In dialogo con Antonio Turolo


 

Un anno fa usciva per Le Lettere, nella collana diretta da Diego Bertelli e Raoul Bruni, la quarta pubblicazione in versi di Antonio Turolo, poeta che centellina le sue uscite (Le parole contate si chiamava, non a caso, il suo debutto nel sesto quaderno italiano di Poesia Contemporanea del 1998) sempre mantenendo, nonostante l’arco ormai venticinquennale del suo lavoro, un’innegabile fedeltà, dichiaratamente ossessiva, a un nucleo di temi e a uno stile ormai riconoscibilmente suoi (di quanti poeti italiani oggi si può dire una cosa simile?). Ne La bella vita c’è tutto ciò che i lettori di Turolo si aspettano, assieme a qualche novità: ci sono le poesie familiari, le collane ospedaliere, la cronaca di provincia, flash dall’infanzia solitaria, moltissime morti, qualche viaggio, parole altrui rimaste incagliate nella testa, piccole trafitture, e c’è il suo tono piano, limpido, quasi inamovibile dal suo solco endecasillabico. C’è, soprattutto, un doppio fondo costante, fatto di una tetragona fragilità e di un candore non privo di asprezze, di affondi drammatici che tolgono il fiato e scampoli di black humour, che garantisce di poter tornare su questi versi con la sicurezza di poterne sempre avere qualcosa, in termini emotivi, certo, ma anche come specola privilegiata, naturalmente marginale, da cui riflettere sulle storture del mondo. A ragione Flavio Santi, nella prefazione al libro, inserisce Turolo «tra gli autori più originali e interessanti di questi decenni». Aggiungerei senza dubbio: tra i migliori. 

 

FT: Nella tua ultima raccolta proseguono alcuni filoni, come quello familiare e quello ospedaliero, che sono un vero basso continuo della tua scrittura. La cosa che colpisce, anche graficamente, è che sempre più questi tuoi testi si costruiscono su frasi dette o sentite, da cui una teatralità che eleva all’ennesima potenza quell’«intensità emotiva sempre molto alta» di cui scrive Flavio Santi nella prefazione. Molti testi sembrano una piccola messinscena, ridotta a una-due battute (piccole trafitture, / quasi niente) che, dopo essere probabilmente andate in loop nella testa, trovano nei versi una loro liberazione. Ci puoi spiegare questa proliferazione di parole altrui? Come le gestisci nella pratica: rielabori vecchi appunti o vai a memoria nel momento in cui scrivi?

AT: La prima affermazione è innegabile. E mi piace pensare ad una coerenza tematica di fondo in quello che ho scritto negli anni, girando intorno ad alcune ossessioni psicologiche che continuano a visitarmi: le cliniche, la casa di riposo, i ricordi di mia madre e mia zia (e qui entra anche la prosa dedicata a Gianfranco Folena, la cui figura paterna si è insediata   ormai stabilmente nella mia costellazione familiare). Si tratta di una materia intima, appartata e certo estranea ai massimi eventi della Storia, ma come lettore guardo con sospetto agli scrittori che si appropriano di tragedie immani come la guerra o la povertà nel mondo, senza averle vissute in prima persona, e trovo anche pesantissima certa retorica politica, come ad esempio quella di Franco Fortini. Anche molta parte degli scritti di Pasolini, di cui quest’anno ricorre il centenario (ma quanti ce ne sono in Italia!), mi sembra indigesta, ma ci vedo un differente spessore esistenziale, e – devo riconoscere – la sua stessa icona biografica mi irretisce. Aggiungo qui una certa simpateticità, psicologica e non stilistica, per i film di Fassbinder o meglio ancora di Abel Ferrara, quando parla di dipendenze o di religiosità. Come nel caso di P.P.P., guardo malvolentieri le loro opere, ma ci riconosco una certa “aria di famiglia” con me. Volendo poi entrare proprio nel laboratorio della mia scrittura, mi accorgo di aver registrato mentalmente certe battute di dialogo ascoltate o anche lette come notizie di cronaca tempo fa. Mi è anche capitato di prendere qualche appunto al riguardo, per fissarle meglio. Su un piano più terra terra, ho pubblicato poco in quasi un quarto di secolo, non per una scelta etica, di volere restare nell’ombra, ma perché scrivo solo d’estate, quando ho la testa libera da impegni di lavoro.  Un impulso alla stesura dell’ultimo libro è venuto dal lockdown e dalla segregazione imposta dalla pandemia. 

 

FT: Questi testi più personali sono intrecciati ad altri legati a notizie di cronaca (spesso nera), in cui la scena è lasciata ad altri protagonisti (accadeva già nei prosimetri di A parte il lato umano). Sono poesie reticenti, micro-schegge narrative che molto spesso si focalizzano su figure dipinte nel momento dello sfacelo o della morte (ci sono moltissime morti, in questo libro chiamato La bella vita). Cosa ti attrae di certe notizie al punto da farne l’occasione di una poesia?

AT: In effetti, l’unico scatto in avanti rispetto all’autobiografia delle prime due raccolte è dato dall’ingresso di alcuni faits  divers. Ma si tratta di uno progresso apparente: sono tutte notizie di tragedie alla mia portata, di ambito quotidiano, prosaico, piccolo-borghese, con cui sono in grado di entrare in sintonia e di identificarmi anche se non le ho vissute in prima persona.  

 

FT: La presenza di una sezione chiamata Poemas católicos non è una totale novità, visto che alcune poesie di ambiente seminariale e claustrale facevano capolino già nelle prime sillogi. C’è una differenza rispetto a quelle liriche (in cui ti definivi, tra le altre cose, laico da quattro soldi)?

AT: In realtà non sono credente, ma continuo ad orbitare intorno alla religione cattolica, cui mi lega il ricordo delle due persone che mi hanno educato, e la frequentazione da adolescente dei francescani di Treviso, e più tardi anche della Basilica del Santo a Padova. Per questi strascichi affettivi penso che il mio sentimento verso la religione non sarà mai lineare o neutro. Penso tra l’altro che anche un giudizio razionale su duemila anni di cristianesimo sia molto complicato. Lo vedo come una specie di prisma, in cui si mescolano elementi emotivi, culturali, e anche estetizzanti, se penso ad esempio alla bellezza della chiesetta di Santa Lucia, sempre a Treviso. Di sicuro sento la mancanza di una dimensione comunitaria che è stata tipica della mia adolescenza, e che non ho più ritrovato. A questo allude l’ultima poesia della raccolta, che si intitola Zurbarán, soprannominato il pittore dei conventi.

 

FT: Una poesia è intitolata Treviso. Già in Corruptio optimi pessima c’era la collana da Treviso uno a Treviso otto. Continua a ispirarti versi, la tua città. Potrebbe essere sostituibile con qualsiasi altra città o ha, almeno nella tua poesia, una sua specificità?

AT: Treviso non è sostituibile, nel male e nel bene, perché è la città in cui ho sempre vissuto, e si può dire che ogni suo angolo mi richiami alla mente qualcosa del mio passato. Al riguardo c’è un bel testo di Kavafis, che si intitola La città. Altro discorso per il Veneto: un tempo bigotto, poi arricchito, e ora impoverito (non sono in grado di andare oltre questi luoghi comuni), che mi piace sempre meno. Ma l’ambivalenza entra anche nel ricordo di mia madre, come penso accada un po’ per tutti, quando da adulti ci si volta indietro a guardare come siamo stati educati.  

 

FT: Il tuo stile continua a essere diretto, chiaro, limpido, caratterizzato da una semplicità che è in realtà tutt’altro che facile da raggiungere, come dimostrano l’estrema cura lessicale e metrica, con un dominio incontrastato dell’endecasillabo. Quanto lavoro di lima fai sulle tue poesie?

AT: La mia ambizione, e non so se finora ci sono riuscito, è di scrivere degli epigrammi drammatici. La misura breve ha come unico modello consapevole il grande Kavafis, già nominato, le cui poesie ammettono anche talvolta uno sviluppo narrativo. Se dovessi salvare un autore o una raccolta – gioco crudele – del secondo Novecento sceglierei Gli strumenti umani di Sereni, un libro di più di cinquant’anni fa, che si trova ormai anche nelle antologie scolastiche, del tutto alieno da sperimentalismi formali. Mentre mi ha sempre lasciato freddo la neo-avanguardia con le sue propaggini e relative performance multimediali. Naturalmente c’è posto per tutti, ma quello che ho visto non mi ha spinto ad approfondire. Colpevolmente non leggo molto di scrittori viventi. Anche perché per come l’intendo io, la poesia andrebbe centellinata, e ciò richiede concentrazione. Nel tempo libero preferisco prendere in mano qualche classico. E così mi fa piacere scrivere versi di misura tradizionale. Quanto alle correzioni per ortopedizzarne qualcuno, in realtà non ho dovuto faticare molto.  

 

FT: A livello stilistico mi hanno colpito la diffusione di diminutivi, diciamo, “corrosivi” (discorsetto, erbetta, famigliola, bambinello, storiellina, coppiette, dolcetto) e la presenza non rara di un interlocutore “nemico” (e vedi di smetterla, e vedi di farla finita). Mozzi chiudeva la prefazione a Corruptio optimi pessima parlando, per la tua poesia, di tenerezza, e Buffoni parlava di un poeta tenero e indulgente con gli altri. Io ci sento anche una carica erosiva, sottile ma molto forte; non a caso in questa nuova raccolta cade anche la parola vetriolo. C’è anche un polo di asprezza nella tua poesia?

AT: Sì, certo, c’è anche questo estremo corrosivo, ma rivolto pure contro me stesso. Nella raccolta d’esordio, Le parole contate, un testo si intitolava Veleno. Credo che abbia a che fare con l’emergere di ricordi o idee fisse che stanno nel mio fondo. Le ossessioni non vanno bene nella vita, e nella psicologia, ma funzionano in poesia. Periodicamente arriva un’onda del mare che le fa tornare a galla.