà che lo circonda e al dolore che non può essere comunicato all’altro, trasformandosi in una nuova pelle.
C’è un libro intitolato Dialoghi con i non umani (Mimesis, 2019), una raccolta di saggi antropologici che può essermi utile nel condurre alla fine questa riflessione molto poco chiara. Le storie dei Gwich’in, una tribù di cacciatori dell’Alaska, raccontano che gli uomini e gli animali hanno un’anima in comune mentre i corpi, tra loro distinti, assomigliano di più a degli indumenti intercambiabili che a una pelle immutabile. Poiché gli animali, come gli uomini, sono padroni del proprio destino, per cacciarli è necessario sedurli, nel senso etimologico del termine, ovvero attirarli a sé, nelle maglie della trappola che è stata predisposta per loro. E non esiste altro modo per “sedurre” un animale se non assomigliarli: ecco, quindi, che gli uomini si camuffano, si trasformano intervenendo sulle loro sembianze, si staccano metaforicamente la pelle di dosso per scivolare in quella della loro preda. Si mettono nei panni dell’altro per poter raggiungere l’altro. E così, credo, sia lo stesso per la poesia: per chiamarla a sé bisogna prima sfilarsi la propria pelle – avendo coscienza, tuttavia, di quello che si abbandona – e infilarsi in quella della parola, senza continuare a illudersi di avere davanti uno spirito privo di un corpo.
Silvia Righi
In copertina Saturnus, olio su tela di Roberto Ferri