Da molti anni Francesco Brancati lavorava a questo Assedio della gioia, suo primo libro organico e importante, dopo il volume collettaneo di qualche anno fa1. Chi lo ha seguito conosce la tenacia e la lucidità con cui ha scritto, costruito e riorganizzato questa opera nel tempo. È un libro complesso e rigoroso, che sfida e interroga i lettori e le lettrici a partire dalla soglia del titolo, apparentemente limpida e persino ingenua e invece per nulla trasparente: è un genitivo soggettivo o oggettivo, L’assedio della gioia? È la gioia che assedia uno o più soggetti – ed è la poesia che reagisce a questa evenienza – oppure è la scrittura che tenta un assedio alla gioia? E, in entrambi casi, di quale gioia si tratta, e che rapporto c’è tra questo titolo e il contenuto del libro, che come cercherò di dire risulta stratificato e spesso di problematica decifrazione?
Brancati è uno studioso di poesia contemporanea, come molti suoi coetanei e molte sue coetanee che pubblicano versi oggi. È naturale quindi che alla base di questa scrittura si avvertano gli influssi e il magistero di alcuni dei poeti sui quali la sua attenzione critica si è appuntata più a lungo e più a fondo. Non credo di sbagliare se faccio subito il nome di Amelia Rosselli, dalla quale Brancati avrà ereditato, tra le altre cose, il bisogno di ordine e la claustrofilia che per esempio lo portano, per radiografare subito la struttura, a comporre un canzoniere esattissimo di sei sezioni da otto poesie l’una incorniciate da due testi singoli (per il totale, rotondo, di cinquanta componimenti), al cui centro si espande la poesia più lunga e direi fecondamente disordinata, ovvero un rifacimento di The Love Song of J. Alfred Prufrock di T.S. Eliot – ovviamente con lo stesso numero di versi dell’originale e in chiave “negativa”, a partire dall’incipit («Non andiamo più, tu e io»).
Ma non è questo il sentiero che voglio percorrere per provare ad accompagnare questo libro: rintocchi, rifacimenti, criptocitazioni più o meno ironiche e deformanti della tradizione (come questa, ritmico-timbrica, da Montale: «Non deridere, trepida, quei giorni») andranno individuate dopo aver tentato di capire l’operazione complessiva di Brancati, la scommessa di senso che questo nuovo poeta affida alla sua opera. E allora bisognerà dire, innanzitutto, che quella cui aspira Brancati, per sua diretta ammissione, è la «parola che esprima gli altri» cercata ancora da Rosselli. La poesia che leggerete è complessa, difficile, speri- mentale: non dipinge mai, o quasi mai, un soggetto riconoscibile e forte; varia le istanze enunciative e i referenti di cui si parla (nel primo testo, per esempio, la voce poetante indica un soggetto in terza persona; nel terzo ci si rivolge a un non meglio identificato tu); si abbandona raramente a qualcosa che si potrebbe definire racconto, preferendo la giustapposizione di brevi squarci di realtà non complanari, che fanno attrito e costringono chi legge a una complessa operazione di interpretazione, non sempre destinata ad andare a buon fine. Come nella poesia di Mario Benedetti, altro poeta amato e studiato da Brancati, o per certi versi in quella più recente di Guido Mazzoni, i personaggi variano di continuo, le esperienze non si legano immediatamente in una narrazione unitaria e non producono un significato capitalizzabile.
Eppure L’assedio della gioia non è un libro che si arrende al caos, ma vuole invece provare a fronteggiare il buco nero del presente: ogni sezione ruota attorno a un nucleo tematico riconoscibile (malattia, cronaca e politica, amore, passato e memoria, scrittura e poetica, materia e rarefazione) e lo scava dal di dentro, sul filo dello «sguardo [che] annota» promesso dall’ultimo verso del testo incipitario e vero principio guida del libro: senza mai essere moralistico, Brancati ci mette sotto gli occhi i riflessi freddi e deformati del mondo contemporaneo e della sofferenza di individui malati, annegati nel Mediterraneo o stipati nei centri di accoglienza; oppure ci porta su un treno in cui un soggetto occidentale colto avverte il terrore della «sua innocente riproducibilità», o in una piazza dove «i turisti giapponesi fotografano / ogni cosa» mentre un gruppo di giovani guarda un video di maiali malati di peste suina e agonizzanti in una fossa comune. La quotidianità si squaderna nella sua oscenità che resiste a qualsiasi pacificazione dialettica: non ricaviamo un senso unitario, dalla lettura di questo libro, ma una sfilata di motivi (Il terzo motivo è il titolo della penultima sezione) che si compenetrano, impattano l’uno nell’altro, così come gli «sconosciuti nelle piazze», in un testo della prima sezione battezzato I nomi, invadono momentaneamente l’area di esistenza di un altro, degli altri: tutti hanno un nome, un motivo, una direzione (tutti aspirano naturalmente «a un’incolpevole e sicura / rivendicazione di individualità»), ma l’individualità – e qui si delineano i contorni del dialogo a distanza con il modello di Mazzoni – è anche un nucleo oscuro di resistenza alla condivisione, persino politica, di una storia comune.
Per dire tutto questo, occorre una lingua prensile e inclusiva. Brancati la conia accogliendo disfemismi, bestemmie, lessico tecnico, inglesismi, sigle, titoli di canzoni o di album (Sonic Youth, My Bloody Valen- tine, The Stone Roses, PJ Harvey…), ma anche tessere auliche e letterarie, in diversi testi: il classicismo di un maestro lontano come Franco Fortini, che occhieggia dal titolo parodico della seconda sezione (Paesaggio con passaggio) e rintocca nei versi-sentenza che Brancati dissemina nelle sue poesie («Nostri, i volti»; «Ma questo è ancora e sempre un uomo»), cede definitivamente all’esplosione del vocabolario e delle forme (versi, prosa, elenchi, testi seriali) tipica della nostra contemporaneità.
E quel titolo, L’assedio della gioia, così falsamente novecentesco? Le due semplici tessere nominali che lo compongono, «assedio» e «gioia», fanno letteralmente da colonna vertebrale al libro: riemergono, come refrain ritmici, di sezione in sezione, di testo in testo («L’assedio non inizia prima della tregua», dice l’incipit della poesia che apre la prima sezione Da una finestra; «L’assedio è una forma individuale / di conforto», risponde il primo verso della poesia finale), rimodulando il loro significato a seconda del contesto e costringendoci ogni volta a un ulteriore lavoro di interpretazione. Se è la gioia che assedia, coagulandosi in qualche testo in isole di luce che si stampano su una superficie, la poesia può essere un modo per accoglierla o al contrario per respingere l’ingiunzione capitalistica al suo perenne possesso, tanto sul piano della biografia personale (quella di chi ha scritto il libro, quella di chiunque), quanto su quello di una storia collettiva (se questo aggettivo ha ancora un senso).
Se invece siamo noi a cercare di conquistarla, come invasori di una città inespugnabile, questo primo libro di Brancati ci ricorda che tra un desiderio e il suo compimento resiste il diaframma della realtà, e che essa è infinitamente complessa, se in fondo ognuno spera di essere nient’altro che «una piccola paura / nella nebulosa di terrore del mondo».
Massimo Gezzi
Non riconosce, in fondo, nessun modo
per ritrovare il suono. E del resto
soltanto uno tra i giochi sarebbe
sopravvissuto all’invasione.
Gli altri, la loro Sarajevo di plastica,
gli arti a pezzi, smembrati nell’esplosione,
destinati a una veloce sepoltura
nel campo enorme di fronte la casa,
acattolica necropoli di Woody, Goku, Batman.
Adesso il suo uguale avversario
ritiene che ogni azione comprenda
l’unica variabile indispensabile,
assicurare una leggerezza
in caso la fuga, qualora l’assedio.
Prova a collegare le immagini della corsa
con quelle di lei precipitata verso il canneto
per nascondere la valigia: dietro la strada
e davanti il mare, quando la stanchezza
e le mani che tremavano avevano imposto
la rinuncia al conforto delle urla o del pianto.
Più tardi saranno inammissibili
le spie delle luci, il jack delle cuffie
con le regine intorno morte e i piaceri
ancora sconosciuti, pornografia e fede,
il paradiso o Las Vegas.
Per questo ricerca una serie di tracce
che non appartengono alla paura:
non per reclamare quanto lo distingue
ma come indovinando ciò che lo trattiene.
Soltanto non è possibile ricordare,
e anche questa è una menzogna.