«…l’altopiano poetico, vasto e sicuro […] ha il rovescio della medaglia: fanno difetto le vette». Tiziano Broggiato il poeta che ha curato la raccolta delle testimonianze in I padri della parola (Pellegrini Editore), individua così, immediatamente, la condizione della poesia italiana almeno a partire dagli anni ’70: l’assenza della frequentazione di personalità forti e lo smantellamento della comunicazione letteraria. Insomma quella generazione sembra avere ucciso i Maestri o, quanto meno, sembrava non sentirne più il bisogno. Ecco perché I padri della parola − titolo splendido (che Broggiato chiosa dall’omonimo poemetto di Giuliano Goroni) − tenta di aprire una tregua nel bailamme della frammentazione, «per ripensare soprattutto alle letture formative che ci hanno assistito». Diciassette tra poeti e poetesse raccontano (in alcuni casi, anche in modo troppo autoreferenziale) il loro rapporto coi maestri. Per Patrizia Valduga è stato Giovanni Raboni, «la mia seconda vita» insieme a «Tasso per i versi e Landolfi per la lingua»; per Bertoni, Giovanni Giudici, anche se incontrato in «età sinodale». Se Cucchi elegge Andrea Zanzotto assommandolo al magistero di Giudici e Risi, Buffoni indica invece Vittorio Sereni, in cui ritrova e rivede il padre. Con accattivante ingenuità anche una poetessa «non laureata» come Vivian Lamarque indica Raboni, confessando i suoi debiti poetici in un post scriptum tanto breve quanto irresistibile. Giuseppe Conte − una formazione regolarmente disordinata, il fascino delle traduzioni su tutto − indica Adonis, «che − precisa − mi ha insegnato quello che in Occidente non mi era dato di trovare: mi ha confermato a me stesso». Renato Minore ricorda Ungaretti, «primo poeta della mia vita», che legge in metropolitana i gialli della Christie; Umberto Piersanti invece attraversa l’Urbino peripatetica insieme al Volponi politicamente impegnato: «lui solo, un poeta, poteva parlare del vento in un comizio». «Poeti ne ho conosciuti tanti − confessa Gabriella Sica − e da tutti ho ricevuto una scintilla di conoscenza, per un’ora o per un anno sono stati i miei maestri» e su tutti Elio Pagliarani, che la investe di quel compito di «segretaria-amica-artista-esperta in maieutica» che sarebbe durato fino alla morte. «Noi parlavamo di lingua opposta al linguaggio, come dire verità opposta a menzogna»: ecco perché Claudio Damiani sceglie Beppe Salvia, quasi un coetaneo, con cui fonda la rivista Braci e, in un periodo di fermenti «rivoluzionari», insieme ad altri poeti rivaluta «la patria, come terra dei padri e della lingua». Lui è uno che i suoi maestri se li va a cercare casa per casa: Caproni, Bertolucci, Pagliarani. E se Mussapi, anticipando un ampio stralcio di un testo-intervista di prossima pubblicazione, individua in Bonnefoy il suo principale riferimento, Giampiero Neri, in pagine intensissime e accorate, ricorda il rapporto col fratello Giuseppe Pontiggia. I maestri di Giancarlo Pontiggia invece sono stati «uomini di altri tempi»: il poeta sente così di appartenere alla generazione «che ha sentito nell’antico la dimensione profonda dell’addio, di qualcosa che non potevamo più essere ma che forse per questo continuava ad agire in noi […] come una sorta di utopia dell’anima». Per Loretto Rafanelli, che ha coniugato l’attività di editore prestigioso (I Quaderni del Battello Ebbro) a quella di poeta, il riferimento non può non essere Luzi e la sua poesia di «disarmante onestà», esempio di «totale verità», pur sottolineando i legami con Roberto Carifi e soprattutto con Piero Bigongiari, nella cui produzione poetica il poeta bolognese legge «l’ispirazione assoluta». Assai significative, infine, le testimonianze dei due poeti più «giovani»: se Davide Rondoni si lancia «nel fuoco della poesia di Testori e Luzi…, un viaggio nell’abisso, rapimento del celeste dell’umano, un viaggio dove ti giochi l’anima. Se no è letteratura, cioè merda, come diceva Rimbaud», Gian Mario Villalta evoca il lungo e fecondo rapporto col magistero di Zanzotto, del quale sottolinea in pagine visceralmente partecipate la capacità di «attrarre un’altra mente nell’orbita della propria», non senza trascurarne l’austera ironia nei confronti di se stesso e degli altri. Un libro importante, dunque, I padri della parola, che se da un lato permette di ricostruire un universo davvero straordinario di rapporti umani e letterari a volte difficili e conflittuali, a volte spregiudicati e beffardi, ci consente, dall’altro, in una mappatura trasversale, di individuare il farsi stesso della poesia e dei poeti, ovvero quella storia e geografia di cui parlava Dionisotti, nel segno del Maestro, figura che − come ricorda saggiamente Villalta − «devi incontrare e frequentare. Perché il maestro insegna, nel senso più proprio della parola: segna dentro».
Tiziano Broggiato (a cura di), I padri della parola, Luigi Pellegrini Editore, 2022