Ogni poeta che oggi scrive in friulano ha certamente vissuto una particolare infanzia sul piano sociolinguistico. Ha sentito per la prima volta nominare le cose del mondo attraverso la lingua materna, che per lui avrebbe poi rappresentato i confini di una realtà fatta di acque, campi, fossi, animali, nomi di persone. Gli veniva lasciato in eredità dagli avi un patrimonio linguistico costituito da suoni secchi, aspri, ma talora musicali, carezzevoli nei loro dittonghi. Tale eredità di sensi e suoni si sarebbe adagiata nel suo io profondo caricando le parole di una speciale risonanza emotiva. E così il termine “aga” sarebbe stato percepito più scivoloso, più umido della sua semplice traduzione “acqua” ; la parola “fòuc”, così secca, quasi onomatopeica, avrebbe evocato più efficacemente il crepitio di un ciocco del corrispettivo italiano “fuoco”; la parola “neif” avrebbe ben indicato lo sprofondamento soffice nel bianco infinito, piuttosto della lineare e anaffettiva “neve”. I significati sono gli stessi, è vero, ma ciò che cambia è la carica espressiva riversata sul significante.
E così quel dizionario orale si sarebbe depositato a poco a poco nel suo immaginario e lo avrebbe accompagnato nel suo processo di crescita psicologica e sociale… E se una volta adulto avesse voluto scrivere poesia trascrivendo quei suoni sulla carta, avrebbe attinto a quel serbatoio linguistico che rimaneva intatto dentro di lui. Tuttavia avrebbe incontrato una grande difficoltà, qualora fosse vissuto in un paese non molto lontano da Casarsa. Molte delle parole che avrebbe voluto adoperare si sarebbero inceppate, perché erano già state colonizzate sul piano emotivo da Pasolini e dai suoi seguaci. Se il nostro aspirante poeta, per esempio, avesse voluto adoperare, in una composizione, la parola “ciampanis” (campane), si sarebbe automaticamente agganciato a un’evocazione per niente neutra ma già intrisa di pesantezza pasoliniana (“jo i soi muart al ciant da li campanis”, “io sono morto al canto delle campane”;“quand li ciampanis a sùnin di muart” “quando le campane suonano a morte”; “il bot da l’Ave a no’l à pas” “il rintocco dell’Ave non ha pace”). E così per altre parole già prese in ostaggio dal sapore decadente: il “vint” che muore nel paese, con un “ridi pens tai vui”, un greve riso negli occhi etc. Il nostro giovane poeta dunque avrebbe avuto questa incombenza: uccidere il padre per andare oltre, per attraversarlo.
Ma una volta maturo, a un anno dalla morte reale di Pasolini, avrebbe fatto un’ulteriore scoperta: quella realtà che il poeta di Casarsa aveva cantato come un esempio di purezza, era stata deturpata, sfregiata da un frettoloso e inarrestabile cambio antropologico determinato dal consumismo (Pasolini nella seconda forma de “La meglio gioventù: “Fontana di aga di un país no me. /A no è aga pí vecia che ta chel país. / Fontana di amòur par nissún.” “Fontana d’acqua di un paese non mio./ Non c’è acqua più vecchia che in quel paese./ Fontana di amore per nessuno”). Ma il poeta maturo, comunque, pur prendendo coscienza del mutamento antropologico del suo paese, e del fatto che una babele di suoni plastificati lo stava assediando, si sarebbe in qualche modo aggrappato a quelle schegge di senso-suono affinché non smarrisse se stesso, e con lui l’origine di quei luoghi. Lo avrebbe fatto senza forzare il lessico, ma piuttosto sfruttandolo modernamente con infinite combinazioni di ritmi e immagini.
Giacomo Vit