Scrusciu (Samuele Editore-Pordenonelegge, Collana Gialla, 2022) è l’ultimo libro della siciliana Erica Donzella. Non si tratta di un esordio, poiché l’autrice vanta alcune pubblicazioni, come Pyro (Prova d’Autore, Centovele, 2012), Lucky Strike (Prova d’Autore, 2015) e Quando cadranno i rumori (Scatole parlanti, 2019).
La maturità stilistica dell’autrice è ben evidente a chi legge già a partire dalla silloge immediatamente precedente, Quando cadranno i rumori (Scatole parlanti, 2019), in cui la Donzella gattonava in bilico tra il silenzio e il rumore; quel rumore in cui si è costantemente immersi nella quotidianità, ma che appunto per questo necessita di bagliori d’intimità, di un pizzico di silenzio. Un rumore che ha bisogno di essere colto in una fase caratterizzata dal distacco, scivolando lungo il tratteggio della scia di elementi che permettono a chi poeta la sua realtà di riappropriarsi di ciò che può manifestarsi sottoforma di qualcosa di più autenticamente sfuggente.
Dunque, giacché «La verità è nelle foglie / nel tappeto ruggine / caduta nel margine», come si legge in Scrusciu, «Bisogna credere al sole quando tace. / Starsene come le bestie / dentro le tane. / Fare con la fame una preghiera» (p. 10). Da questi versi si innalzano con pregnanza tutti quei richiami che si lanciano le assonanze, tra di esse, incappando inevitabilmente nel porre l’accento sui rimanti del secondo e terzo verso della decima pagina del libro.
L’inquietudine nella poesia di Erica Donzella sembrerebbe non trovare pace nel poetare, nonostante l’autrice dia prova di non potervisi sottrarre, poiché le sue poesie sono percorse – e scosse – da una esuberante, acuta tensione che – come si legge sulla bandella – si riflette in un «dettato duro come corteccia, che a passarci dentro si diventa linfa e che procede a fiotti potenti, a ondate di luce gettate sul buio, talvolta con cadenza sentenziosa e anaforica», dato che il «corpo è sudore, mappa delle mani, incendio delle ossa». Ed è per questo che una delle preghiere è quella formulata nella chiusa della quattordicesima pagina del libro, dove il corpo è una riduzione («macerie / bordi anneriti di cuore. / Non si plachi l’ira dell’amore», cit. a p. 14). Oltremodo, la corporalità coincide con la conta delle sottrazioni, mentre la frequentazione e lo scavo nel dolore si snodano per abbagli e per sbagli, per addizione (p. 16). La preghiera è un faro che da una supplica alla lividezza della corporeità si fa resistenza con cui imbiancare il buio della vita, ed è l’amore; segue un esempio, tratto dalla diciannovesima pagina, dove natura e corpo li si vorrebbe congiunti, ma confusi, in un letargo di rumori:
Questo chiedo.
Che la voce sia tuono
e la pioggia partitura pesante.
Che esista una tua legge,
una natura senza rumore.
L’amore è «come un livido uscito dal cuore» (p. 21), come un arto fantasma il cui moto è percepito dal lettore, che può riuscire a coglierne tutta l’incandescenza, come si evince prima dalla venticinquesima pagina:
Benedetti gli esseri
quando resistono in un bacio
alla morte, incandescenti.
Sia santificato il sudore primordiale dei corpi.
Non siamo ancora finiti.
E poi, successivamente, come si evince dalla quarantottesima pagina:
Volevi l’incandescenza dei tramonti.
Un autunno fatto ambra.
Bambina ruggine
– bocca porpora e foglia di castagno –
io avevo soltanto candele bianche
per illuminare a metà
i nostri corpi di ferro.
Infine, la seconda sezione del libro, ovvero la sezione dialettale intitolata “Chiafura”, ispirata all’etimo ed alla forza del natio paese Scicli, è una ragnatela di carne, lunga e sottile, in cui si legano tutti i temi di Scrusciu, in cui è però evocata anche la memoria di Chiafura, un antichissimo quartiere scavato nella roccia (situato al di fuori della limitrofa cittadina di Scicli), che è tutto ed è altresì il contrario di tutto, dal momento che è definito da Donzella come una donna dai tratti agrodolci («Muntagna russa e citrigna / che cianchi iauti sii fimmina maligna: / bedda e schifiusa», cit. a p. 64).
Oggi Chiafura è un parco archeologico. E, a ben vedere, indagando le radici di Chiafura le si scopre nel loro vinciglio con Pier Paolo Pasolini che la visitò nel 1959 – su invito del comunista Giancarlo Pajetta e del circolo culturale dedicato a Vitaliano Brancati –, per poi scriverne un articolo, un reportage apparso sulla rivista «Vie Nuove», in cui raccontò delle precarie condizioni di vita in cui versavano i cosiddetti “chiafurari”, ossia quei membri del popolo sciclitano che abitava nelle grotte della località di Chiafura, senza energia elettrica e riscaldamento (cfr. Scicli, la vita nelle grotte raccontata da Pasolini: “Gironi del purgatorio” – da La Repubblica).
Per tornare a Scrusciu, in definitiva, “Chiafura” è una sezione breve, che si dipana attraverso una decina di componimenti, e spinge il lettore a riflettere sui meccanismi sociali perché, scrive Erica Donzella, «Il cervello delle persone funziona a gettoni, / gli devi dare un colpo per farli telefonare. / È finita che dobbiamo capire chi campa / e nel mezzo / quando fa buio / se è nera o bianca» (dalla traduzione in calce a p. 62). È pure sul lettore che ricade la scelta di accogliere o meno questa chiamata.
Finìu ca l’acqua ro mari è aruci
ca u pisciaru vinna a carni
ca a curpa è ri chiddi boni.
Finìu ca chiddi ca si pisciunu n’coddu fanu ciauru
e chiddi ca si lavunu fetunu a carogna.
U ciriveddu re cristiani funziona a gettoni,
c’addari n’coppu pi falli telefonari.
Finìu ca ama capiri cu ci campa
e ‘ndo menzu
quannu scura
se gghie niura oppuri ianca.
È finita che l’acqua del mare è dolce / che il pescivendolo vende la carne / che la colpa è dei buoni. / È finita che quelli che si pisciano addosso profumano / e quelli che si lavano puzzano a carogna. / Il cervello delle persone funziona a gettoni, / gli devi dare un colpo per farli telefonare. / È finita che dobbiamo capire chi campa / e nel mezzo / quando fa buio / se è nera o bianca.