In diversi libri di poesia usciti negli ultimi anni, specie tra gli autori più giovani, vi è un più intenso riferirsi alla dimensione biologica e neurocognitiva dell’essere umano, al suo essere incarnato e situato nell’ambiente (per esempio, accostando nella stessa scena eventi che coinvolgono particelle elementari a altri di natura cosmologica o geologica, o scomponendo il percepire nella sua materialità organica e inorganica). Sembra emergere un’idea di poesia come un’esigenza cognitiva della specie, dal momento che, nel leggerla, si compie un rito fossile, in cui la voce di un uomo entra nel corpo di un altro tramite il suono del pensiero. Nella mente è infatti il suono a consentire l’accadere del pensiero, innervato nella lingua, poiché è presente già nel momento in cui si formano la sintassi e il lessico. Da questa materia sonora e linguistica chi ascolta prende coscienza del suo sentirsi vivo, poiché è tutto il corpo a protendersi per l’inclinazione naturale a imitare il movimento e il ritmo. Leggere una poesia è muoversi nello spazio per percepirlo con la materia sonora cosciente. E questo incarna l’agire dell’essere umano.
Roberto Cescon
Visto che lo spunto molto interessante di Roberto Cescon apre a una prospettiva collettiva, risponderei a partire da quello che potremmo definire un “senso comune” della poesia. Definire cosa sia di preciso il senso comune è una questione complessa, che conviene lasciare al di fuori di questa riflessione; ma possiamo prendere per buono questo brutale schema a proposito di quali aspetti essenziali – per molti, anche addetti ai lavori – compongono la poesia: a) espressione (quindi un movimento dall’interno all’esterno); b) intimismo (quindi la rivelazione di un secretum); c) soggettivismo (quindi un porre al centro una voce/sguardo e generare una gerarchia tra chi dice e ciò che viene detto); d) commozione (quindi un’alterazione del piano emotivo del lettore).
Non credo serva esplicitare che questi punti, ovviamente non esaustivi, sono per di più puramente denotativi: niente impedisce di fare ottima poesia pur aderendo in maniera ortodossa a questo schema. È altrettanto evidente, però – ed è sufficiente, per convincersene, partecipare un po’ alla vita delle riviste (il blog che gestisco, “La morte per acqua”, mi ha fatto capire molto in questo senso) – che tali elementi favoriscono grandemente una pratica poetica spontaneista, dunque facile, dunque ipertrofica, che alimenta un circolo vizioso per cui la poesia finisce per coincidere con il sentimentalismo. A questo livello, possiamo dire, si colloca il “senso comune”, appiattito sull’equivalenza deteriore tra poesia ed emozione (stereotipata).
Fatta questa premessa, arrivo dunque allo spunto di Cescon, sottolineando che, stando così le cose, dal mio punto di vista una poesia incarnata e situata è già un’opposizione agli automatismi diffusi, all’applicazione cieca dello schema descritto sopra. Il sentimentalismo riprodotto attraverso moduli inconsciamente assimilati gioca contro se stesso, dacché produce un soggettivismo “di serie” – dunque incapace a rappresentare l’autenticità e l’irripetibilità dell’individuo su cui il soggettivismo stesso farebbe leva – e un sentimento ereditato – dunque non sentito, letteralmente, o sentito in forma mediata e dunque improprio. Nella tendenza osservata giustamente da Cescon, c’è quindi in primis questo tipo di valore, in certo senso programmatico (posto che, è chiaro, anch’esso può concretizzarsi poi in testi inefficaci, o peggio ingessati nell’obbedire a un contro-schema).
Così diversi libri recenti, soprattutto di giovani, aspirano a questa “incarnazione”, a dialogare col biologico, l’animale, dunque anche con la scienza, eventualmente, con gli oggetti. Penso qui ai lavori di Pasquale Del Giudice, ad esempio, in particolare a Piste ulteriori per oggetti dirottati (Ensemble, 2019), ad Alessio Alessandrini con Somiglia più all’urlo di un animale e I congiurati del bosco (Italic, rispettivamente 2014 e 2019), a Tutta la terra che ci resta di Silvia Rosa (Vydia, 2022), Lo stato della materia di Riccardo Socci (Arcipelago Itaca, 2020), Intermezzo e altre sinapsi di Marilina Ciaco (Edizioni Volatili, 2020), e l’elenco potrebbe proseguire. Capire perché, a livello storico e sociologico, si senta il bisogno di esplorare queste dimensioni aliene al “soggettivismo”, forse è possibile solo con la lente del tempo. Potrei immaginare a un’influenza del dibattito sull’antropocene, ad esempio, o più in generale – che è interconnesso – all’urgenza della questione climatica; o ancora a una sorta di ritorno del rimosso culturale, dove il rimosso è la natura incomprensibile e selvaggia, extraumana, ottusa da una virtualità e una tecnologia pervasive che impediscono di esperirla quotidianamente. In ogni caso, però, la risposta si fermerebbe al livello di ipotesi o tassello. Dunque, più che sulle ragioni, vorrei soffermarmi qui sulle direzioni che questo tipo di opere possono aprire.
Io stesso, infatti, con Lo spettro visibile (Arcipelago Itaca, 2022), mi sono mosso in questo senso, proponendo una poesia che si facesse carico non tanto, o non solo, del lessico, bensì soprattutto dei metodi delle scienze naturali, spingendoli a cozzare con la ratio analogica, ritmica e immaginifica della poesia, e dunque a depauperarsi. Divisa in sezioni che si occupano di varie classi del “visibile” (animali, piante, rocce, elementi chimici), l’opera infatti tende a interpretare – verbo non casuale, umanistico – gli oggetti animati e inanimati non più con lo sguardo della mathesis bensì con quello della poiesis; ovvero non sottoponendoli a misurazione e conversione in dati, bensì interrogandone la simbolicità intrinseca, il loro essere evento dell’esistenza e sua specifica declinazione.
L’effetto – auspicato, almeno – è doppio: da una parte opporsi allo scientismo, dall’altro incarnare la poesia nei fatti materiali. Mi pare infatti di osservare che la cultura del nostro tempo stia attraversando un nuovo positivismo – esacerbato anche dalla gestione dei fatti pandemici – che attribuisce alla scienza una dimensione quasi teologica, di rivelazione “dall’alto” di una verità. Questo a mio avviso comporta almeno tre macro-conseguenze problematiche: 1) a livello culturale produce l’equivalenza tra gnoseologia e scienza, declassificando le altre forme di conoscenza (quale ad esempio la letteratura); 2) a livello politico funzionalizza il sapere e dunque lo piega al servizio della tecnica, cioè dei potentati economici; 3) a livello scientifico contraddice l’essenza stessa della scienza, ovvero il suo carattere dubitativo e non dogmatico.
Ecco dunque quale può essere il ruolo di una scrittura che pensa a Lucrezio e recupera una scientia che non è solo la scienza positivistica, ma qualcosa di più ampio, che fa interagire scienza e poesia e non le ghettizza nei rispettivi quartieri. La scienza, attraverso lo sguardo della poesia, si misura con la vita non quantificabile, rientra in un progetto di sapere al servizio dell’uomo e non viceversa; la poesia, per contro, si confronta col mondo materiale, con l’incontro-scontro tra pensiero e corpi, ed evita così il rischio di un misticismo sfibrato, blandamente empatico, che pure è il rischio di molta poesia contemporanea. Sono Eliot e Ponge, oltre a Lucrezio, i riferimenti fondamentali della mia operazione; e già questo indica la strada: l’oracolare alienato e precipitato nello stridore dei linguaggi, dal primo; l’apertura alla vividezza degli esseri, dal secondo.
Uscendo ora da questa dimensione un po’ autoreferenziale, e concludendo, posso dire dunque che percorsi di questo genere tentano di riportare al verso quella capacità gnoseologica che gli è propria e che si attiva tramite meccanismi incomprensibili alla scienza – ovvero l’analogia, il suono, il linguaggio sfidato nella sua ambiguità e nel suo spessore fondamentale. Lo sguardo sull’animale, sulla carne, sull’uomo-in-quanto-corpo, insomma, è una delle strade tramite cui la poesia può schiudersi alla sfida più dura, e però più potente: sollevare linguaggio da ciò che linguaggio non è; o – che è lo stesso – costruire visioni a partire dalle ancore della materia.
Antonio Francesco Perozzi
In copertina Anatomy of a winged / Anatomia di un alato, Nunzio Paci 2013, olio, bitume su tela – www.nunziopaci.it